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Il Punto del Direttore

Ucraina, la Russia alza il tiro e attende la contromossa

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Dopo l’azione militare russa di stanotte ora la palla passa agli americani. Biden non si impegnerà più di tanto a difendere Kiev, avendo già avvertito gli alleati che non combatterà in Ucraina. Del resto c’era da aspettarselo. Il vero obiettivo resta quello di un negoziato che va avanti da troppo tempo. Secondo Mosca la Nato non deve assolutamente permettere l’ingresso dell’Ucraina nell’organizzazione. Putin ha dichiarato che lui non vuole invadere l’Ucraina ma vuole difendere i separatisti del Donbass e smilitarizzare l’Ucraina. La vicenda del Donbass è storicamente rilevante. Stiamo parlando di un’area filorussa da sempre, sia a livello culturale sia etnico e religioso. La memoria ci riporta indietro al tempo dell’elezione di Victor Yanukovich, espressione della parte russofona del paese, fra cui il Donbass, essendo lui stesso nato a Donetsk. Prima di Yanukovich il governo precedente aveva preso degli impegni attraverso dei colloqui per una preadesione all’Ue. Il 13 gennaio 2005 il Parlamento europeo approvò quasi unanimemente (467 voti a favore e 19 contro) una mozione che stabilì il desiderio del Parlamento di instaurare stretti rapporti con l’Ucraina in vista di una possibilità di ingresso nell’Unione. Yanukovich bloccò tutto scatenando la rabbia delle generazioni più giovani e della parte del paese ad occidente del Dniepr. Yanukovich verrà rimosso con la forza e poco dopo scatterà una contro-rivolta che porterà alla nascita delle repubbliche autonome di Lugansk e Donetsk, di recente riconosciute dalla Russia. La digressione storica ci fa comprendere come effettivamente la Russia abbia interesse a difendere quella parte russa, nella regione del Donbass, e probabilmente ad annettersela nel tempo, un po’ come successo con la Crimea in un passato recente. Tuttavia l’altro punto cruciale è la smilitarizzazzione dell’Ucraina. Gli obiettivi colpiti nella nottata sono stati raggiunti molto probabilmente da missili lanciati dal territorio russo e bielorusso. Armi, definite dall’esercito russo, di precisione. La Russia al momento conta un esercito di 774.500 unità e 45 mila mezzi corazzati e blindati; la Marina 160 mila unità di personale e 850 navi, l’Aeronautica 4000 mezzi. In particolare si annoverano cento modernissimi carri T 14, circa 550 T 90 versione A e M, MS; T 80 e T 72; IFV BMP 1, 2 e 3, oltre a numerosi tipi di lanciamissili controcarro Kornet T e D, Khrizantema. Molto più ridotta la capacità dell’Ucraina segnata anche da armamenti vetusti. Il personale dell’esercito risulta essere di 169 mila unità. I mezzi terrestri ammontano a 832 carri armati, tra cui T 64, T 64 BM, T 80 e T 84; i veicoli AFV sono del tipo BTR 70, BTR 80, SBA Novator e BTR 4; gli IFV (10.135 unità) sono BMP 1, BMP 2, BM 27 e altri. L’aeronautica conta 300 velivoli circa tra cui aerei MiG-29, Su-27, Su-25, Su-24, Su-24МР, L-39, Il-76, An-26, An-24, An-30, Tu-134 e infine 155 elicotteri MI-8, MI-9, con commesse occidentali aggiuntive non ancora effettuate (H225 e H 145). Mosca è cosciente di poter esercitare solo una ridotta influenza commerciale sull’Occidente, nel tentativo di provare a fermare il percorso di integrazione dell’Ucraina verso l’Occidente ha iniziato a intraprendere azioni coercitive, alternando l’uso della forza militare – vedi stanotte – a minacce di aggressione “ibrida” per costringere l’Alleanza a ridurre al minimo l’impegno profuso nei confronti dell’Ucraina. La smilitarizzazione dell’Ucraina potrebbe risultare un atto importante perché a quel punto diventerebbe una sorta di stato neutrale non più russo, visto che la Russia ha perso l’Ucraina già diversi anni fa, ma neanche della Nato.
Nel frattempo stamani il petrolio ha sfondato quota 100 dollari al barile e il prezzo del gas è volato a 125 euro/megawattora. Nella guerra tra Russia e Usa sulla questione Ucraina a rimetterci come al solito sono i civili già in fuga e gli stati dipendenti a livello energetico come l’Italia che vedrà da subito un’impennata ancora maggiore del costo del petrolio e del gas, in un periodo già critico per le conseguenze pandemiche. La diplomazia europea è stata relegata ai margini. Mentre Stati Uniti e Russia continuano a negoziare e ad assurgere posizioni dominanti nello scacchiere geopolitico, i Paesi europei vengono marginalmente consultati da Washington rimediando anche delle figuracce, come nel caso recente del nostro ministro degli Esteri Di Maio.
 
tratto da Il Fatto Quotidiano del 24-02-2022
 

Afghanistan, ancora Kabul sotto attacco. Perché l’instabilità politica la rende obiettivo dell’Isis

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Almeno 8 persone sono state uccise in una serie di forti esplosioni che hanno scosso il centro di Kabul, inclusi diversi razzi che sono atterrati vicino alla Zona Verde, dove hanno sede molte ambasciate, il palazzo presidenziale e società internazionali. Le esplosioni si sono verificate in zone densamente popolate della capitale afghana in una continua ondata di violenza che ha investito Kabul. L’attentato è stato rivendicato dall’Isis. Nell’area occidentale di Kabul vivono diverse comunità della minoranza sciita hazara e sono spesso tra gli obiettivi dei miliziani sunniti dell’Isis. L’affiliata afghana dell’Isis si definisce la “Khorasan Province”, in riferimento ai territori dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Asia centrale che formavano l’omonima regione ai tempi del Medioevo. Oggi conta migliaia di combattenti, che provengono principalmente dall’Asia centrale, ma anche da Paesi come la Cecenia, l’India e il Bangladesh.  L’organizzazione terroristica è particolarmente attiva nelle province di Nangarhar e Kunar, ma ha la forza di effettuare attacchi anche a Kabul. L'emiro fondatore dell'IS-K, Hafiz Saeed Khan, è stato ucciso da un attacco aereo degli Stati Uniti nella provincia di Nangarhar, Stessa sorte è toccata ai tre emiri successivi. I combattenti del presunto Stato Islamico inizialmente istituito tra Iraq e Siria, sono in cerca di nuovi territori da occupare per portare avanti il piano di restaurazione del califfato. E tra le zone più promettenti oltre l’Africa su cui hanno acquisito una serie di territori, c'è sicuramente l'Afghanistan. La continua instabilità politica favorisce infatti l'inserimento dei nuovi combattenti jihadisti, che vengono però respinti anche dai Taliban che considerano Kabul ancora la propria capitale. L'Isis è entrato dunque in scena cercando di portare a termine attacchi contro il governo locale. I Taliban si sono impegnati a non attaccare le aree urbane secondo i termini di un accordo di ritiro degli Stati Uniti. Infatti i Taliban e i negoziatori del governo afghano hanno avviato colloqui di pace a Doha a settembre, ma i progressi sono stati lenti. Finora i Taliban   hanno ottenuto tutto ciò che volevano, sia dagli Usa sia dal governo afghano. Il loro obiettivo primario era la fine dell’occupazione mentre l’altro, quello di delegittimare il governo di Kabul, è conseguito dall’accordo bilaterale Usa-Taliban. Probabilmente i Taliban ritengono di potere passare all’incasso, ottimizzando il controllo territoriale su una parte del Paese. Il fronte istituzionale caratterizzato dai rappresentanti del governo, dell’opposizione, della società civile è diviso al proprio interno, riflesso di quell’antagonismo culminato attorno al duello tra Abdullah Abdullah e il presidente Ghani. Una guerra nella guerra insomma. Da un lato i Taliban contro il governo legittimo afghano e dall’altra il governo contro l’Isis/Khorasan che cerca di conquistare terreno. Il Pentagono ha dichiarato che presto ritirerà circa 2.000 truppe dall'Afghanistan, accelerando la tempistica stabilita in un accordo di febbraio tra Washington e i Taliban che prevede un ritiro completo degli Stati Uniti a metà del 2021.  Negli ultimi sei mesi la scia di sangue non si è arrestata tanto che i Taliban hanno effettuato 53 attacchi suicidi e 1.250 esplosioni provocando  la morte di 1.210 civili e 2.500 feriti, così come dichiarato dal portavoce del ministero dell'Interno Tariq Arian. Kabul è da tempo terra di tutti e di nessuno. Gli uomini di governo restano protetti nelle proprie roccaforti, si spostano su mezzi blindati statunitensi e viaggiano volando da una base aerea Usa a un’altra.  Il regime è ormai disciolto in un Paese instabile sempre più obiettivo dello Stato Islamico del Khorasan che continua a lanciare segnali forti.

Il punto del direttore (da Il Fatto Quotidiano)

Intervista al direttore di Embedded Agency in uscita con il suo nuovo racconto

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Le Cirque de la Guerre e altri racconti è l’ultimo lavoro del direttore di Embedded Agency, Roberto Colella, pubblicato da Palladino Editore. Ancora una volta, l’autore, Roberto Colella, giornalista di guerra e docente di Terrorismo Internazionale, ci porta in una dimensione quasi onirica e fantasiosa, che vede protagonisti alcuni bambini vittime di guerra, che daranno vita, con l’aiuto di Monsieur Dupont, ad un vero e proprio circo speciale. Non a caso, come dice la quarta di copertina: “I sogni dei bambini finiscono tutti sotto un’unico tendone”.

Dottor Colella, ci può dire, da cosa sono scaturiti questi racconti?

Allora, in realtà, “Le Cirque de la Guerre” è un’idea nata all’interno dell’Officina dello Scrittore, situata a Matrice (CB). Nel racconto i protagonisti sono dei ragazzi, ragazzi che trascorrono la loro quotidianità in contesti difficili. Un esempio su tutti, l’equilibrista di Bujumbura, la capitale del Burundi, piccolo stato africano nella regione dei Grandi Laghi che ha vissuto una guerra civile durissima durata 13 anni dal 1993 al 2006.

Quanto i suoi reportages di guerra hanno influenzato questo testo?

Beh, lo hanno influenzato moltissimo, soprattutto alcuni racconti che sono contenuti nel libro, in particolare, uno, “Il rugbista di Beit Jala”, che narra la nascita della prima squadra di rugby in Palestina. Questo racconto in particolare è stato recensito anche dalla Gazzetta dello Sport, da Sky Sport, da Ugo Francica Nava giornalista sportivo de La 7, così anche da Franco Di Mare, giornalista di Rai 1. E’ ovvio, che per raccontare di guerra, bisogna vivere e conoscere le esperienze che si vuole raccontare, non a caso, un grande maestro come Kapuscinski ci diceva che il vero reporter è quello che dorme, mangia, beve con i personaggi delle sue storie.

I bambini che oggi popolano le zone dove ci sono in atto guerre, possono diventare i terroristi di domani?

E’ un problema serio quello legato all’infanzia nei contesti di guerra, nel senso che l’odio verso il nemico lo si può reprimere, così come si può trasformare in qualcosa di orribile, per arrivare ai bambini soldato, vittime psicologiche della guerra e di uomini senza scrupolo. Certamente, chi vive in un contesto bellico, vive soprattutto un’infanzia difficile, già segnata da morte e povertà.

di Domenico Pio Abiuso

Attacchi a Londra e all'Aja, il terrorimo diffuso dei cani sciolti

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Il terrorismo colpisce ancora e lo fa in prossimità delle feste natalizie. Ieri a Londra, poco prima delle due del pomeriggio, un uomo alto, dagli occhi scuri e con la barba, poi identificato in Usman Khan, 28 anni, dello Staffordshire, con un coltello ha ucciso due persone, ferendone altre. Subito dopo è stato immobilizzato da alcuni passanti e ucciso dalla polizia. L’uomo era stato già in carcere per una condanna per terrorismo islamico. Poco dopo anche all’Aja, in Olanda, l’arma usata è stata un coltello, nelle mani di un 45-50enne dalla carnagione scura, con una tuta grigia, un giacchetto nero e una sciarpa. In giro per Grote Markstraat, strada commerciale particolarmente affollata per il Black Friday, l’uomo ha scelto le sue vittime alla rinfusa, colpendole sempre con un coltello. Giù lunedi scorso sempre all'Aia erano state arrestate due persone che pianificavano un attacco con auto bomba per fine anno. Gli attentati di ieri hanno riportato in auge la tecnica terroristica legata all’uso dei coltelli, ampiamente documentata in vari articoli sulle riviste del presunto Stato Islamico e in particolare su Rumiyah (ISSUE 2) nell’articolo “Just Terror Tactics” (Knife attacks). “Qualcuno potrebbe chiedersi perché i coltelli rappresentano una buona opzione per un attacco. I coltelli, anche se sicuramente non sono l’unica arma per arrecare danno al kuffar (miscredente), sono ampiamente disponibili in ogni terra e quindi facilmente accessibili. Ci sono alcuni estremamente facili da nascondere e altamente letali, soprattutto nelle mani di qualcuno che sa come usarli efficacemente. Quando si sceglie un coltello, si dovrebbe fare attenzione prima di tutto alla sua affilatezza. Poi si dovrebbe considerare la forza della lama e del manico e cercare qualcosa che sia adatto al lavoro da compiere. Inoltre non dovrebbe essere molto largo, poiché risulta poi difficile nasconderlo. Lame seghettate o semi-seghettate costituiscono buoni coltelli da combattimento. E’ esplicitamente consigliato di non usare coltelli da cucina, poiché la loro struttura di base non è progettata per un assassinio o una carneficina.” A questo punto nell’articolo si consiglia di usare i coltelli con la lama fissa, ovvero quelli in cui manico e lama sono realizzati con un unico pezzo di metallo. “Quando si conduce un’operazione col coltello non è consigliato prendere di mira aree troppo affollate o raduni, poiché ciò rappresenta uno svantaggio e aumenta la probabilità di fallire nella missione. Il rischio è dunque quello di essere bloccati preventivamente e di essere ostacolati nel raggiungimento dell’obiettivo.” Quindi per certi versi gli attentatori di ieri hanno fallito e ciò dimostra ampiamente che queste operazioni nascono, in modo scoordinato e per fortuna non adeguatamente pianificato. Tutto ciò però ci fa ben intendere gli interessi del post Califfato, ancora in fase di riorganizzazione ma maledettamente diffuso, pronto a colpire in qualsiasi angolo, dai grandi centri fino al terrorismo rurale. L’allerta in questo periodo, successivo alla morte di Al Baghdadi e alle festività natalizie, è massima. Difficile ridurre a zero il rischio di attacchi da parte di lupi solitari o "cani sciolti", che agiscono autonomamente. Dopo le stragi con dei tir, diversi centri cittadini sono stati chiusi con paletti, misure di blocco o con la presenza di forze dell'ordine e militari. Ma queste misure non sono sufficienti a scongiurare il pericolo che si ripresenta in modo costante e puntuale.

Il punto del direttore (da blog.quotidiano.net)

Jihad e Spagna, le infiltrazioni in Catalogna

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La Spagna si risveglia colpita di nuovo a più di dieci anni dall’attentato di Atocha a Madrid. Che causò la morte di quasi 200 persone. Allora c’era Al Qaeda oggi Daesh. Il fenomeno dell’immigrazione islamica in Spagna è cominciato in tempi relativamente recenti attraverso diversi flussi migratori. La prima ondata, nei primissimi anni Ottanta, era costituita da siriani, libanesi e palestinesi, molti dei quali emigrati politici sfuggiti alle persecuzioni dei regimi arabi contro i Fratelli musulmani. Alla fine degli anni Ottanta è partita la seconda ondata, stavolta di massa e legata alla ricerca di lavoro, quasi tutta proveniente dall’area del Maghreb. Negli anni Novanta il flusso degli immigrati musulmani è ancora aumentato e si è concentrato a Madrid, Barcellona e nella fascia costiera fra Valencia e Almeria. Nonostante una presente non massiccia di musulmani rispetto ad altre zone europee, nonostante un islam moderato aperto al dialogo, nel tempo la Catalogna insieme alle enclave di Ceuta e Melilla è diventata la culla del jihadismo spagnolo. La Cia aveva avvertito le autorità spagnole di un possibile attentato proprio a Barcellona. A corroborare ciò va aggiunto che la Catalogna è la comunità autonoma spagnola con il maggior rischio di radicalizzazione di musulmani. Tutto ciò veniva suffragato da una ricerca del ministero degli Interni spagnolo basata su un algoritmo elaborato dai servizi segreti, in cui sarebbero 9837 gli individui potenzialmente in grado di formare cellule estremiste. La maggior parte dei terroristi islamici che operano in territorio spagnolo scelgono le comunità musulmane pacifiche basate in Catalogna per infiltrarsi e creare cellule clandestine.  La Confederazione spagnola di polizia (CEP), associazione che ha quasi 3000 affiliati, aveva confermato da tempo che la Catalogna era diventata “il centro di reclutamento dei più grandi terroristi islamici in Europa” aggiungendo che ogni mese quattro o cinque musulmani che vivono in terre catalane si trasferiscono in Iraq, Cecenia e Afghanistan per addestrarsi. E così dopo l’attentato di Barcellona la Spagna, corridoio del jihadismo, si riscopre vulnerabile proprio quando l'Isis perde le sue roccaforti. E’ ormai evidente che Daesh sta indietreggiando ed è un fenomeno in decrescita avendo perso anche dei territori importanti oltre che dei combattenti. Alcuni di questi sono rimpatriati nell’intento di agire con forme di terrorismo diffuso. La Car intifada è una tecnica sperimentata da tempo che dall’attentato di Nizza, passando per Berlino, Londra, Stoccolma ha fatto diverse vittime innocenti. A Barcellona ancora una vota due fratelli Moussa e Driss Oukabir di Aghbala, nati in un cittadina sull’Atlante, con residenza a Ripoll, in Catalogna. Partiti dal Maghreb per colpire al cuore la Spagna o meglio le terre che i jihadisti chiamano Andalus, il nome arabo dei loro domini nella penisola iberica. La riconquista di Andalus è fra le “rivendicazioni” dell’Isis che da tempo attraverso il suo principale organo di informazione Rumiyah incita i combattenti a uccidere gli infedeli schiacciandoli con dei camion o accoltellandoli.

Il punto del direttore (da blog.quotidiano.net)