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Il Punto del Direttore

Ucraina, la Russia alza il tiro e attende la contromossa

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Dopo l’azione militare russa di stanotte ora la palla passa agli americani. Biden non si impegnerà più di tanto a difendere Kiev, avendo già avvertito gli alleati che non combatterà in Ucraina. Del resto c’era da aspettarselo. Il vero obiettivo resta quello di un negoziato che va avanti da troppo tempo. Secondo Mosca la Nato non deve assolutamente permettere l’ingresso dell’Ucraina nell’organizzazione. Putin ha dichiarato che lui non vuole invadere l’Ucraina ma vuole difendere i separatisti del Donbass e smilitarizzare l’Ucraina. La vicenda del Donbass è storicamente rilevante. Stiamo parlando di un’area filorussa da sempre, sia a livello culturale sia etnico e religioso. La memoria ci riporta indietro al tempo dell’elezione di Victor Yanukovich, espressione della parte russofona del paese, fra cui il Donbass, essendo lui stesso nato a Donetsk. Prima di Yanukovich il governo precedente aveva preso degli impegni attraverso dei colloqui per una preadesione all’Ue. Il 13 gennaio 2005 il Parlamento europeo approvò quasi unanimemente (467 voti a favore e 19 contro) una mozione che stabilì il desiderio del Parlamento di instaurare stretti rapporti con l’Ucraina in vista di una possibilità di ingresso nell’Unione. Yanukovich bloccò tutto scatenando la rabbia delle generazioni più giovani e della parte del paese ad occidente del Dniepr. Yanukovich verrà rimosso con la forza e poco dopo scatterà una contro-rivolta che porterà alla nascita delle repubbliche autonome di Lugansk e Donetsk, di recente riconosciute dalla Russia. La digressione storica ci fa comprendere come effettivamente la Russia abbia interesse a difendere quella parte russa, nella regione del Donbass, e probabilmente ad annettersela nel tempo, un po’ come successo con la Crimea in un passato recente. Tuttavia l’altro punto cruciale è la smilitarizzazzione dell’Ucraina. Gli obiettivi colpiti nella nottata sono stati raggiunti molto probabilmente da missili lanciati dal territorio russo e bielorusso. Armi, definite dall’esercito russo, di precisione. La Russia al momento conta un esercito di 774.500 unità e 45 mila mezzi corazzati e blindati; la Marina 160 mila unità di personale e 850 navi, l’Aeronautica 4000 mezzi. In particolare si annoverano cento modernissimi carri T 14, circa 550 T 90 versione A e M, MS; T 80 e T 72; IFV BMP 1, 2 e 3, oltre a numerosi tipi di lanciamissili controcarro Kornet T e D, Khrizantema. Molto più ridotta la capacità dell’Ucraina segnata anche da armamenti vetusti. Il personale dell’esercito risulta essere di 169 mila unità. I mezzi terrestri ammontano a 832 carri armati, tra cui T 64, T 64 BM, T 80 e T 84; i veicoli AFV sono del tipo BTR 70, BTR 80, SBA Novator e BTR 4; gli IFV (10.135 unità) sono BMP 1, BMP 2, BM 27 e altri. L’aeronautica conta 300 velivoli circa tra cui aerei MiG-29, Su-27, Su-25, Su-24, Su-24МР, L-39, Il-76, An-26, An-24, An-30, Tu-134 e infine 155 elicotteri MI-8, MI-9, con commesse occidentali aggiuntive non ancora effettuate (H225 e H 145). Mosca è cosciente di poter esercitare solo una ridotta influenza commerciale sull’Occidente, nel tentativo di provare a fermare il percorso di integrazione dell’Ucraina verso l’Occidente ha iniziato a intraprendere azioni coercitive, alternando l’uso della forza militare – vedi stanotte – a minacce di aggressione “ibrida” per costringere l’Alleanza a ridurre al minimo l’impegno profuso nei confronti dell’Ucraina. La smilitarizzazione dell’Ucraina potrebbe risultare un atto importante perché a quel punto diventerebbe una sorta di stato neutrale non più russo, visto che la Russia ha perso l’Ucraina già diversi anni fa, ma neanche della Nato.
Nel frattempo stamani il petrolio ha sfondato quota 100 dollari al barile e il prezzo del gas è volato a 125 euro/megawattora. Nella guerra tra Russia e Usa sulla questione Ucraina a rimetterci come al solito sono i civili già in fuga e gli stati dipendenti a livello energetico come l’Italia che vedrà da subito un’impennata ancora maggiore del costo del petrolio e del gas, in un periodo già critico per le conseguenze pandemiche. La diplomazia europea è stata relegata ai margini. Mentre Stati Uniti e Russia continuano a negoziare e ad assurgere posizioni dominanti nello scacchiere geopolitico, i Paesi europei vengono marginalmente consultati da Washington rimediando anche delle figuracce, come nel caso recente del nostro ministro degli Esteri Di Maio.
 
tratto da Il Fatto Quotidiano del 24-02-2022
 

Afghanistan, ancora Kabul sotto attacco. Perché l’instabilità politica la rende obiettivo dell’Isis

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Almeno 8 persone sono state uccise in una serie di forti esplosioni che hanno scosso il centro di Kabul, inclusi diversi razzi che sono atterrati vicino alla Zona Verde, dove hanno sede molte ambasciate, il palazzo presidenziale e società internazionali. Le esplosioni si sono verificate in zone densamente popolate della capitale afghana in una continua ondata di violenza che ha investito Kabul. L’attentato è stato rivendicato dall’Isis. Nell’area occidentale di Kabul vivono diverse comunità della minoranza sciita hazara e sono spesso tra gli obiettivi dei miliziani sunniti dell’Isis. L’affiliata afghana dell’Isis si definisce la “Khorasan Province”, in riferimento ai territori dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Asia centrale che formavano l’omonima regione ai tempi del Medioevo. Oggi conta migliaia di combattenti, che provengono principalmente dall’Asia centrale, ma anche da Paesi come la Cecenia, l’India e il Bangladesh.  L’organizzazione terroristica è particolarmente attiva nelle province di Nangarhar e Kunar, ma ha la forza di effettuare attacchi anche a Kabul. L'emiro fondatore dell'IS-K, Hafiz Saeed Khan, è stato ucciso da un attacco aereo degli Stati Uniti nella provincia di Nangarhar, Stessa sorte è toccata ai tre emiri successivi. I combattenti del presunto Stato Islamico inizialmente istituito tra Iraq e Siria, sono in cerca di nuovi territori da occupare per portare avanti il piano di restaurazione del califfato. E tra le zone più promettenti oltre l’Africa su cui hanno acquisito una serie di territori, c'è sicuramente l'Afghanistan. La continua instabilità politica favorisce infatti l'inserimento dei nuovi combattenti jihadisti, che vengono però respinti anche dai Taliban che considerano Kabul ancora la propria capitale. L'Isis è entrato dunque in scena cercando di portare a termine attacchi contro il governo locale. I Taliban si sono impegnati a non attaccare le aree urbane secondo i termini di un accordo di ritiro degli Stati Uniti. Infatti i Taliban e i negoziatori del governo afghano hanno avviato colloqui di pace a Doha a settembre, ma i progressi sono stati lenti. Finora i Taliban   hanno ottenuto tutto ciò che volevano, sia dagli Usa sia dal governo afghano. Il loro obiettivo primario era la fine dell’occupazione mentre l’altro, quello di delegittimare il governo di Kabul, è conseguito dall’accordo bilaterale Usa-Taliban. Probabilmente i Taliban ritengono di potere passare all’incasso, ottimizzando il controllo territoriale su una parte del Paese. Il fronte istituzionale caratterizzato dai rappresentanti del governo, dell’opposizione, della società civile è diviso al proprio interno, riflesso di quell’antagonismo culminato attorno al duello tra Abdullah Abdullah e il presidente Ghani. Una guerra nella guerra insomma. Da un lato i Taliban contro il governo legittimo afghano e dall’altra il governo contro l’Isis/Khorasan che cerca di conquistare terreno. Il Pentagono ha dichiarato che presto ritirerà circa 2.000 truppe dall'Afghanistan, accelerando la tempistica stabilita in un accordo di febbraio tra Washington e i Taliban che prevede un ritiro completo degli Stati Uniti a metà del 2021.  Negli ultimi sei mesi la scia di sangue non si è arrestata tanto che i Taliban hanno effettuato 53 attacchi suicidi e 1.250 esplosioni provocando  la morte di 1.210 civili e 2.500 feriti, così come dichiarato dal portavoce del ministero dell'Interno Tariq Arian. Kabul è da tempo terra di tutti e di nessuno. Gli uomini di governo restano protetti nelle proprie roccaforti, si spostano su mezzi blindati statunitensi e viaggiano volando da una base aerea Usa a un’altra.  Il regime è ormai disciolto in un Paese instabile sempre più obiettivo dello Stato Islamico del Khorasan che continua a lanciare segnali forti.

Il punto del direttore (da Il Fatto Quotidiano)

Attacchi a Londra e all'Aja, il terrorimo diffuso dei cani sciolti

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Il terrorismo colpisce ancora e lo fa in prossimità delle feste natalizie. Ieri a Londra, poco prima delle due del pomeriggio, un uomo alto, dagli occhi scuri e con la barba, poi identificato in Usman Khan, 28 anni, dello Staffordshire, con un coltello ha ucciso due persone, ferendone altre. Subito dopo è stato immobilizzato da alcuni passanti e ucciso dalla polizia. L’uomo era stato già in carcere per una condanna per terrorismo islamico. Poco dopo anche all’Aja, in Olanda, l’arma usata è stata un coltello, nelle mani di un 45-50enne dalla carnagione scura, con una tuta grigia, un giacchetto nero e una sciarpa. In giro per Grote Markstraat, strada commerciale particolarmente affollata per il Black Friday, l’uomo ha scelto le sue vittime alla rinfusa, colpendole sempre con un coltello. Giù lunedi scorso sempre all'Aia erano state arrestate due persone che pianificavano un attacco con auto bomba per fine anno. Gli attentati di ieri hanno riportato in auge la tecnica terroristica legata all’uso dei coltelli, ampiamente documentata in vari articoli sulle riviste del presunto Stato Islamico e in particolare su Rumiyah (ISSUE 2) nell’articolo “Just Terror Tactics” (Knife attacks). “Qualcuno potrebbe chiedersi perché i coltelli rappresentano una buona opzione per un attacco. I coltelli, anche se sicuramente non sono l’unica arma per arrecare danno al kuffar (miscredente), sono ampiamente disponibili in ogni terra e quindi facilmente accessibili. Ci sono alcuni estremamente facili da nascondere e altamente letali, soprattutto nelle mani di qualcuno che sa come usarli efficacemente. Quando si sceglie un coltello, si dovrebbe fare attenzione prima di tutto alla sua affilatezza. Poi si dovrebbe considerare la forza della lama e del manico e cercare qualcosa che sia adatto al lavoro da compiere. Inoltre non dovrebbe essere molto largo, poiché risulta poi difficile nasconderlo. Lame seghettate o semi-seghettate costituiscono buoni coltelli da combattimento. E’ esplicitamente consigliato di non usare coltelli da cucina, poiché la loro struttura di base non è progettata per un assassinio o una carneficina.” A questo punto nell’articolo si consiglia di usare i coltelli con la lama fissa, ovvero quelli in cui manico e lama sono realizzati con un unico pezzo di metallo. “Quando si conduce un’operazione col coltello non è consigliato prendere di mira aree troppo affollate o raduni, poiché ciò rappresenta uno svantaggio e aumenta la probabilità di fallire nella missione. Il rischio è dunque quello di essere bloccati preventivamente e di essere ostacolati nel raggiungimento dell’obiettivo.” Quindi per certi versi gli attentatori di ieri hanno fallito e ciò dimostra ampiamente che queste operazioni nascono, in modo scoordinato e per fortuna non adeguatamente pianificato. Tutto ciò però ci fa ben intendere gli interessi del post Califfato, ancora in fase di riorganizzazione ma maledettamente diffuso, pronto a colpire in qualsiasi angolo, dai grandi centri fino al terrorismo rurale. L’allerta in questo periodo, successivo alla morte di Al Baghdadi e alle festività natalizie, è massima. Difficile ridurre a zero il rischio di attacchi da parte di lupi solitari o "cani sciolti", che agiscono autonomamente. Dopo le stragi con dei tir, diversi centri cittadini sono stati chiusi con paletti, misure di blocco o con la presenza di forze dell'ordine e militari. Ma queste misure non sono sufficienti a scongiurare il pericolo che si ripresenta in modo costante e puntuale.

Il punto del direttore (da blog.quotidiano.net)

Intervista al direttore di Embedded Agency in uscita con il suo nuovo racconto

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Le Cirque de la Guerre e altri racconti è l’ultimo lavoro del direttore di Embedded Agency, Roberto Colella, pubblicato da Palladino Editore. Ancora una volta, l’autore, Roberto Colella, giornalista di guerra e docente di Terrorismo Internazionale, ci porta in una dimensione quasi onirica e fantasiosa, che vede protagonisti alcuni bambini vittime di guerra, che daranno vita, con l’aiuto di Monsieur Dupont, ad un vero e proprio circo speciale. Non a caso, come dice la quarta di copertina: “I sogni dei bambini finiscono tutti sotto un’unico tendone”.

Dottor Colella, ci può dire, da cosa sono scaturiti questi racconti?

Allora, in realtà, “Le Cirque de la Guerre” è un’idea nata all’interno dell’Officina dello Scrittore, situata a Matrice (CB). Nel racconto i protagonisti sono dei ragazzi, ragazzi che trascorrono la loro quotidianità in contesti difficili. Un esempio su tutti, l’equilibrista di Bujumbura, la capitale del Burundi, piccolo stato africano nella regione dei Grandi Laghi che ha vissuto una guerra civile durissima durata 13 anni dal 1993 al 2006.

Quanto i suoi reportages di guerra hanno influenzato questo testo?

Beh, lo hanno influenzato moltissimo, soprattutto alcuni racconti che sono contenuti nel libro, in particolare, uno, “Il rugbista di Beit Jala”, che narra la nascita della prima squadra di rugby in Palestina. Questo racconto in particolare è stato recensito anche dalla Gazzetta dello Sport, da Sky Sport, da Ugo Francica Nava giornalista sportivo de La 7, così anche da Franco Di Mare, giornalista di Rai 1. E’ ovvio, che per raccontare di guerra, bisogna vivere e conoscere le esperienze che si vuole raccontare, non a caso, un grande maestro come Kapuscinski ci diceva che il vero reporter è quello che dorme, mangia, beve con i personaggi delle sue storie.

I bambini che oggi popolano le zone dove ci sono in atto guerre, possono diventare i terroristi di domani?

E’ un problema serio quello legato all’infanzia nei contesti di guerra, nel senso che l’odio verso il nemico lo si può reprimere, così come si può trasformare in qualcosa di orribile, per arrivare ai bambini soldato, vittime psicologiche della guerra e di uomini senza scrupolo. Certamente, chi vive in un contesto bellico, vive soprattutto un’infanzia difficile, già segnata da morte e povertà.

di Domenico Pio Abiuso

Jihad e Spagna, le infiltrazioni in Catalogna

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La Spagna si risveglia colpita di nuovo a più di dieci anni dall’attentato di Atocha a Madrid. Che causò la morte di quasi 200 persone. Allora c’era Al Qaeda oggi Daesh. Il fenomeno dell’immigrazione islamica in Spagna è cominciato in tempi relativamente recenti attraverso diversi flussi migratori. La prima ondata, nei primissimi anni Ottanta, era costituita da siriani, libanesi e palestinesi, molti dei quali emigrati politici sfuggiti alle persecuzioni dei regimi arabi contro i Fratelli musulmani. Alla fine degli anni Ottanta è partita la seconda ondata, stavolta di massa e legata alla ricerca di lavoro, quasi tutta proveniente dall’area del Maghreb. Negli anni Novanta il flusso degli immigrati musulmani è ancora aumentato e si è concentrato a Madrid, Barcellona e nella fascia costiera fra Valencia e Almeria. Nonostante una presente non massiccia di musulmani rispetto ad altre zone europee, nonostante un islam moderato aperto al dialogo, nel tempo la Catalogna insieme alle enclave di Ceuta e Melilla è diventata la culla del jihadismo spagnolo. La Cia aveva avvertito le autorità spagnole di un possibile attentato proprio a Barcellona. A corroborare ciò va aggiunto che la Catalogna è la comunità autonoma spagnola con il maggior rischio di radicalizzazione di musulmani. Tutto ciò veniva suffragato da una ricerca del ministero degli Interni spagnolo basata su un algoritmo elaborato dai servizi segreti, in cui sarebbero 9837 gli individui potenzialmente in grado di formare cellule estremiste. La maggior parte dei terroristi islamici che operano in territorio spagnolo scelgono le comunità musulmane pacifiche basate in Catalogna per infiltrarsi e creare cellule clandestine.  La Confederazione spagnola di polizia (CEP), associazione che ha quasi 3000 affiliati, aveva confermato da tempo che la Catalogna era diventata “il centro di reclutamento dei più grandi terroristi islamici in Europa” aggiungendo che ogni mese quattro o cinque musulmani che vivono in terre catalane si trasferiscono in Iraq, Cecenia e Afghanistan per addestrarsi. E così dopo l’attentato di Barcellona la Spagna, corridoio del jihadismo, si riscopre vulnerabile proprio quando l'Isis perde le sue roccaforti. E’ ormai evidente che Daesh sta indietreggiando ed è un fenomeno in decrescita avendo perso anche dei territori importanti oltre che dei combattenti. Alcuni di questi sono rimpatriati nell’intento di agire con forme di terrorismo diffuso. La Car intifada è una tecnica sperimentata da tempo che dall’attentato di Nizza, passando per Berlino, Londra, Stoccolma ha fatto diverse vittime innocenti. A Barcellona ancora una vota due fratelli Moussa e Driss Oukabir di Aghbala, nati in un cittadina sull’Atlante, con residenza a Ripoll, in Catalogna. Partiti dal Maghreb per colpire al cuore la Spagna o meglio le terre che i jihadisti chiamano Andalus, il nome arabo dei loro domini nella penisola iberica. La riconquista di Andalus è fra le “rivendicazioni” dell’Isis che da tempo attraverso il suo principale organo di informazione Rumiyah incita i combattenti a uccidere gli infedeli schiacciandoli con dei camion o accoltellandoli.

Il punto del direttore (da blog.quotidiano.net)

 

 

Jihad, perché Manchester?

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Premesso che l'Islam non è una minaccia ma che il 15% della popolazione di Manchester è musulmana superiore anche a Londra definita ormai Londonistan, che il 6% dello moschee inglesi è controllato dai wahabiti e che la metà è in mano ai fondamentalisti deobandi e che un terzo dei musulmani presenti rifiuta la cultura britannica soprattutto quelli di seconda e terza generazione, quante probabilità ci sono di arruolare kamikaze per attentati suicidi? Numerosi musulmani di cittadinanza britannica negli ultimi anni hanno lasciato il paese per unirsi ai jihadisti dell’Isis. Il quotidiano inglese “The Indipendent” nel tempo ha raccontato le storie di tanti giovani, uomini e donne partiti per combattere sotto i vessilli neri di Abu Bakr al-Baghdadi. Abu Dugma al-Britani, uno di loro, in un messaggio via Twitter, nel 2014 aveva profetizzato al Regno Unito e agli inglesi un futuro ben preciso: “Occuperemo Downing Street e sgozzeremo a Trafalgar Square tutti quelli che non si vorranno convertire. L’Isis (lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante) sta arrivando”. Nello specifico, la città di Manchester è sempre stata una base di notevole rilevanza per il terrorismo internazionale. I primi arresti legati a questo fenomeno risalgono al 1995. Nella warehouse city, come riporta la rivista Limes, erano attivi alcuni membri della Algerian connection che controllava la moschea di Finnsbury Park, uno dei principali centri del radicalismo islamico europeo. Manchester ha anche una grande tradizione nell’esportazione di combattenti stranieri. Il foreign fighter più noto è Munir Farooqi, che si unì ai talebani nel 2001. Sempre a Manchester fu trovato nel 2000 il “Manuale di al Qaeda”, un file con i primi precetti per il buon jihadista. Il documento fu recuperato nel computer di Abu Anas al-Libi, un noto terrorista di origini libiche, le stesse del kamikaze dell'Arena. Altro punto debole il fatto che l’attentatore di Manchester fosse già noto alle autorità. Insomma un attenzionato in libera circolazione, il 23enne Salman Abedi che ha deciso di colpire ragazzi e ragazze ad un concerto di una popstar. Ovviamente colpire ragazzi e bambini fa molta più audience da un punto di vista mediatico, uno dei principali obiettivi di una azione terroristica. Eppure tutto ciò era contenuto nella rivista del presunto Stato Islamico “Rumiyah” dove si può leggere che ci “si dovrebbe ricordare che gli infedeli hanno ucciso molte più donne e bambini musulmani. E, comunque, anche se non fosse così, sarebbe ancora consentito colpire le masse di miscredenti senza riguardo per le uccisioni collaterali di donne e bambini”.

Il punto del direttore (dal blog Guerra e Pace - QN)

Trump sgancia la MOAB e avverte la Corea del Nord

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La risposta di Trump al regime di Pyongyang sembra essere l’ama tattica della MOAB. L'Afghanistan è stato colpito dalle armate americane che hanno sganciato per la prima volta in un teatro di combattimento quella che è stata definita la più potente bomba convenzionale del mondo: la MOAB, dal peso di 10.000 Kg. La zona colpita si trova a 200 chilometri dalla capitale Kabul ed è il principale centro delle attività dei jihadisti del Califfato in Afghanistan, dove un soldato dei gruppi speciali statunitensi è stato di recente ucciso in combattimento. “Gli Stati Uniti prendono molto seriamente la lotta contro l'Isis” ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. Per il presidente Donald Trump, si è trattato di “un'altra missione di successo”. Tornando alla MOAB, quest’ultima pesa circa 8400 kg di esplosivo del tipo H6, una mistura di RDX (Ciclotrimetilenetrinitroammina), TNT e alluminio di fabbricazione australiana normalmente usato per le normali bombe convenzionali. Sostanzialmente la MOAB usa la stessa testata di guerra della bomba BLU-120/b ma è dotata di un sistema di guida inerziale e Gps KMU-593/B facendone la più grande bomba guidata da satellite al mondo. Sulla potenza della MOAB restano dei dubbi. I russi infatti hanno sperimentato la FOAB (Aviation Thermobaric Bomb of Increased Power), che hanno propagandato come il “Padre di tutte le bombe”, dalla potenza di 44 tonnellate di tritolo. Un simulatore online chiamato HYDESim (High-Yield Detonation Effects Simulator) mostra su una mappa quali sarebbero i danni generati dalla MOAB a livello del suolo da esplosioni di diversa intensità. Sul sito è specificato che il simulatore mostra quali danni subirebbero gli edifici e non include altri tipi di effetti, come quelli ambientali. Attraverso il simulatore, si può vedere come la MOAB colpirebbe New York, Los Angeles, Londra, Roma, Parigi. La bomba da 14,6 milioni di dollari è stata progettata per provocare il massimo danno al bunker, gallerie e altre aree che possono tipicamente sopportare anche grandi bombe standard o colpi di artiglieria. Può uccidere persone all'interno di alcune centinaia di metri dal punto della detonazione e causare danni ai polmoni e altre lesioni su una superficie ancora più ampia. La bomba GBU-43 / B Massive Ordnance Air Blast (MOAB) ha creato un fungo atomico da essere visto a 20 miglia di distanza. Per via delle sue dimensioni colossali è stata trasportata da un aereo MC-130 essendo opportunamente modificato con un sistema di carrelli e slitte per il trasporto e lo sgancio dell’ordigno. Le grandi dimensioni della MOAB (10 metri di lunghezza), infatti, non le consentono di essere trasportata nelle stive o sotto le ali dei normali bombardieri. L’aspetto curioso è che la MOAB arriva in modo tempestivo come la risposta alle nuove minacce di Pyongyang, un modo per intimidire il regime e metterlo in guardia, un deterrente psicologico contro il nemico.

Il Punto del Direttore

(tratto da blog quotidiano.net)

Trump e "cane pazzo" Mattis

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Il generale in pensione James Mattis è in corsa per guidare il Pentagono. Sessantasei anni, Mattis è una figura leggendaria nel campo militare degli Stati Uniti. All’età di 19 anni si arruola nei Marines per poi prendere parte a vari conflitti: guerra del Golfo, Afghanistan e Iraq. Nel maggio 2004 diede l’ordine di colpire una struttura sospetta a Mukareeb, un piccolo villaggio iracheno. Ma l’obiettivo in questione risultò essere la sede di un matrimonio. Le sue bombe uccisero più di quaranta persone tra uomini, donne e bambini che frequentavano la cerimonia in corso. Mattis è famoso anche per i suoi aforismi come: “Be polite, be professional, but have a plan to kill everybody you meet”, uno slogan che parla da solo oppure “I Marines non conoscono la parola sconfitta”, “Marines don’t know how to spell the word defeat”. Eppure ci sono differenze grandi, anche enormi, tra Mattis e Trump. Mattis, per esempio è un avido lettore con una biblioteca personale di oltre 6.000 libri e contenente Sun Tzu, Ulysses S. Grant, George Patton, e Shakespeare. Mattis addirittura preparò una lista di testi da studiare per i suoi ufficiali prima della missione in Iraq nel 2004 suggerendo le opere di Sir Hew Strachan, suo stratega preferito. Egli stesso è stato coautore di un manuale sulla controinsurrezione volto a limitare le violenze in Iraq, Mattis è poi contrario all’isolazionismo ma favorevole al costante impegno americano nel mondo. E’ inoltre anche un conservatore fiscale e alquanto scettico in merito al taglio delle tasse. Insomma molti sono preoccupati dall’agenda futura di Trump ma se si dà un’occhiata in giro per il mondo le cose vanno a suo favore. L’Europa in questo momento non è un grande problema e soprattutto non sarà mai un blocco compatto. Non avrà mai una politica estera comune e sarà sempre più frammentata, con una periferia filoamericana che circonda un nucleo centrale franco-tedesco scettico, comunque alle prese con altri problemi in primis i migranti e le prossime elezioni politiche tedesche. In Russia Vladimir Putin ancora deve prendere le misure sulla politica estera, in quanto fallisce ogni volta che tenta di riaffermare il suo primato sul cosiddetto “estero vicino” o anche solo di frenare l’avanzata della Nato nel cuore del suo ex impero vedi la questione Ucraina e non solo. La Cina si moltiplica, ma la sua economia è legata a doppio filo a quella americana, per il cui modello di sviluppo nutre spontanea ammirazione. Resta poi aperto il capitolo Corea. L’idea che Trump voglia bombardare tutti in Medio Oriente è più da slogan propagandistico. E’ più probabile che li abbandonerà al loro destino rinegoziando soprattutto l’accordo sul nucleare iraniano. In questo caso Mattis è un suo alleato, vista la sua pozione critica in passato verso l’Iran e che costrinse l’amministrazione di Obama a ritiralo dal suo incarico nel 2013 concedendogli un pensionamento anticipato. Il capitolo mediorientale dell’America First di Donald Trump, insomma non è sinonimo né di aggressività, né di interventismo. Più chiara, invece, la sua posizione sui musulmani che sicuramente non piacerà a molti. Per il resto a sentirlo già dal suo primo discorso dopo la vittoria sembrerebbe prevalere l’arte del restraint.

Il direttore (tratto da www.ilfattoquotidiano.it)

Trump e la sua agenda politica

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“Non ho bisogno dei soldi di nessuno, non userò i soldi dei lobbisti. Userò i miei. Io sono molto ricco, sono davvero ricco, per questo i lobbisti hanno zero possibilità di convincermi o influenzarmi.” Queste le parole di Donald Trump neoeletto presidente degli Stati Uniti d’America. Per molti è la vittoria del fronte contrario alle lobby americane ben rappresentate dalla Clinton. La cosa che stupisce è che in tutti questi anni in cui la politica estera americana è stata orientata dalle lobby non sia mai nata una lobby italiana negli Usa nonostante i milioni di italoamericani. Trump ha vinto facile per certi aspetti investendo su alcuni concetti chiave come il prestigio di coloro che vogliono mantenere la supremazia degli Usa nel Mondo a danni ad esempio della crescita della Cina. “Riporterò i nostri posti di lavoro da Cina e Messico. Riporterò in America i nostri soldi” alcune dichiarazioni di Trump riferendosi alle delocalizzazioni delle imprese americane e alla manodopera a basso costo che fanno concorrenza sleale. Molti sono preoccupati dall’agenda futura di Trump ma se si dà una occhiata in giro per il Mondo le cose vanno a suo favore. L’Europa non è questo grande problema e soprattutto non sarà mai un blocco compatto. Non avrà mai una politica estera comune e sarà sempre più frammentata, con una periferia filoamericana che circonda un nucleo centrale franco-tedesco scettico, comunque alle prese con altri problemi in primis i migranti. In Russia Putin ancora deve prendere le misure sulla politica estera, in quanto fallisce ogni volta che tenta di riaffermare il suo primato sul cosiddetto estero vicino o anche solo di frenare l’avanzata della Nato nel cuore del suo ex impero vedi la questione Ucraina e non solo. La Cina si moltiplica, ma la sua economia è legata a doppio filo a quella americana, per il cui modello di sviluppo nutre spontanea ammirazione. Ma arriviamo al punto cruciale. Per molti Trump sarà una guerrafondaio sfruttando la potenza militare americana in una ottica di hard power. Il suo nemico è lo jihadismo unito alla delinquenza comune. Le tendenze militaristiche di Trump in Medio Oriente non sono un problema per il mondo arabo che aveva già ufficializzato certe scelte indipendentemente dalla vittoria della Clinton o di Trump. L’idea che Trump voglia bombardare tutti in Medio Oriente è più da slogan propagandistico. E’ più probabile che li abbandonerà al loro destino. Il capitolo mediorientale dell’America First di Donald Trump, insomma non è sinonimo né di aggressività, né di interventismo. Più chiara, invece, la sua posizione sui musulmani che sicuramente non piacerà a molti. Per il resto a sentirlo già dal suo primo discorso dopo la vittoria sembrerebbe prevalere l’arte del restraint.

Il direttore

La Libia e le milizie del petrolio

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L’Italia non avrà vita facile in una Libia sempre più frammentata. Il governo nazionale guidato da Al Serray rappresenta meno di un terzo dell’intero Paese. Oltre alla Tripolitania, c’è infatti la Cirenaica ancora in mano al generale Haftar, a Sud ci sono i redivivi Tubu e infine a Ovest i Tuareg. Ma lo scacchiere geopolitico libico può contare anche delle Petroleum Facilities Guards o milizie del petrolio. La PFG è composta da circa 27 mila uomini disposti in tutte le aree petrolifere libiche. Alla guida c’è Ibrahim Jadhran, a cui l’ex governo centrale libico aveva affidato il compito di comandare una forza di polizia responsabile dei terminal petroliferi, ma che invece è diventato un signore della guerra muovendo la PFG sotto i propri voleri. La PFG doveva essere una garanzia bipartisan, ma nel tempo ha creato parecchi ostacoli al processo di pace. Nel marzo del 2014 la PFG caricò di greggio la petroliera “Morning glory” nel tentativo di mettersi a commercializzare in proprio la risorsa: la nave sfondò un blocco di sicurezza, ma il 16 marzo del 2014 ne fu ripreso il controllo da un gruppo di Navy SEALs americani. Nonostante ciò Ibrahim Jedran ha stretto un accordo nel mese di luglio con l'inviato delle Nazioni Unite in Libia, Martin Kobler. I dettagli di quel patto non sono mai stati resi noti, ma i critici hanno ipotizzato un coinvolgimento di miliardi di dollari. D’altra parte però il rapporto tra le milizie del petrolio e il generale Haftar non sembra poi così compromesso tanto da opporre una forte resistenza al generale che tranquillamente potrebbe conquistare importanti pozzi. Non dimentichiamo che Haftar gode del sostegno di diversi paesi arabi. Egli è ampiamente visto come il salvatore della regione orientale della Libia che a lungo aveva sofferto di emarginazione sotto il dominio di Gheddafi. La produzione petrolifera intanto è scesa a 200.000 barili al giorno numeri potenzialmente bassi se si pensa a quelli del periodo di Gheddafi. Eppure questa situazione di impasse politica in cui si andrà ad inserire l’esercito italiano sembra favorire la regione orientale sempre più spinta dalla tentazione di dichiararsi indipendente.

Il direttore

(tratto da Guerra e Pace - QN)

Dalla car intifada al tir di Nizza

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Nuovo attacco terroristico in Francia. 84 morti a Nizza schiacciati da un tir impazzito. Purtroppo è una pratica diffusa tra i jihadisti. La mente va a quello che succede con la "car intifada" in Israele dove macchine a tutta velocità vengono lanciate sui civili. La campagna più famosa è intitolata Daes, che si traduce con “investire”. Daes è anche un riferimento a Daesh, l'acronimo in arabo di Isis. Le campagne online sono caratterizzate da vignette che istigano i palestinesi a utilizzare i loro mezzi di trasporto per uccidere gli israeliani. Una vignetta raffigura un bambino con in testa la fascia verde di Hamas e al volante di un'auto. La didascalia recita: “O palestinese, guida, va avanti!” Gli attivisti hanno pubblicato molte altre vignette simili come parte della loro campagna per istigare i palestinesi a lanciare degli attacchi terroristici contro Israele. Tutto ciò ha avuto una diffusione virale soprattutto sui social network. Qualcosa che va oltre le tattiche utilizzate in passato come attentati dinamitardi suicidi, attentati a mezzi pubblici, rapimenti ed esecuzioni. La tattica ampiamente utilizzata dai terroristi islamici è stata sicuramente finora quella dell’attentato dinamitardo con le bombe, anche sotto forma di suicidi. Questa tattica è stata usata contro i civili, contro soldati, funzionari di governo etc. L’uso degli attentatori suicidi viene visto da molti musulmani come contrario agli insegnamenti dell’Islam; tuttavia, i gruppi che sostengono il relativo uso si riferiscono spesso a tali attacchi come “operazioni” di martirio; e gli attentatori suicidi che li commettono sono definiti in arabo col termine shuhada, plurale di shahid. In merito agli attentati ai mezzi pubblici c’è da aggiungere che si è trasformato ben presto in un marchio di garanzia del terrorismo islamico. Ora però qualcosa di nuovo che sfugge ad una organizzazione centrale e pianificata ma che parte in modo autonomo da cellule impazzite pronte poi per essere usate come mezzo di propaganda dall’Isis o altri gruppi terroristici. Difficile prevenire queste azioni soprattutto visto che i terroristi sono consapevoli della maggiore sorveglianza e sicurezza negli aeroporti e non hanno più bisogno di dirottare aerei. Adesso anche una macchina o un tir usati possono causare morti. L’attacco può essere potenzialmente lanciato da lupi solitari auto radicalizzati, che non necessitano e non hanno ricevuto un addestramento specifico. L’atto terroristico può essere compiuto in ogni luogo e in ogni momento, attraverso un gesto sostanzialmente individuale, istantaneo e diretto a random target non specificati. Per i servizi di sicurezza non è semplice soprattutto se alcuni aspetti lacunosi non vengono risolti. Ancora una volta l’attentatore franco-tunisino di Nizza non aveva un passato limpido e integrato.

Il punto del direttore (fonte Lettera 43)

I collegamenti tra Camorra e Jihad

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Aziz Ehsan è stato arrestato vicino Napoli. La polizia locale era già sulle sue tracce. Ehsan era ben conosciuto dai servizi segreti francesi e belgi tanto da ritenerlo affiliato con l'ISIS. I poliziotti napoletani erano anche a conoscenza di un mandato di cattura internazionale per lui in Svizzera, dove era ricercato in relazione a una serie di reati, tra cui la contraffazione, aggressione e possesso di armi illegali. È stato arrestato mentre dormiva in una macchina con targa italiana. "Abbiamo eseguito un mandato di arresto europeo nei pressi di Napoli e arrestato un cittadino iracheno noto ai servizi segreti belga e francese" queste le dichiarazioni del ministro degli Interni italiano Angelino Alfano il quale ha aggiunto che Ehsan era in contatto con i terroristi. Napoli è una base logistica per il Medio Oriente, ci sono contatti fra i clan mafiosi e gli estremisti islamici. La scorsa estate lo stesso Salah Abdeslam, fino a poco fa l'uomo più ricercato d'Europa per via dell'attentato a Parigi, ha liberamente viaggiato in Italia, ha preso un traghetto da Bari per la Grecia, aveva una carta prepagata italiana e documenti italiani falsi. Dopo gli attacchi Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015 i funzionari anti-mafia e anti-terrorismo italiani hanno evidenziato connessioni di lunga data tra i jihadisti e la camorra napoletana. Inoltre hanno scoperto legami con la mafia siciliana Cosa Nostra e la 'Ndrangheta, tracciando le armi oggetto di traffico clandestino arrivate facilmente nei porti napoletani. Il terrorismo jihadista ha bisogno di basi logistiche per la produzione di video ma soprattutto di documenti falsi (passaporti o carte di identità) che vengono utilizzati anche dai futuri attentatori. In questo ultimo settore si distinguono particolarmente Italia e Spagna. In Italia, nella regione Campania è molto diffusa la presenza di algerini legati al Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento nato da una scissione all'interno del G.I.A. (Gruppo Islamico Armato). Si tratta di un'organizzazione legata al terrorismo con diramazioni in tutta Europa, dedita principalmente al traffico internazionale di documenti falsi, con collegamenti con le aree di Vicenza, Milano e soprattutto Santa Maria Capua Vetere. Spesso nei comuni italiani nel tempo sono stati sottratti documenti. Al comune di Campobasso agli inizi di dicembre 2015 sono state rubate 1000 carte di identità in bianco. Nel luglio del 2014 invece a Gallipoli, nel Salento, scattava l'Operazione Bingo quando vennero rubate 12 pistole e 1050 carte di identità. Gli indagati facevano parte di un gruppo criminale operante nel Sud Italia e specializzato in documenti falsi molti dei quali poi finiti in mano ad immigrati siriani, palestinesi, afghani, albanesi etc. I provvedimenti vennero eseguiti soprattutto in tre comuni del Casertano: Frignano, Teverola e soprattutto Santa Maria Capua Vetere. In territori come la provincia di Caserta è impensabile che non ci sia un legame tra la camorra locale e le attività strumentali al terrorismo internazionale.

Il punto del direttore (tratto dall'Huffington Post)

La guerra al terrorismo non si vince nei salotti televisivi

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Noi italiani ed europei sappiamo ormai da tempo di essere nel mirino dei terroristi. È dunque nostro obiettivo primario vincere la partita. Ma per vincerla non bisogna apparire nei salotti televisivi ostinandosi a mostrare una sicurezza che non c’è. Anzi il terrore fuoriesce anche dagli studi televisivi soprattutto se a distanza degli attentati di Parigi si risponde con le stesse chiacchiere e gli stessi slogan. Non si può pensare di risolvere la minaccia jihadista bombardando Siria, Afghanistan o Libia quando non esiste uno Stato del Califfato e soprattutto visto che il terrorismo si articola in singole cellule che sono ormai ben presenti in molte città nel cuore dell'Europa. Salah è stato per 4 mesi a Moleenbek protetto dalla sua gente, in una zona a quanto pare off limits per le forze di polizia e comunque fuori controllo. Un po' quello che succedeva in Italia per i boss di Casal Di Principe che in realtà vivevano in paese, nei bunker, protetti senza mai lasciare l'Italia. L'Europa continua a sbagliare e in molti lamentano una cooperazione a livello di Intelligence. La nuova guerra asimmetrica prevede tutto questo. Continueranno ad esserci attentati tanto da farci l'abitudine. Ci saranno nuovi martiri pronti ad immolarsi specialmente ora che l’Europa sta dimostrando una grande debolezza e grosse faglie nel sistema di sicurezza. C’è una bella differenza tra la guerra dei soldati americani, pronti a morire sul terreno, e la nostra tipologia di guerra che di fatto si limita al sostegno politico, logistico e di addestramento di truppe spesso poi svanite nel nulla vedi in Libia. Non si tratta di sradicare il terrorismo dalla faccia della terra. Esso esisteva prima dell’11 settembre, è continuato dopo e continuerà ad esserci. Si può e si deve invece stroncare lo specifico gruppo di organizzazioni terroristiche e di Stati compiacenti che li finanziano. Guerra asimmetrica non solo a livello di mezzi ma anche nella modalità da un lato attentati suicidi dall’altro bombardamenti aerei come se i nostri obiettivi fossero tutti concentrati in una unica zona rossa. Gli europei non seguono gli Usa nella logica della guerra globale al terrorismo. La priorità è data all’intelligence e alla prevenzione. Nel tempo si è tentato di ricostruire il circuito jihadista, l’identikit di un attentatore, il finanziamento al terrorismo. Il pericolo però nasce dal fatto che i jihadisti sono tra noi. E puntano soprattutto alcune periferie urbane dal Belgio, alla Francia, all’Inghilterra senza escludere l’Italia o la Germania. Certamente per vincere questa guerra ci vorrà del tempo ma di sicuro non si risolverà nei salotti televisivi.

Il direttore

L'Italia avrà droni armati

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Gli Usa hanno accordato la vendita all’Italia dei kit di armamento per i droni in servizio nell’Aeronautica Militare che li ha acquistati negli ultimi anni dalla statunitense General Atomics impiegandoli in Medio Oriente dall’Iraq all’Afghanistan o per le operazioni contro l’Isis, fino al Nord Africa, vedi il caso della Libia. Londra era fino a oggi l’unico alleato degli USA ad essere stato autorizzato non solo ad armare i propri Reaper ma addirittura ad imbarcare sui velivoli teleguidati i missili Brimstone. La richiesta dell’Italia era stata presentata nel 2012, di armare due suoi droni MQ-9 Reaper con missili aria-terra Hellfire, bombe a guida laser e altre munizioni. Un accordo dal valore di 129,6 milioni di dollari. Attualmente abbiamo due General Atomics MQ-9 Reaper, conosciuti anche come Predator B. A differenza dei sei Predator A che pure abbiamo alla base di Amendola (FG), i Reaper si possono armare. Gli attacchi dei droni hanno provocato però ad oggi diverse vittime civili. Spesso avvengono in contesti di cui si ha una conoscenza molto limitata. Può succedere, per esempio, che la fonte dell’intelligence sia poco affidabile e si finisca per bombardare la casa sbagliata. I casi di errori di valutazione che hanno portato all’uccisione di civili sono molti, soprattutto in Pakistan. In quel paese gli Stati Uniti hanno fatto spesso ricorso ai cosiddetti signature strikes. Al contrario dei personal strikes, in cui i droni sono usati per colpire una persona o un gruppo di persone di cui si conosce l’identità, i signature strikes vengono ordinati sulla base delle attività che il potenziale obiettivo sta svolgendo. In merito ai costi di un drone si va si va dal piccolo e poco costoso Shadow – circa tre metri e mezzo di lunghezza per quattro di apertura alare, che viene lanciato con una catapulta pneumatica e costa 750 mila dollari a pezzo – fino al Global Hawk, che è il più grande (35 metri di apertura alare) e costoso (104 milioni di dollari a pezzo). Anche l’Italia è in grado di produrre droni. All’epoca del generale Musharraf, l’Italia aveva venduto al Pakistan ben 25 droni, tanto da dotare “il paese dei puri” di un piccolo arsenale telecomandato. Progettato dalla Selex Galileo il “Falco” era arrivato ad Islamabad per contrastare il terrorismo.

Il direttore

Il Bangladesh e la galassia terroristica

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Il ministro dell'Interno del Bangladesh, Asaduzzaman Khan Kamal, sulla morte del cooperante italiano Tavella ha fatto sapere che le agenzie di investigazione non hanno trovato alcun legame con il presunto Stato islamico. Secondo il governo il Califfato in Bangladesh non esiste e che chiunque abbia tentato di reclutare membri per il gruppo nel Paese è stato arrestato. Di sicuro, però, il Paese a maggioranza musulmana è da anni nel mirino dei fondamentalisti islamici. Gli stessi cooperanti erano stati colpiti in passato. Fra il 22 novembre 2004 e il 15 gennaio 2005 nel Bangladesh occidentale vennero compiuti attentati durante numerose sagre di villaggio e spettacoli musicali, teatrali o di danza, provocando diversi morti e feriti. Brac e Grameen Bank, due delle più prestigiose Ong del paese, stimate soprattutto per il loro contributo allo sviluppo rurale e attente ai programmi femminili, furono oggetto di attentati con esplosivi. Il problema in Bangladesh è sfuggito da tempo sia al Governo incapace di fronteggiare il fenomeno e sia alle agenzie di intelligence.  Le centrali operative del Bangladesh (il Directorate General of Forces Intelligence, la National Security Intelligence, la Special Branch e la Detective Branch) non riuscirono ad  impedire che il 7 maggio 2004 una granata uccidesse il deputato dell’Awami League Ahsanullah Master, né l’attacco al santuario di Hajrat Shahjalal a Sylhet il 21 maggio 2004, ma nemmeno l’assassinio del professore Mohammad Yunus della Rajshahi University il 24 dicembre 2004 o l’uccisione dell’ex diplomatico e ministro delle Finanze del Bangladesh, Sams Kibria, avvenuta a Sylhet il 27 gennaio 2005.  Tutto ciò a dimostrare di come negli anni il terrorismo di matrice islamica avesse avuto vita facile. Ciò nonostante sula morte del cooperante italiano restano dei dubbi visto che nel paese asiatico operano una galassia di organizzazioni terroristiche che potrebbero usare l’Isis come sponsor propagandistico ma non direttamente collegate al Califfato. Il 21 maggio 2002 il Dipartimento di Stato americano classificò l’Hujib fra le organizzazione terroristiche più temibili operanti nell'Asia meridionale. Alcuni membri dell’Hujib, rientrati in patria dopo la guerra in Afghanistan, ricevettero addestramento militare nei campi  lungo la frontiera con il Myanmar. Gli induisti e i musulmani moderati del Bangladeshi Hindus li ritengono responsabili di molte aggressioni nei confronti di minoranze religiose, intellettuali laici e giornalisti. L’Hujib controlla madrase anche in Thailandia, Cambogia, Indonesia e Brunei addestrando attivisti locali. Non è il solo gruppo attivo in Bangladesh anzi negli anni ne sorti molteplici che ricevono il sostegno economico dall’Arabia Saudita e soprattutto dai paesi del Golfo. L’idea di uno Stato Islamico che di fatti non esiste, non essendo tracciabili neanche i suoi confini geografici, sta risultando sempre più pericolosa proprio perché sfugge alle caratteristiche territoriali di uno Stato ma anzi la propaganda a macchia d’olio sta permettendo alle organizzazioni terroristiche operanti e dormienti dell’Asia Meridionale di tornare alla ribalta.

Il direttore

L'Italia e la sua "petitesse"

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L’inno nazionale italiano, meglio noto come Inno di Mameli, risale al 1847, scritto dal poeta Goffredo Mameli e musicato dal direttore di banda Michele Novaro. Proprio nel Risorgimento ha avuto grande popolarità grazie al fervore patriottico dell’epoca, finendo poi in disgrazia dopo l’unità quando venne soppiantato dalla Marcia Reale e talvolta dalla Leggenda del Piave di E. A. Mario. Se i francesi grazie a de Gaulle, riuscirono a reinventarsi la grandeur dopo la disfatta del 1940,noi italiani, allo stesso scopo, scoprimmo le virtù della nostra piccolezza o “petitesse”. Così cancellammo dal nostro orizzonte qualsiasi riferimento alla patria e su questa rimozione fondammo la Repubblica. Oggigiorno la nostra Repubblica Italiana soffre tanto soprattutto su alcuni aspetti a cominciare dalla politica estera. E’ ormai tempo che l’abbraccio tra il Mediterraneo e il nostro paese torni a occupare lo spazio centrale nell’agenda politica italiana. È un’illusione ritenere di poter vincere le sfide globali scommettendo sul mercato come quello americano o asiatico se non si è prima mostrato al mondo di essere capaci di assicurarsi saldamente la partita in corso nel Mediterraneo. Nessuno dei paesi che navigano ambiziosamente nel mare della globalizzazione ha infatti rinunciato ad affermarsi nel proprio giardino. Inoltre come sosteneva in suo editoriale su Limes, il direttore Lucio Caracciolo, d’altronde  saremmo noi i primi responsabili della nostra emarginazione, giacché non riusciamo ad articolare un nostro progetto europeo. “Siamo afflitti dal complesso della dining power: l’importante è avere un posto al tavolo d’onore, anche se non abbiamo nulla da dire (ma alla fine paghiamo il conto quanto e più di chi decide davvero)”. L’Europa potrebbe servire alla sicurezza italiana solo se il nostro Paese, contando maggiormente ad Est, aumenterà la sua importanza per la Germania rendendo possibile un coordinamento politico fra Berlino e Roma. L’Italia serve poi agli italiani nel mondo. Se sommiamo gli italiani d’Italia agli emigrati della Diaspora, otteniamo un totale che supera i cento milioni. Un giacimento geopolitico che attende di essere sfruttato. E che deve essere sottratto alle beghe partitico-elettoralistiche come pure all’avventurismo nazionalistico. Avremmo così un allargamento dello spazio geopolitico nazionale. Infine il nostro rapporto con gli Stati Uniti, spesso servile ai loro obiettivi e scorribande in giro per il mondo vedi Afghanistan o Iraq. Le basi che ospitiamo in Sicilia restano strategiche sotto l’aspetto geopolitico ma non è detto che gli americani vi rimarranno per sempre. Di sicuro restano utili per gli interessi a stelle e strisce soprattutto nel nuovo Medio Oriente sempre più appetitoso.

di Roberto Colella (tratto da Lettera 43)

Isis e il marketing del terrore

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Il più importante scopo di Isis o comunque di qualsiasi gruppo terroristico è quello di farci vivere nel terrore. L’obiettivo è stato raggiunto. Si chiama marketing del terrore. Credo che Isis preso singolarmente non possa vincere questa sottospecie di guerra ma noi italiani ed europei possiamo perderla. Ecco dieci punti che sintetizzano la minaccia terroristica con la psicosi che viviamo.

1) Un’azione terroristica prima ancora di contare il numero delle vittime ha bisogno di un forte risvolto a livello mediatico.

2) Una caratteristica del terrorismo è quella di sfruttare e alimentare le paure dell’avversario. Il mondo occidentale, paradossalmente a causa del proprio benessere, dell’ideologia capitalista e della percezione del proprio ruolo dominante, vive di paure.

3) Le paure stanno diventando il supporto alle ideologie occidentali mentre l’Isis tende al contrasto e alla destabilizzazione sfruttando le paure del sistema stesso e utilizzandone i mezzi, tra i quali, prima di tutto, le risorse della guerra dell’informazione e le tecnologie.

4) Il cambiamento delle motivazioni dei terroristi ha anche contribuito al cambiamento del modo in cui alcuni gruppi terroristi internazionali sono strutturati. Siccome i gruppi basati su motivazioni religiose o ideologiche possono mancare di specifici programmi politici o nazionalistici, essi hanno meno bisogno di strutture gerarchiche. Piuttosto essi possono far affidamento su affiliazioni lasche con gruppi di medesima mentalità presenti in una varietà di nazioni per sostenere la causa comune.

5) Alcuni, compresi gli europei, si sono rivolti al terrorismo espresso da Isis o altri gruppi per varie ragioni: convinzioni politiche, ideologiche e religiose. Altri sono semplicemente criminali, altri diventano terroristi perché si ritengono oppressi o sottoposti a limitazioni economiche. Una intelligente politica estera deve tenere conto delle ragioni di chi si rivolge al terrore e cercare di rimuoverle.

6) Combattere il terrorismo non dovrebbe essere il pretesto per discriminazioni, la minaccia non è l’Islam.

7) La sorpresa è un fatto fondamentale dell’azione terroristica e si basa sulla segretezza dei preparativi e sull’incapacità da parte degli organi d’intelligence di cogliere in tempo e valutare adeguatamente i segnali di pericolo. Se quindi la sorpresa in campo tattico è comprensibile, quella in campo strategico è invece il risultato di deficienze e superficialità imputabili alle strutture e a precise responsabilità manageriali e politiche.

8) Nel caso del terrorismo di matrice islamica si è passati da un jihad difensivo ad un jihad offensivo che mira a colpire il nemico nel proprio territorio.

9) La nuova guerra quella asimmetrica che non deve farci cadere nello scivolone di una guerra santa, di una crociata tra il bene e il male.

10) Negli anni il terrorismo è stato sottovalutato, razionalizzato e fagocitato dal sistema occidentale che in molti casi lo ha anche usato e forse lo usa ancora oggi per destabilizzare determinate aree geografiche per  delle finalità non più tanto subdole.

 Il direttore

L' Intelligence che non c'è

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Il Secret Intelligence Service britannico, il Mossad, la Cia e soprattutto l’Intelligence cinese. Tutti sinonimi di sicurezza e prevenzione. Non si può dire la stessa cosa dell’ex Sismi o Sisde poi divenuti Aisi e Aise. L’azione terroristica di Brindisi ci porta a fare alcune considerazioni, tipiche dello Stato italiano, la cui classe dirigente non ha mai consentito il corretto funzionamento dei servizi segreti, anzi forse è già un miracolo che esistano almeno sulla carta.

Le azioni terroristiche prendono di mira persone, edifici o luoghi con un forte valore simbolico. Sequestrare 100 bambini in una scuola è più efficace che sterminare 100 adulti in una caserma, in quanto il risalto mediatico sarà maggiore. Uno degli scopi principali di un'azione terroristica è la risonanza mediatica ancora più della distruzione.

Per contrastare il terrorismo occorrono degli assetti di Intelligence che in Italia mancano da sempre. Non ci sono scuole di formazione e spesso e volentieri questa attività viene svolta dai distaccamenti della Digos, da poliziotti sobbarcati di lavoro e dal numero esiguo.

Negli Usa gli investimenti sull’intelligence e la sicurezza da molti anni sono stati indirizzati alla ricerca e alle università, tanto che Internet nasce proprio in tale contesto come supporto. In Italia la scarsa attenzione verso la ricerca è uno dei parametri di debolezza di un intero sistema che ci pone in condizione di inferiorità rispetto alle altre Nazioni più evolute. Non si ha notizia di nessun investimento indirizzato alle ricerche di interesse per l’intelligence, né si conosce l’esistenza di ricerche utilizzate dai settori dell’intelligence nazionale.

In Italia il rapporto tra intelligence e università è alquanto deficitario, a differenza dei Paesi anglosassoni dove è nata la cultura dell’intelligence e dove molte assunzioni avvengono direttamente negli atenei; e questo fin dalle origini. Nel mondo anglosassione (Usa, Gran Bretagna, Canda, Nuova Zelanda) i rapporti tra l’intelligence e il mondo universitario sono ufficiali e soprattutto funzionali.

La cultura della difesa è alla base di un servizio di sicurezza ottimale e deve essere propria anche dell’Italia e soprattutto l’università deve avere un ruolo decisivo nella formazione affinché lo Stato possa attingervi senza limitarsi alla distribuzione di posti sulla base del personale da accontentare. Questa limitazione dell’ “intelligence italiana” ha radici come visto abbastanza profonde ma il cambiamento di rotta sembra ancora non interessare la classe politica dalla corta visione e dall’incapacità di guardare al Mondo.

 

Il direttore

 

 

Hamas e Al Fatah progettano il nuovo Stato Palestinese

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Annusa il gelsomino e assaggia le nostre olive. Questo il messaggio di benvenuto della compagnia telefonica palestinese. Purtroppo di ulivi oggigiorno ce ne sono pochi se si pensa che soltanto nel villaggio di Anin ne sono stati sradicati oltre 4.000 per fare spazio alla by pass road e al muro per proteggerla.

L’idea dello stato palestinese in realtà è antecedente agli accordi di Oslo, ed è contenuta nel piano di partizione dell’Onu del novembre 1947. Quel piano venne respinto dai palestinesi che consideravano iniqua la suddivisione.

Sarebbero trascorsi 46 anni prima che con gli accordi di Oslo, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina sotto la guida di Yasser Arafat, riconoscesse lo stato ebraico sorto nel 1948 sul 78% della Palestina storica. I rimanenti territori della Cisgiordania (Westbank), della Striscia di Gaza e di Gerusalemme Est, occupati durante la guerra dei Sei Giorni del 1967 dagli israeliani, avrebbero costituito il futuro stato palestinese.

E’ nella Westbank o Cisgiordania dove l’autorità palestinese risiede ed esercita la sua sovranità attraverso il suo presidente Mahmud Abbas. Per raggiungere Ramallah il centro del potere non è facile. Una serie di check points, alcuni veri e propri terminal, e sullo sfondo il muro della vergogna, la barriera di separazione, costruita per evitare l’infiltrazione di terroristi palestinesi in Israele, ma in realtà utilizzata da Israele per annettere altro territorio e stabilire confini diversi, dando vita ai vari insediamenti dei coloni.

Si arriva così a città separate in due come Hebron, la città dei patriarchi, la città di Abramo, città alla quale lo stato ebraico non rinuncerà mai per via della sua storia.

Quella che forse un giorno sarà la pace dei generali non sarà mai la pace della società civile che difficilmente riesce a trovare un accordo. Un accordo però c’è stato, quello di conciliazione tra Hamas e Al Fatah che appariva inevitabile per contrastare il governo israeliano. L’intesa prevede la costituzione di un governo provvisorio formato da tecnocrati indipendenti. L’obiettivo finale sarà la creazione dello Stato palestinese a settembre.

La realtà in alcuni punti è davvero complessa e disastrosa. Ad esempio a Tulkarem, in Cisgiordania, si estende una grossa fabbrica chimica israeliana; tra la fabbrica e il muro della vergogna un terreno di un palestinese. E’ qui che l’agenda umana per la violazione dei diritti si perde in reiterati soprusi ed efferatezze commesse a danno di una famiglia palestinese che coltiva un fazzoletto di terra sempre più ridotto. Mi racconta il proprietario terriero che gran parte della sua proprietà si trova al di là del muro, quindi depauperato di parecchi ettari di terra prelevati con la forza dagli israeliani. Subito dopo la prima intifada (dicembre 1987) venne arrestato e condotto in galera. Quattro anni dopo l’apertura della fabbrica, nel 1989, andò in giudizio contro la fabbrica ma i campioni di terreno inquinati che portò ad analizzare non gli furono mai restituiti. Addirittura una sera le milizie israeliane cercarono di seppellirlo vivo. Grazie alla moglie riuscì a salvarsi ed oggi combatte la sua guerra sostenuto da una rete di organizzazioni umanitarie.

Gli ultimi incidenti avvenuti lungo le alture del Golan pongono in evidenza un fatto. Dal Medio Oriente, o meglio da Israele e Palestina le notizie arrivano numerose. Il bacino da cui attingere è enorme, paragonabile come zona d’interesse agli Stati Uniti. Il problema è quello di decodificare le notizie.

Quando si parla del conflitto arabo-israeliano è giusto citare lo scrittore Amos Oz che parla di specificità di questo conflitto. Non è un conflitto tra il bene il male, tra chi ha ragione e chi ha torto. Sono due ragioni che non riescono a trovare un compromesso, non riescono a trovarsi a metà strada. A livello mediatico c’è il rischio di militarizzazione dell’informazione schierandosi dall’una o altra parte. Parlando con la popolazione sia israeliana che palestinese si intuisce che c’è un assoluto bisogno di normalità che si scontra però con la dimensione religiosa-nazionalistica. Se si ha solo un approccio geopolitico non si comprende il vero problema. Per toccare con mano questa situazione bisogna vedere con gli occhi più che sentire l’informazione dei media. A Gerusalemme Est quello che era un percorso per un bambino per andare a scuola della durata di 1 minuto ora è diventato un’ avventura.

Così come non si capisce l’insediamento dei coloni in molte aree palestinesi se si pensa solo alla questione della sicurezza. Il problema della memoria per noi occidentali è un bene da coltivare ma per Israele ad esempio può essere una gabbia, una chiusura al mondo diventato “ostile”.

Infine Hamas che ha stravinto nelle ultime lezioni proprio perché si basava su una vera e propria lotta alla corruzione. Quindi Hamas va interpretato come movimento nazional-islamico e non come movimento jihadista nonostante gli Stati Uniti, Israele e l’Unione Europea lo catalogano come organizzazione terroristica. E’ vero al suo interno c’è un’ala militare, caratterizzata dalle Brigate Izz ad-Din al-Qassam legata agli attacchi terroristici, ma la parola d’ordine è: cautela, andiamoci calmi.

La carta costitutiva scritta da Hamas nel 1988 prevede un impegno solo in quel territorio e non in tutto il mondo islamico. Hamas limita la sua attività alla sola Palestina.

Quindi Hamas un po’ come Hezbollah in Libano. Non un movimento legato allo jihadismo e al terrorismo ma votato ad altro, un movimento politico capace di sostenere la popolazione soprattutto sviluppando un sistema di welfare e godendo di numerosi appoggi.

Il futuro di Israele e Palestina è molto incerto ma all’orizzonte c’è qualcosa che in molti ignorano e che non basterà un muro per contenerla. Non sarà la bomba degli shaid (martiri suicidi) a preoccupare ma sarà la bomba demografica, con la popolazione araba che cresce sempre più rispetto alla popolazione ebraica. Il tasso di crescita demografica nel 2020 delle due popolazioni vedrà la popolazione ebraica in minoranza e questo dovrebbe far riflettere.

 

 

di Roberto Colella

(inviato in Cisgiordania)

 

 

Il Punto del Direttore

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La Rivoluzione dei Gelsomini e il suo effetto domino

 

10 dinari per acquistare l’essenza di gelsomino rinchiusa in una boccetta di vetro. Quello stesso gelsomino che dato il nome ad una rivoluzione divenuta pagina cruciale della storia nordafricana del nuovo secolo. Un fiore profumato che si è mischiato all’odore acre del sangue dei rivoltosi che lo scorso gennaio sono scesi in piazza al grido di Libertà. Oggi la Tunisia, paese dei gelsomini, vive gli effetti e le conseguenze della rivoluzione.

Rivoluzione che ha causato un vero e proprio effetto domino con ripercussioni in Egitto, Yemen, Bahrain e soprattutto Libia. Dopo 23 anni di regime il popolo tunisino è sceso in piazza a deporre il suo dittatore.

Ben Ali nasce nel 1936 da una famiglia modesta nella zona nord-orientale della Tunisia di Hammam Sousse. Frequenta le scuole militari francesi e statunitensi e fa parte del movimento di resistenza alla presenza coloniale francese in Tunisia militando nel partito neo-Destour, alla cui testa vi era colui che sarebbe diventato il padre e primo presidente della Tunisia indipendente, Habib Bourguiba.

Nei primi anni ’60 Ben Ali inizia la propria carriera militare ricoprendo per dieci anni l’incarico di capo del Dipartimento di Sicurezza militare tunisino.

Verso la fine degli anni ’70 viene nominato direttore della Sicurezza nazionale, diventando di fatto il capo dei Servizi segreti tunisini e nel 1980 viene inviato a Varsavia come ambasciatore in Polonia, incarico che manterrà per soli tre anni, prima di rientrare in patria e diventare ministro degli Interni.

Nell’ottobre del 1987 viene nominato primo ministro direttamente dal presidente Bourguiba. A questo punto Ben Ali decide di sferrare il colpo decisivo al padre dell'indipendenza, deponendolo con quello che sarebbe passato alla storia come un colpo di Stato “medico”.

Bourguiba, ultraottantenne e in un momento in cui la propria politica soprattutto nei confronti dei movimenti islamisti era ritenuta pericolosa per la sicurezza e stabilità del territorio, viene dichiarato malato e non più in grado di guidare il paese.

La successione avviene senza spargimenti di sangue e senza colpi di arma da fuoco, semplicemente per mezzo di un certificato medico. Per la cronaca l’ex presidente Bourguiba sarebbe vissuto ancora per ben 13 anni, fino al 2000.

Ben Ali prende il potere il 7 novembre del 1987. A dirla tutta il golpe non fu soltanto merito di Ben Ali, ma anche di alcune ingerenze esterne, visto che la Tunisia si professava laica e filo-occidentale.

Ben Ali come presidente ha annientato tute le forze di opposizione politica e civile interna creando uno Stato retto da un unico partito, il neo-Destour, rinominato da lui stesso Raggruppamento democratico costituzionale (Rdc).

La Tunisia di Ben Ali è stata piena di contraddizioni sopravvivendo grazie alla complicità e all’alleanza con l’Occidente, soprattutto con l’ex madrepatria Francia e l’Italia. Parigi e Roma rappresentano quasi il 40% del volume totale del commercio tunisino.

E poi gli Stati Uniti che dopo l’attentato dell’11 settembre e la paranoia islamica del terrorismo hanno visto nella Tunisia, esempio di laicismo e che aveva sconfitto l’islamismo attivista, un alleato prezioso e strategico nell’area vista anche l’imprevedibile e poco rassicurante presenza della Libia di Gheddafi .

In questo modo Ben Ali è riuscito a farsi rieleggere, sempre con percentuali molto alte (89% nel 2009) tanto da farsi rinominare “Ben a vita”. Il potere lo ha costruito nel tempo con una serie di relazioni clientelari assicurando al partito posti di lavoro e incarichi nella burocrazia pubblica con enormi sprechi di denaro.

Non dimentichiamo però Leila Trabelsi, seconda moglie di Ben Ali, diventata padrona di gran parte del paese ponendo le mani su televisioni, giornali e banche, a tal punto da diventare più incisiva del presidente stesso.

Dopo la deposizione di Ben Ali nella rivolta che ha causato più di 200 morti, il paese ancora in preda ad una forte instabilità, era stato affidato a Mohamed Gannouchi, un uomo non molto amato, per nulla innovativo che a seguito di alcune forti proteste corroborate da alcune morti, ha lasciato la guida transitoria del paese a Béji Caid Essebsi affinché prendesse le redini del potere per traghettare la Tunisia verso le prossime elezioni democratiche, ponendo come primo obiettivo l’istituzione dell’Assemblea Costituente.

La Rivoluzione ha visto protagonisti molti studenti universitari e soprattutto liceali che grazie a strumenti come Facebook si sono messi in rete e si sono raggruppati nelle piazze del centro tra Avenue Bourguiba e Place de l’Indépendance, davanti le sedi ministeriali, per protestare al grido di “Viva la libertà”.

Il 25 febbraio scorso più di 140 liceali di Nabeul hanno fatto tappa a Tunisi per partecipare al corteo di protesta presso la Kasbah al grido di “Fiero di strappare la mia libertà”. Per i giovani manifestare equivale ad un modo di esprimere la propria opinione tanto da arrivare allo slogan “Je proteste, donc j’existe!”(Io protesto, dunque io esisto!).

Sabato 5 marzo davanti la cupola di El Menzah, a Tunisi, si sono dati appuntamento migliaia di manifestanti per chiedere il ritorno al lavoro e maggiori garanzie contro le violenze degli ultimi tempi soprattutto nei quartieri più degradati.

Gli uffici ministeriali continuano ad essere presidiati giorno e notte da militari e uomini della polizia nazionale preoccupati di nuove ondate di sommosse nonostante Essebsi sembra godere dell’appoggio dei vari partiti politici. La situazione economica resta molto deficitaria e gli effetti sono destinati a durare ancora nel tempo in attesa di nuove riforme governative.

Intanto a sud della Tunisia, al confine con la Libia, la situazione dei profughi di Ras Jedir sembra stabilizzarsi anche se preoccupa la diffusione di epidemie. Dei numerosi profughi 18.000 sono soltanto del Bangladesh poi ci sono egiziani e profughi del Mali. La maggior parte vive il dramma nel dramma. Sono rifugiati che hanno lasciato il loro paese per riparare in Libia e adesso si vedono costretti a fuggire anche dal territorio di Gheddafi.

Fuggono dalla Libia così come molti tunisini disoccupati fuggono dalla Tunisia verso Lampedusa creando allarmismi in Italia costretta a fare i conti con questa emergenza non nuova ma che sembra distogliere l’attenzione degli italiani dalla crisi interna ben più seria tralasciando inoltre l’umanizzazione del fenomeno migratorio.

 

 

Roberto Colella

(inviato a Tunisi)

 

 

 

 

 

 

Il Punto del Direttore

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Rifiuti a Scampia (NA) - Foto di Monica Leone

 

 

Operazione Strade Pulite: Viaggio nella “monnezza” da Scampia alla discarica di Chiaiano.

 

 

Cumuli di immondizia sparsi ovunque. Rifiuti in stato di decomposizione. Gente esasperata sommersa da odori nauseanti. Siamo a Scampia (NA) dove l’emergenza rifiuti è davvero forte. Non molto distante la discarica di Chiaiano, presidio militare dal 10 luglio 2008. Qui vi lavorano 70 dipendenti escluso il personale tecnico.

La discarica rischia di chiudere tra 3 mesi. Delle 750 tonnellate al giorno previste, se sono aggiunte in questi ultimi tempi altre 200, per raggiungere quasi le 1000 tonnellate giornaliere. Qui arrivano non solo i rifiuti di Napoli ma anche quelli di Marano e in alcune occasioni quelli di Mugnano.

All’inizio il presidio militare era composto da cento militari, oggi sono all’incirca una ventina. I militari impiegati operano con funzioni di agente di pubblica sicurezza e possono procedere all'identificazione e all'immediata perquisizione sul posto di persone e mezzi di trasporto al fine di prevenire e tutelare l'incolumità di persone e la sicurezza dei luoghi vigilati.

Il grande movimento avviene di notte quando i camion, all’incirca 80 al giorno, portano i rifiuti in discarica.

Ogni tanto la gente fa sentire la sua voce, ma Chiaiano a parte il momento dell'apertura, non è mai stato l'epicentro delle proteste, dato che è una discarica che funziona in modo impeccabile.

La gente si lamenta principalmente per l’odore e per il viavai notturno degli automezzi. All’ingresso della discarica viene effettuato un controllo radiometrico in grado di rilevare sostanze radioattive.

L'immondizia viene trattata con prodotti specifici e coperta col terreno nel giro di poche ore. Con i rifiuti si costruiscono delle gradinate dando vita ad una ricomposizione morfologica del sito. La chiusura viene fatta con un pacchetto impermeabilizzante costituito da vari strati (2 metri di argilla, bentonite, polietilene saldato, di nuovo argilla e infine il terreno). Una recente inchiesta però parla di argilla avvelenata proveniente da una discarica dismessa non impermeabilizzata.La magistratura indaga.

La discarica è comunque dotata di un efficiente sistema di raccolta del percolato e del biogas. Per quest’ultimo ci sono nove pozzi attivi e una torcia che brucia mentre per il percolato vi sono dei serbatoi per lo stoccaggio.

L’emergenza dei rifiuti in Campania inizia nel 1994 con l’istituzione del Commissariato spesso criticato essendo diventato nel tempo un ente ordinario con una certa autonomia di spesa e con un certo numero di dipendenti da mantenere.

L'Operazione “Strade Pulite” è stata autorizzata nel maggio 2008, con decreto nº90 “Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania e ulteriori disposizioni di protezione civile”, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2008.

Dal 29 novembre 2010 è stato autorizzato il concorso di una Task Force di livello Reggimento, 160 militari e circa 100 mezzi dell'Esercito, portando il dispositivo utilizzato per l'operazione a circa 400 unità.

E la Camorra che ruolo ha in tutto ciò? Spesso è stato detto che dietro le proteste dei manifestanti nelle varie discariche ci sia la mano camorrista nonostante il ministro Maroni abbia negato ciò. Ovviamente la Camorra è contro l’apertura di nuove discariche ed ha tutto da perdere in merito alle discariche controllate dall’esercito in quanto non riesce nei suoi interessi malavitosi come quello di sotterrare i rifiuti radioattivi. L’emergenza continua ma a detta di esperti qualificati la vera emergenza arriverà in primavera!

 

 

di Roberto Colella

 

 

 

Scontri di Genova. Gli Hooligan, la criminalità e la contesa del Kosovo

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“Il Kosovo è il cuore della Serbia”. Così si poteva leggere in uno striscione della partita Italia – Serbia sospesa per incidenti lo scorso 12 ottobre a Genova. Un episodio davvero deprecabile che sicuramente poteva essere evitato.

Nove giorni prima, il patriarca serbo Ireney durante l’intronizzazione a Pec/Peja nel cuore del Kosovo così si rivolgeva alla folla accorsa: “Il popolo serbo non ha altro stato oltre che la Serbia, della quale fa parte il Kosovo".

L’Italia è tra gli stati che ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo ed è la nazione maggiormente impegnata nell’operazione di peace-keaping con la missione KFOR.

La Serbia  o meglio Belgrado e la chiesa ortodossa non riconoscono l’indipendenza del Kosovo e a quanto pare ne continuano a parlare come di un territorio ancora sotto la loro appartenenza.

 

 

Allo stadio gli hooligans serbi richiamavano la battaglia del 1389 Campo dei merli o Kosovo Polje che nell’immaginario serbo è divenuta il mito fondante dello spirito nazionale fino ai giorni nostri.

La bandiera albanese bruciata dagli ultras serbi non è soltanto un singolo episodio della barbarie da stadio ma un segnale, un sintomo di una labile tregua tra serbi e albanesi del Kosovo.

La criminalità organizzata avrebbe pagato 200.000 euro a decine di hooligan per provocare i disordini a Genova.

A quanto pare la polemica innescata dagli scontri del Marassi ha inebriato gli animi di diversi politici sia italiani che serbi. La Serbia da un lato punta ad entrare nell’Unione Europea ma dall’altro la strategia dei paesi europei sotto la guida occulta degli Stati Uniti d’America tende ad isolarla non facendola rientrare nell’orbita dei paesi amici. Dall’Europa Orientale, la mafia russa utilizza i Balcani compreso il Kosovo per effettuare i traffici internazionali di contrabbando, droga e prostituzione ma soprattutto armi.

Gli incidenti del Marassi, il discorso del patriarca e la strategia degli hooligans guidati da un’attenta regia criminale puntano a innescare l’attenzione europea di nuovo sulla questione kosovara mai risolta del tutto.

 

 

di Roberto Colella