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Stop armi allo Yemen

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Il prossimo 25 febbraio è in programma un dibattito presso la sede del Parlamento europeo a Bruxelles su una soluzione riguardante lo Yemen, comprendente anche una richiesta per lo stop di forniture di armi a tutte le parti coinvolte nel conflitto. Il bene della popolazione civile ed il rispetto delle leggi umanitarie internazionali. Sono questi gli elementi principali che, secondo oltre 20 organizzazioni non governative europee, il Parlamento Europeo dovrebbe tenere in considerazione nelle prossime decisioni riguardanti il conflitto in corso nel paese arabo. Tutto ciò è riportato in una lettera che oltre 20 organismi internazionali,che si occupano di controllo degli armamenti, hanno inviato oggi ai presidenti e vicepresidenti di tutti i gruppi presenti al  Parlamento europeo. Alla luce della ormai chiaramente documentata estensione delle violazioni di diritti umani è evidente come gli Stati Membri dell'Unione Europea non debbano più permettere spedizioni di materiale che possa essere usato nel confitto nello Yemen. Nell'elenco c’è anche la Rete Italiana per il Disarmo in quanto partner italiano dello European Network Against Arms Trade. Nella lettera, si sottolinea come gli Stati Membri UE che continuano a trasferire armamenti verso l'Arabia Saudita stanno chiaramente violando la Posizione Comune sul controllo dell'export di armamenti. Inoltre per quanto riguarda l'Italia, anche la legge 185/90.

di Giorgia Gambone e Maria Chiara Chiaromonte
 

Italia-Egitto: il cinico traffico di armi contro i diritti umani

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La recente morte in Egitto del ricercatore friulano Giulio Regeni, le cui circostanze sono ancora poco chiare, ha lasciato l’opinione pubblica italiana senza parole. E’ necessario scoprire la verità (lo stesso Ministro Gentiloni ha ribadito: “Non ci accontenteremo di verità presunte”) e, come affermato in un recente appello del presidente della Repubblica Mattarella, bisogna consegnare i responsabili alla giustizia “attraverso la piena collaborazione delle autorità egiziane”. Per raggiungere tale obiettivo è necessario far luce su quali siano i rapporti tra il nostro paese e l’Egitto. Secondo Rete Disarmo, le relazioni che legano l’Italia all’Egitto vanno contro la sospensione delle licenze di esportazione verso il paese nordafricano di armi e materiali utilizzabili a fini di repressione interna decretata nell’agosto del 2013 dal Consiglio dell’Unione Europea. Infatti, secondo le dichiarazioni di Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle Armi Leggere (OPAL) di Brescia, nonostante le restrizioni, mai revocate, stabilite dall’Unione Europea, l’Italia ha continuato imperterrita a fornire armi all’Egitto: nel 2014 ha venduto 30mila pistole alle forze di polizia egiziane e, ancora, nel 2015, ha inviato in Egitto 1236 fucili a canna liscia. Secondo Amnesty International da quando il generale Al Sisi è salito al potere, le organizzazioni per i diritti umani hanno registrato centinaia di casi di sparizioni e oltre 1700 condanne a morte, quasi tutte ancora non eseguite, senza contare che la tortura è un’arma abitualmente praticata in Egitto, sopratutto nelle carceri, nelle stazioni di polizia e nei centri di detenzione. “In questo contesto – commenta Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo – appare ancor più grave il continuo invio dall’Italia di armi verso l’Egitto: significa, infatti, sostenere direttamente l’operato delle forze di polizia e di sicurezza e fornire strumenti per poter compiere le loro brutali azioni di repressione”. Dulcis in fundo, Martina Pignatti Morano, presidente dell’associazione “Un ponte per…” , aggiunge che l’Italia, in cambio di un accordo sulla vendita e trasporto del gas naturale trovato dall’ENI a largo delle coste egiziane, ha scelto di attuare “una riabilitazione politica del regime militare” di Al-Sisi, il quale, dalla propria nascita, non ha mai rispettato diritti umani e libertà d’espressione. I giornalisti, in Egitto, subiscono persecuzioni e processi irregolari. Vi sono migliaia di attivisti laici e musulmani nelle carceri della tortura e dell’ingiustizia e in questi luoghi l’apprendimento della logica del terrore potrebbe indurre chiunque a diventare un jihadista. Distruggere queste realtà è di fondamentale importanza per la lotta contro il terrorismo e ora, sta all’Italia, decidere da che parte stare.

di Francesco Lazzaro (studente Scuola di Giornalismo per Ragazzi di Campobasso)

Ebree “liberal”, protesta a colpi di pannolino

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Pannolini sporchi, bottiglie d’acqua, sedie di plastica: queste le armi con cui hanno lottato le cosiddette “ebree liberal” lo scorso 10 maggio davanti al Muro del Pianto.

Un gruppo di donne emancipate si è radunato nel luogo sacro di Gerusalemme, come già in atto da qualche settimana. Il loro scopo? Quello di pregare, ma a modo loro. Volevano celebrare il giorno sacro del Sivan indossando un mantello rituale e leggendo un brano dai Rotoli della Bibbia. Usanza prerogativa degli uomini, regolata dalla “Tzanua”, il concetto di modestia nei costumi secondo l’ortodossia ebraica.

Da qui, ieri, sono partiti pesanti insulti da circa 15 mila zeloti radunatisi nella Spianata del Muro, sfociati in una vera e propria rissa a mano armata. Sì, armata di pannolini. “Per quanto matte insignificanti, ora veniamo rappresentati dalla stampa come lanciatori di pannolini”, ha dichiarato il rabbino Mordechai Neugerstal, ammettendo una sconfitta tattica, pur screditando le “ebree liberal” come “infedeli”.

Una tappa decisiva di questa emancipazione femminile è stata raggiunta una settimana fa, grazie al riconoscimento alle “Donne del Muro” da parte di una corte di Gerusalemme del pieno diritto di pregare nel proprio modo. Sentenza che ha provocato la collera di molti rabbini, i quali propongono per le “matte ribelli” “un recinto separato, a distanza di sicurezza dagli ortodossi” nel luogo sacro.

Ma le “liberal” non sembrano intimidite né disposte a cedere a queste minacce. Gli ultimi scontri  ne sono una prova.

 

di Giovanna Del Corso

 

 

Guerra per il petrolio dinanzi casa nostra

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Trivellazioni nel Mar Adriatico per l’estrazione di tonnellate di idrocarburi con il sottosuolo marino perforato a pochi chilometri dalle coste di Vasto, Termoli, Ortona e San Vito Chietino. Tutto ciò viene definito come una guerra “silenziosa” in Adriatico dato che un argomento di tale importanza non riceve le dovute attenzioni e le adeguate riflessioni che vedono intersecarsi interessi politici, economici e privati con in testa i colossi del petrolio interessati al nostro mare. Sono tre le società che hanno presentato i propri piani in merito all’argomento: società Petroceltic di natura irlandese, con il progetto ELSA2  che intende effettuare un pozzo esplorativo; Rockhopper, progetto OMBRINA MARE, punta dai 4 fino ad un massimo di 6 pozzi d’estrazione, ed infine la famosa società italiana, Edison, con il progetto ROSPO MARE intende eseguire trivellazioni per 3 pozzi d’estrazione.  Con il nuovo decreto “Sblocca Italia” vengono facilitate le perforazioni alle grosse società petrolifere, dato che quest’ultime non hanno più bisogno di un’ autorizzazione. Il DL è entrato in vigore il 13 settembre 2014 ed è retroattivo dal momento in cui riguarderà non solo le future attività ma anche i vecchi permessi di ricerca che possono essere convertiti in un unico titolo concessorio. In questo modo si dà il via libera ai colossi del petrolio e non viene data la possibilità ai comuni ed alle regioni di opporsi. Il ministro dell’ambiente è favorevole mentre in Abruzzo è nata l’associazione “NO TRIV” contraria al progetto OMBRINA e le trivellazioni che danneggerebbero  la pesca ed il turismo, settori che negli ultimi tempi hanno garantito notevoli introiti ai comuni dei territori interessati. È da tener conto, però, che nel caso vengano installate le piattaforme le compagnie dovranno pagare una tassa sul gas e sul petrolio estratto. Il corrispettivo in denaro corrisponde al 7%, per le estrazioni in mare, del valore di produzione di gas, ed al 4% per quello del petrolio. L’aliquota verrà poi ripartita tra: lo stato a cui spetta il 30%, le regioni interessate che prendono il 55% ed i comuni con il restante 15%. Questo potrebbe rappresentare entrate rilevanti. Guardando invece la situazione dal punto di vista ambientale, non si sa ancora le tecniche che verranno usate per le perforazioni dei fondali ma essendo in mare, sono esentate dalla lista la fatturazione idraulica, metodo con cui si crea una frattura nella roccia mediante la pressione dell’acqua, o l’estrazione del cosiddetto “shale gas” che deriva da giacimenti di argilla non convenzionale. è stato appurato che quest’ultimo costituiva problemi di impatto ambientale e di conseguenza c’è stata pressione da parte dell’Europa affinché si interrompesse la sua produzione. Per consentire l’estrazione è necessario rispettare le norme di sicurezza fondamentali, sia per l’ambiente che per i cittadini.  Gli elementi principali di cui tener conto sono l’atmosfera, l’acqua ed il suolo, questo fa si che prima di installare le piattaforme vengano studiati i medesimi elementi in modo tale da non permettere che fenomeni naturali ed atmosferici interferiscano con le attività e non facciano disperdere nell’aria elementi dannosi come quelli derivanti dall’estrazione di gas e petrolio, come ad esempio CO2 che deve mantenersi sotto la soglia dello 0,5%. Se le norme non vengono rispettate, la società dovrà ripristinare il territorio a proprie spese oltre ad incorrere a sanzioni pecuniarie, ma sembra che, nel nostro caso, i colossi abbiano rispettato a pieno i canoni elencati. A questo punto è giusto porci qualche interrogativo: il Governo Renzi come gestirà questa situazione? Continuerà a renderla una guerra “invisibile” e “silenziosa” oppure farà prendere parte alla vicenda anche l’opinione pubblica facendo l’interesse collettivo? E soprattutto, lasceremo che società straniere ci prendano il petrolio da sotto al naso o ci adopereremo ad estrarlo noi, pur con la consapevolezza che alla fine andrà comunque ai soliti colossi petroliferi?

di Gabriele Calabrese

Siria, quando un gioco si trasforma in una strage

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Un calcio ad un pallone. Poi uno scoppio, tanto fumo e confusione. E’ successo sabato 24 novembre a Dajr al Asafir, a sud di Damasco. Alcuni bambini che stavano giocando in uno spiazzo sono stati uccisi da una bomba a grappolo (cluster bomb), sganciata dagli aerei governativi. La denuncia è scattata dai residenti del sobborgo, i quali hanno messo in rete un video che evidenzia gli effetti del bombardamento. Nel filmato si mostrano lo spiazzo dove i ragazzini stavano giocando, alcune submunizioni dell’ordigno, una delle abitazioni colpite, due bambini morti ed alcuni adulti feriti. Secondo le ricostruzioni dei residenti di Dajr al Asafir, le vittime sono dieci: nove bambini ed il padre di uno di questi. Anche nella zona nord-occidentale del Paese, tra Harem e Atm, i caccia governativi hanno preso di mira il campo profughi di Quah, in cui da mesi sono ospitati circa 10 mila siriani. Molti di loro sono fuggiti nei campi, ma – secondo i comitati di coordinamento dei residenti della zona ­- il bilancio provvisorio corrisponderebbe a 76 vittime, senza contare i militari uccisi. Ma i media ufficiali hanno smesso di attestare tutte queste stragi. L’unica informazione è che degli “eroici soldati” governativi hanno ucciso “un alto numero di terroristi di al Qaida” nella regione di Damasco. Intanto, l’Unrwa, l’agenzia Onu che si occupa di profughi palestinesi in Medio Oriente, afferma che sono tra i 300 e i 500 mila i rifugiati in Siria coinvolti nelle violenze.

 

di Giovanna Del Corso