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Quel rapporto così speciale

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La recente uscita del film “Hide Park on Hudson”, diretto da Roger Michell, con Bill Murray, sulla visita resa dal re Giorgio VI e sua moglie al PRE residente americano F.D. Roosevelt nel giugno 1939, per cercare di assicurarsi il supporto degli USA alla vigilia di un ormai imminente secondo conflitto mondiale, ripropone il tema tanto caro ai Britannici della cosiddetta “Special relationship”. Con questa espressione si intende il carattere privilegiato del rapporto che i Britannici reputano di avere con gli Stati Uniti, rispetto ad ogni altro alleato di questi ultimi.

Benché la natura speciale di questa relazione sia stata notoriamente enfatizzata dal Primo Ministro Britannico Winston Churchill, per la prima volta in un memorabile discorso del 1944, e da lui rimarcata di nuovo nel 1945 e poi 1946, la sua esistenza si può ravvisare fin dal 19º secolo, ed è proseguita, con atti a volte spontanei a volte ufficiali, in numerose attività militari e politiche che da allora si sono succedute e che includono tra le altre: la Iͣ e IIͣ Guerra mondiale, la Guerra del Golfo, fino ai più recenti interventi in Afganistan e Iraq nel 21º secolo. Se a tutto questo si aggiungono gli stretti rapporti di cooperazione in fatto di attività economiche, relazioni commerciali, pianificazione e conduzione di operazioni militari, condivisione di intelligence e di informazioni sulla tecnologia delle armi nucleari e, gli ovvi motivi di continuità storica e di affinità linguistica, è indubbio dunque che il Regno Unito intrattenga con gli USA un rapporto più radicato rispetto a ogni altro alleato occidentale.

Tuttavia negli anni la cosiddetta “Relazione speciale” è stata sottoposta a notevoli prove che molte volte sono dipese, oltre che dalla peculiare natura delle vicende storiche, anche e soprattutto dalle relazioni interpersonali intrattenute tra i soggetti al potere sulle due sponde dell’Atlantico, non necessariamente appartenenti alla stessa collocazione politica.

Forse il primo esempio storico di queste amicizie personali è dato dalla stretta relazione tra Roosevelt e Churchill. Lo statista britannico impiegò molto tempo ed energie per ordirla, facendo perfino pesare il fatto che lui e il PRE residente statunitense erano lontani parenti, essendo sua madre americana. I suoi sforzi alla lunga pagarono, visto che riuscì nel coinvolgimento degli americani nella IIͣ Guerra mondiale, anche se i veri architetti dell’alleanza sono considerati i rispettivi strateghi militari dell’epoca: il maresciallo Sir John Dill e il generale George Marshall. Alcuni storici vedono paradossalmente in questa alleanza, cosi fortemente cercata e voluta, addirittura l’inizio del tramonto dell’Impero britannico, considerata l’influenza e il peso esercitati da allora in poi dagli Stati Uniti nei trattati di pace post-bellici e nei negoziati per la risoluzione di conflitti e controversie internazionali, incluse le vicende coloniali.

Altri picchi dello speciale rapporto includono i legami tra Harold Macmillan (anch’egli di madre americana) e John F. Kennedy, il perfetto idillio su posizioni monetariste e neoliberiste tra Margaret Thatcher e Ronald Reagan, fino ai più recenti tra Tony Blair ed entrambi i Presidenti americani Bill Clinton prima e George W. Bush poi. Lo stretto rapporto di Blair con quest’ultimo Presidente americano rappresenta un caso esemplare, culminato nella congiunta e molto discussa decisione di invadere l’Iraq, in seguito ad un presunto ritrovamento di armi di distruzione di massa. L’idillio di Blair con Bush, continuato anche dal suo successore Brown ed esplicitato dagli stretti contatti dei rispettivi segretari agli Esteri, che tante critiche ha attirato ai due leader neo-laburisti, anche in seguito alla misteriosa morte di un perito britannico coinvolto nell’operazione, alla lunga però sono costate al loro Partito la perdita del controllo del Parlamento, detenuto dal 1997.

Ma le relazioni tra i due Paesi transatlantici non sono sempre state idilliache e si sono raffreddate quando i due partner non perseguivano obiettivi comuni; hanno infatti raggiunto il loro punto più basso con l’opposizione di Eisenhower alle operazioni britanniche nel Canale di Suez,(?) sotto Anthony Eden, e con il rifiuto del Primo Ministro Harold Wilson di impegnare truppe regolari britanniche nella Guerra del Vietnam, per cui i rapporti con quest’ultimo da parte del successore di Kennedy, Lyndon Johnson, non furono dei più calorosi.

Altre punte minime del rapporto includono la Guerra Arabo-Israeliana del 1973, quando il Pre residente Nixon omise di consultarsi con il Primo Ministro Edward Heath sul fatto che forze militari americane erano state allertate, in una querelle internazionale che gli Usa avevano sollevato contro l’ Unione Sovietica, e il Segretario di Stato Kissinger tralasciò di informare l’ambasciatore britannico sul successivo allarme nucleare che si era creato. L’incidente diplomatico segnò profondamente e per anni a venire la “Speciale relazione”.

Altri episodi storici che hanno indebolito “il Rapporto speciale” includono l’accusa al Primo Ministro Major da parte del Parlamento e dell’opinione pubblica britannici di aver cavalcato il cavallo perdente (il Repubblicano G.W. Bush) nelle elezioni americane del 1992, vinte dal democratico Clinton, il quale fece sempre pesare questa scelta. Per cercare di rimediare al danno, Major si fece coinvolgere nell’aderire al Comprehensive Nuclear Test Ban Treat, nel 1993, che in patria fu visto come una rinuncia al potenziamento del progetto del Tridente nucleare.

Un altro momento di crisi nei rapporti trans-atlantici fu raggiunto nel 1993, con il disaccordo dell’alleanza franco-britannica sulla proposta americana di sollevare l’embargo di armi in Bosnia, sulla base delle argomentazioni che, armando i Musulmani o bombardando i Serbi, avrebbe solo peggiorato la carneficina e messo in pericolo le truppe di pace presenti nella regione. Questo e altri episodi diplomatici discordanti sulla Guerra dei Balcani minarono seriamente le relazioni degli USA, non solo con i cugini Britannici, ma con l’intera Unione Europea, e si ricomposero parzialmente solo nel 1997, con l’elezione di Tony Blair a Primo Ministro britannico. Clinton, in carica negli USA, salutò l’evento come un’opportunità per rivitalizzare ciò che lui chiamò una “unique partnership”, che “negli ultimi cinquanta anni aveva contribuito a garantire livelli di sicurezza, e prosperità mai raggiunti prima, perché era un’alleanza basata su valori e aspirazioni condivisi da entrambe le parti”, suggellata anche da una personale amicizia tra i due leader e le loro famiglie. Infatti alcuni vedono nella Terza Via proposta dai New Labour di Blair, una sorta di social-democrazia moderata, ispirata al pensiero New Democratic dei Democratici americani del tempo.

Lo stretto rapporto instaurato da Blair con la Presidenza americana continuò anche con il successore di Clinton, G.W. Bush e, malgrado le loro divergenze su materie non strategiche, i due condivisero la stessa posizione nella risposta all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 a New York. Infatti Blair si precipitò a Washington immediatamente dopo l’attentato, per sottolineare la solidarietà britannica all’antico alleato e, in un famoso discorso che fece in via eccezionale alla Casa Bianca, come ospite personale della First Lady, affermò che “dopo l’attacco dell’11 settembre non si trattava più di una battaglia tra gli Usa e il terrorismo, ma tra la libertà e la democrazia mondiali e il terrorismo”, parole che suonarono come musica alle orecchie di Bush, ma che da allora in poi cominciarono a minare la popolarità di Blair tra i suoi stessi sostenitori.

Piu recentemente nell’agosto 2009 la “Special Relationship” ha subito un altro scacco, con il rilascio da parte delle Autorità scozzesi, sulla base di ragioni umanitarie, di Abdelbaset al-Megrahi, il cittadino libico ritenuto responsabile dell’attentato di Lockerbie, del 1988, atto considerato del tutto sbagliato in una dichiarazione del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in cui invita le Autorità scozzesi responsabili dell’operazione a rifletterci sopra profondamente, perché attuarle avrebbe costituito un “errore altamente eccepibile”.

Quanto ai rapporti col successore di Bush, Obama, pur se i rispettivi governi si trovavano su posizioni ideologiche simili, questi hanno comunque subito una battuta d’arresto nel 2010 con l’appoggio del Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ad una richiesta dell’Argentina, di indire dei negoziati sulla rinegoziazione della sovranità sulle isole Falkland, uno degli ultimi retaggi del passato coloniale per cui Britannici hanno combattuto una guerra, sotto il governo Thatcher per preservarle, e pertanto la proposta ha sollevato proteste e gelo diplomatico e rinnovato un generale pubblico scetticismo sullo stato e il valore attuali della “Special relationship”.

Inoltre c’è da dire che quando l’inquilino del n.10 di Downing Street è cambiato di nuovo, con l’elezione del Conservatore Cameron nel 2010, le posizioni politiche tra le due sponde dell’Atlantico sono mutate ancora e, benché il suo Segretario agli Esteri, William Hague, si sia immediatamente precipitato a Washington per riaffermare la fedeltà all’antica alleanza, anche da parte dei nuovi arrivati, questi è stato accolto piuttosto freddamente dall’Amministrazione della Casa Bianca e ci sono voluti vari scambi di visite tra le due parti per attivare il disgelo.

In aggiunta, la recente proposta del capo del Governo Tory in carica di indire un Referendum per decidere sulla permanenza del Paese nell’Unione Europa ha provocato un’insolita reazione dell’ambasciatore USA, che in una dichiarazione ufficiale ha fatto capire che gli Stati Uniti non gradirebbero un antico alleato che se ne va per conto suo e non segue i destini dell’Europa. Per tanto un atto, quale un ipotetico referendum britannico, lancerebbe un messaggio di un indebolimento del vecchio continente e un possibile inizio del suo sfaldamento politico, che pertanto risulterebbe in un alleato fragile, inaffidabile e poco credibile all’esterno.

I Britannici non hanno gradito né il pubblico ammonimento, né l’ingerenza dell’antico alleato in una materia di politica interna tanto delicata e forse, vista la risonanza che l’episodio ha avuto a livello politico e di opinione pubblica, per la prima volta da quando è iniziato, avrebbero piuttosto preferito non essere in un rapporto tanto privilegiato con gli Stati Uniti.

Questo episodio, insieme alla vicenda nella recente visita nel Regno Unito a fine febbraio 2013 del nuovo Segretario di Stato USA John Kerry, che non ha voluto inserire nell’agenda dell’incontro l’argomento: “isole Falklands”, questa volta per esplicita richiesta americana, ed anzi il senatore democratico è ripartito piuttosto sbrigativamente per concludere il suo Primo giro europeo, la dicono lunga sullo stato di salute attuale e sul futuro stesso della “Special relationship”.

Forse, poiché allo stato attuale nel mondo si vanno delineando tre blocchi continentali, Europa, Cina, America, per diversi e ovvi motivi di affinità storiche e strutturali, per la prima volta dalla Seconda Guerra mondiale, sono gli Usa che hanno bisogno dell’alleato transatlantico continentale, ma intero e non disunito, per cui possono non essere più interessati ad una stretta relazione con uno solo dei suoi membri.

Chi vivrà vedrà.

 

 

Rita Di Benedetto (inviata a Manchester)

 

 

Il rischio di “qaidizzare” la Siria

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Era già successo nel 1993 in Somalia. L’immaginario di onnipotenza di Al Qaeda si ripete. Ora a rischio è la Siria. L’obiettivo è quello di “qaidizzare” il paese di Assad. Si aggirano armati e a volto coperto, con in mano delle bandiere nere. Non tutti i miliziani dell'Esercito libero siriano (Els) sono come loro, vestiti come loro. O almeno, l'Esercito libero siriano non era nato in questo modo. A quanto pare durante le rivolte, gli estremisti islamici sono diventati una componente sempre più pericolosa del braccio armato dei ribelli, destando non poche preoccupazioni. A temerli, mentre nella capitale Damasco e nella metropoli Aleppo infuriano i combattimenti per arrivare alla battaglia finale, non è più soltanto il regime di Bashar al Assad ma tutta la comunità internazionale. Il terrorismo si alimenta in questo modo. Dal primo tentativo di jihad verso la Bosnia musulmana contro i serbi e croati, poi jihad verso la Cecenia contro i russi ortodossi, poi jihad verso l’Iraq e ora la Siria. Comincia così tutto il reclutamento e la sperimentazione sul terreno. I campi di addestramento di Al Qaeda in Afghanistan e in Iraq riacquistano importanza. Si sapeva che nel momento in cui la guerra fosse arrivata a toccare Damasco, Bashar al Assad avrebbe avuto non pochi grattacapi. Il rischio è quello di fare la fine di alcuni suoi predecessori come Mubarak o Gheddafi. Intanto nella confusione della guerra civile e nella profonda crisi umanitaria generatasi, ne approfitta l’organizzazione terroristica che aumenta i suoi adepti puntando al jihad globale, progetto mai portato a termine dell’ex leader Bin Laden. Dal jihad di difesa contro l’aggressore al jihad offensivo e globale finanziato dalla “holding del terrore”.

 

di Roberto Colella

 

 

Osservatori italiani in Siria

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Sono partiti nel pomeriggio del 15 maggio i primi 5 militari dell’Esercito Italiano designati a far parte della missione di Supervisione delle Nazioni Unite in Siria (UNSMIS). La missione, autorizzata con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 2043 del 21 aprile scorso, ha il compito di monitorare il rispetto del cessate il fuoco e l’applicazione del piano Annan, accettato dal regime Siriano. La presenza del personale italiano, autorizzata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 8 maggio, è stata chiesta dal Segretario Generale dell’ONU all’Italia unitamente al trasporto aereo di mezzi ed equipaggiamenti destinati alla missione in Siria, già realizzato con i velivoli della 46^ Aerobrigata di Pisa.

 

 

 

 

 

Hollande e Sarkozy. La Primavera e l'Autunno

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PARIGI. Il Sarkozy di oggi ha il corpo pieno di lividi, ma ha trovato la maturità per lanciare all’opinione pubblica un messaggio di riconciliazione. Il Sarkozy di cinque anni fa era una sorta di miscuglio tra «Veni, Vidi, Vici» e Louis De Funès, tra il «De Bello Gallico» e le commedie sui poliziotti di Saint-Tropez. Era un seducente spaccone, come certi personaggi cari a Belmondo. In realtà era più spaccone che seducente, come hanno mostrato le sue mosse del 2007, all’indomani dell’elezione alla massima carica della République. Dalla scelta di festeggiare il successo nell’esclusivo ristorante Fouquet’s a quella di partire una settimana in vacanza a bordo dello yacht dell’industriale Bolloré (nelle acque di Malta, dove ogni giorno il cortese imprenditore gli inviava la posta e il pane fresco da Parigi, col suo jet privato) passando per le scene di jogging davanti alle telecamere, che per l’osservatore italiano avevano un’impressionante aria da Cinegiornale Luce. Senza dimenticare quel giorno in cui il superuomo Sarkozy, in visita in Camargue, fu protagonista di un numero da cavallerizzo, infliggendo all’equino una passeggiata di fronte alla schiera dei giornalisti, ammassati come animali nelle scuderie (in cui i fotografi si sentivano più a disagio dei quadrupedi, anche perché in numero decisamente maggiore). Nel suo film «L’ultimo imperatore» Bernardo Bertolucci fa dire al protagonista che «gli uomini non cambiano mai». Sarà perché – a differenza dell’ultimo imperatore cinese – Sarkozy ha vissuto davvero il potere, ma il presidente uscente sembra cambiato rispetto al 2007. Il Sarkozy di oggi cerca di far dimenticare certi suoi atteggiamenti tracotanti e certi sbagli che gli sono costati cari al momento delle urne: come il suo (fallito) tentativo di imporre la nomina del figlio Jean alla presidenza di un ente pubblico nel quale il giovanotto (in base ai suoi titoli accademici, zoppicanti pur non provenendo da università albanesi) non avrebbe potuto essere assunto neppure col contratto a termine di stagista. Adesso Sarkozy è più consensuale che in passato. L’8 maggio ha voluto la compagnia del suo successore socialista Hollande al momento di inchinarsi al milite ignoto in occasione della festa nazionale. I suoi interventi pubblici e privati esprimono l’emozione di un uomo ferito e per questo più maturo. Dice di voler diventare «un cittadino come gli altri». Ma non è escluso che nel 2017 cerchi la rivincita in una nuova sfida elettorale con Hollande per riprendersi il suo amato Eliseo. In politica non bisogna mai dire mai. Hollande ha vinto e si prepara alle elezioni di giugno per il rinnovo dell’Assemblea nazionale. Le possibilità sono tre : o i socialisti avranno da soli la maggioranza assoluta (cosa difficile, ma non impossibile) e allora il nuovo presidente disporrà di uno straordinario margine di manovra ; o i socialisti dovranno formare un governo di coalizione con la sinistra più radicale (Verdi e comunisti) e allora Hollande dovrà dimostrare la sua nota abilità di mediatore ; o la maggioranza parlamentare resterà a destra (cosa poco probabile) e allora Hollande sarà costretto a coabitare con un governo di segno politico opposto al suo. Comunque Hollande non vivrà tempi facili, anche perché in Francia la crisi è grave quasi come in Italia. In campo europeo, Hollande cercherà in ogni modo di ottenere dalla Merkel l’assenso ad alcuni provvedimenti di stampo keynesiano, che mal si conciliano con l’attuale allarme generalizzato sul fronte del debito pubblico. La ricetta di Hollande è quella di un’intesa comunitaria per l’emissione di titoli pubblici che sarebbero garantiti tutti insieme dai paesi europei e che dunque non porrebbero problemi di spread. Essendo la Germania membro di questo gruppo, il tasso d’interesse sarebbe per forza di cose limitato e al tempo stesso si coniugherebbe con un messaggio di coesione di fronte alla crisi. Con i proventi di quell’emissione di titoli pubblici verrebbe finanziato un programma di iniziative sul fronte delle infrastrutture, della ricerca e dell’energia. Ovviamente tutto dipende dalla Germania, che per adesso da quell’orecchio proprio non sente. Ma i tempi possono cambiare, proprio come gli uomini.

 

di Alberto Toscano

 

 

Why care about Political Islam? A multi-level analysis

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With the outbreak of the Arab Spring several social forces throughout the Arab world have found a political space where to frame their claims; among them, Islamists are undoubtedly getting the better of. On October 23 the Islamist Ennahda Party got 41 percent of the votes in Tunisia, while on November 25 Morocco's Islamist Justice and Development Party (PJD) took 107 out of 395 seats; most recently the Egyptian Freedom and Justice Party - Hizb Al-Hurriya wa Al-Adala - got 47 percent of the votes, followed by the Salafi group Al-Nur Party , winning 29 percent of seats in parliament. Beyond the most optimistic views, interpreting the electoral results as a hope for a future democracy in the countries, the strengthening of Political Islam has given rise to numerous concerns. Apparently no one seemed to expect this rising phenomenon; yet, it would have been easily predictable to an expert eye. The interest of Islamic movements in politics should not be seen as suspicious, since it is closely related to the genuine nature of the religion itself. Basically, Islam has to be considered an orthopraxis where the ethical and behavioral doctrine prevails over the theological speech. Islamic speculation has always been linked to the resolution of practical problems and philosophical issues have developed in connection with juridical matters. The religious basis of Political Science let us understand as politics and religion are two dimensions intimately interconnected in the Islamic movements developed in the course of the centuries. Furthermore, the success of the Muslim Brotherhood and its variants in North African countries was expectable also from a political point of view, being these movements the best well-structured, most poplar as well as most influent parties among the ones competing for elections.

Nevertheless, if the international public opinion has been so negatively impressed by Islamic parties achievements, it was also because of the Islamophobic message western countries had promoted to control their outcomes on the international background. Indeed, the most cumbersome uncertainty is about the changes in international balances and strategies. It is not sure that alliances would maintain the same shape, especially considering the fact that the Muslim Brotherhood is worldwide spread and so powerful to be able to impose its requests. What is the role these new actors are expected to play amid the international community?

At the beginning of the new Millennium a group of influential scholars in International Studies suggested an innovative perspective for the International Relations analysis. In their book “Religion in International Relations. The Return from Exile” - first published in 2003 by Pavols Hatzopoulus and Fabio Petito- they asserted the necessity of considering religion a core issue of both international and domestic politics. Attempting to provide a framework to understand the interaction between politics and religion, that is how the letter could influence the theoretic principles of the former, Vendulka Kubalkova proposed the creation of the International Political Theology (IPT), a subfield founded on the rule-oriented constructivism (ROC), rather than on positivism. The basic assumption was that the pursuit of power could not be considered independently from the pursuit of identity principles as well as of wealth. Ten years later this paradigm reveals to be the most appropriate to approach the rising of political Islamism in the international scenario. As Vendulka Kubalkova alleged in her essay “Toward an International Political Theology”, “the constructivist framework actually relaxes the understanding of what is rational “ by overcoming the positivist idea that “the only reasoning is the reasoning which is associated with judgment, which takes the form of deduction or induction. Abduction - which means acceptance on faith of conjecture, guesswork or whatever proposition is at the heart of the religion-is also a form of judgment. People exercise judgment when they actually accept certain things”. Religion has all the characteristics to play a public role in the construction of both domestic and international society because it consists of specific kind of rules, mainly assertive (conjecture and customary), but also directive and commissive. The key solution of how the international order could change with the empowerment of the Islamic movements in the political field is in the close examination of these rules and their interactions in the different contexts.

Lastly, the most worrisome implication of the rising Political Islam is the way it could affect these countries’ path toward a legally constituted State. The risk is to see some human rights - such as equality, freedom and women’s right - subdued to restrictions in the name of principles inspired to the shari’a. Here is the great task of liberal and secular forces in sparking off a balanced political debate in which could grown a democratic speech suiting everyone’s needs.

 

di Paola Mitra