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Diritto Militare

Girone e Latorre: emesso il provvedimento dal Tribunale dell'Aja

Lo Stato Maggiore della Difesa rende noto che il Tribunale costituito a l’Aja il 6 novembre 2015, presso la Corte Permanente di Arbitrato, per dirimere la controversia tra Italia e India in relazione all’incidente occorso il 15 febbraio 2012 nell’Oceano Indiano nel quale è rimasta coinvolta la nave “Enrica Lexie” battente bandiera italiana, ha pubblicato il provvedimento arbitrale. Il Tribunale Arbitrale era chiamato a pronunciarsi sulla attribuzione della giurisdizione, e non sul merito dei fatti occorsi il 15 febbraio 2012. Il provvedimento arbitrale, nella sua parte dispositiva, stabilisce in particolare che:
 
• in relazione ai fatti accaduti durante l’incidente del 15 febbraio 2012,  all’India viene precluso l’esercizio della propria giurisdizione nei confronti dei due Fucilieri di Marina. Il Tribunale arbitrale ha dunque accolto la tesi sempre sostenuta dall’Italia in tutte le Sedi giudiziarie – indiane e internazionali – e cioè che Girone e Latorre erano funzionari dello Stato italiano, impegnati nell'esercizio delle loro funzioni, e pertanto immuni dalla giustizia straniera;
 
• l’Italia dovrà esercitare la propria giurisdizione e riavviare il procedimento penale sui fatti occorsi il 15 febbraio 2012, a suo tempo aperto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma;
 
• l’Italia dovrà compensare l’India per i danni fisici, materiali e morali causati all’equipaggio e all’imbarcazione del peschereccio indiano “Saint Antony”. Al riguardo, il Tribunale ha invitato le due Parti a raggiungere un accordo attraverso contatti diretti.
 
Lo Stato Maggiore della Difesa ha convocato immediatamente i 2 fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone per comunicare agli stessi l’esito del procedimento arbitrale.
 
fonte Stato Maggiore della Difesa

Lo “strano” caso del maresciallo Marco Diana

“I militari banditi dall’Italia non si trovano solo in India”, è il titolo di un articolo di qualche anno fa che tentava di riportare sotto la luce dei riflettori mediatici i casi, purtroppo non sporadici, di quei militari italiani che hanno pagato caro il prezzo della loro esperienza professionale ed in aggiunta, oltre al danno, hanno ricevuto e ricevono tutt’ora, l’amara e crudele beffa delle stesse Istituzioni che hanno con orgoglio rappresentato. Il mio personale passato militare, vestito della storica e gloriosa divisa dei Granatieri di Sardegna, mi porta spesso a rileggere quell’articolo e a ricordare la drammatica quanto “strana” vicenda di Marco Diana, giovane Maresciallo dei Granatieri, sul quale la tempra del Granatiere si è aggiunta a quella già innata di autentico uomo sardo. Dalle missioni nella assolata Somalia devastata dalla guerra civile e nei Balcani sconvolti dall’odio etnico il maresciallo Marco Diana è tornato con un male che gli corrode la carne. Un cancro terribile che però non è riuscito a piegare la sua tempra. Marco Diana è così diventato il simbolo di quell’umanità sofferente in divisa che paga un conto troppo alto non tanto al proprio destino di soldato, ma per la responsabilità di chi l’ha esposta all’uranio impoverito e ad altri micidiali cocktail chimici. Marco Diana vive da 18 anni sospeso tra la vita e la morte. Lo sostengono nella sua battaglia le terapie che vengono testate su di lui e certificate dall'Istituto Europeo dei tumori diretto da Umberto Veronesi. Ma il Granatiere di Sardegna ha un secondo fronte sul quale combattere. Ed è quello contro una burocrazia ottusa e senz’anima, contro l’insensibilità di strutture che non percepiscono il doloroso senso della sua tragedia di uomo. Così, periodicamente, il suo protocollo terapeutico si inceppa. E lui è costretto all’odiosa umiliazione di chiedere aiuto, di chiedere giustizia. L’ultimo più avvilente episodio è stato qualche tempo fa, quando, nella sua pagina Facebook Diana ha annunciato della necessità di vendere la sua casa e il suo oliveto per poter pagare le medicine che lo tengono in vita. Nell’agosto del 2008 provocarono enorme impressione le sue parole disperate: «Se il governo non mi darà quello che mi ha promesso quattro anni fa, mi incatenerò all’Altare della Patria e morirò davanti a tutti». Ma la situazione si ripete periodicamente: qualcosa nell’assistenza, nel rimborso di farmaci costosissimi, va in corto circuito e Marco Diana è costretto a lanciare i suoi appelli per non morire. E che il tumore che si porta dentro sia legato alle sue missioni, alle c.d. cause di servizio, è fuori da ogni dubbio. Quando partecipò all’operazione Restore Hope, in Somalia, nel 1992-1993, gli americani usarono una grossa quantità di proiettili all’uranio impoverito. «I missili sparati dai loro elicotteri - racconta Diana – sollevavano enormi nuvole di polvere bianca. Quella polvere ci avvolgeva e noi la respiravamo. E ridevamo degli americani che poi scendevano sul campo avviluppati in tute che li facevano sembrare dei marziani. Ridevamo e non sapevamo che stavamo respirando un veleno che ci uccideva. Loro non avevano un lembo di pelle scoperta, noi eravamo in pantaloncini corti e a petto nudo. I nostri comandanti, quando andavamo a chiedere spiegazioni, definivano il loro abbigliamento “americanate”. “Dopo l’attentato al check-point Pasta, ci fu impedito di entrare a Mogadiscio. Noi, prima, per andare al porto e all’aeroporto, passavamo per la via imperiale, fatta dai nostri connazionali ai tempi del fascismo. Dopo Pasta hanno aperto una bretella che ci permetteva di arrivare a una strada periferica esterna, fuori Mogadiscio, affinché non avessimo più contatti con la città. La bretella passava proprio dentro un’area utilizzata dagli Americani. Quindi non si poteva usare se non con preavviso. Mi spiego meglio: io ero anche capo nucleo scorte di sicurezza della Somalia. Dovevo, in sintesi, scortare i convogli che entravano e uscivano da Mogadiscio. Dopo l’attentato al check-point di Pasta, con la proibizione di passare per la via imperiale, dovevamo transitare per questa bretella in Apgoi, che era il poligono di tiro degli USA. Quando arrivavo con il convoglio, avvisavo, loro si fermavano e ci facevano passare. Transitata la colonna, ripartivano a sparare. Ogni volta che passavamo per di là, la pelle si ricopriva di polverina bianca. Bruciava come se avessimo il corpo colpito da migliaia di punture di spilli. Non passava nemmeno dopo aver fatto la doccia”.

Avv. Giuseppe Frate

Caso Cestaro, la sentenza della Corte Europea

Il 7 aprile 2015 la Corte Europea per i diritti dell’uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per i drammatici fatti avvenuti durante l’irruzione della Polizia nelle scuole Diaz-Pertini e Pascoli nel luglio 2001. In rete è facilmente reperibile il testo originale della sentenza in francese. Mancava però una sua traduzione in lingua italiana. Ho pertanto ritenuto opportuno tradurre integralmente la sentenza al fine di permettere agli studiosi e a tutti gli interessati, di poter comprendere più agevolmente le considerazioni e le conclusioni della Corte. La lettura permette non solo di rispolverare quegli avvenimenti e l’interpretazione data agli stessi dai giudici nazionali nei tre gradi di giudizio, quanto piuttosto (e forse soprattutto) dell’immagine delle nostre istituzioni sul palcoscenico internazionale. Emerge, a mio parere, un quadro abbastanza ambiguo in cui le istituzioni dello Stato, i Governi succedutisi nel tempo e i vertici delle forze dell’ordine dell’epoca ne escono avvolti da parecchie zone d’ombra.  In questo scenario è invece sorprendente il plauso della Corte alle autorità giudiziarie italiane, protagoniste di un eccelente lavoro di istruzione dei processi nonostante gli ostacoli normativi (in particolare dell’indulto e della facile prescrizione dei reati) ma anche collaborativi dei governi nazionali e dei vertici delle forze dell’ordine: i primi in quanto responsabili della mancata introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura nonostante l’obbligo sancito ormai da molto tempo dagli accordi internazionali e le continue esortazioni a provvedervi; i secondi per aver di fatto ostacolato l’identificazione e la punizione dei responsabili dell’irruzione nelle scuole Diaz Pertini e Pascoli. La drammatica vicenda del ricorrente e delle altre vittime diventa quindi il pretesto per mettere sul banco degli imputati le istituzioni del nostro Paese.

LA CORTE EUROPEA PER I DIRITTI UMANI

QUARTA SEZIONE

Caso CESTARO c. ITALIA

 

PROCEDURA

1. Alla base della questione si trova il ricorso N. 6884/11 promosso contro la Repubblica Italiana da un suo cittadino; Il 28 gennaio 2011 il sig. Arnaldo Cestaro (d’ora in poi “ricorrente”) ha presentato alla Corte ricorso ex articolo 34 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ("d’ora in poi “Convenzione").

2. Il ricorrente è rappresentato innanzi alla Corte dal signor Nicolò Paoletti e Natalia Paoletti, avvocati in Roma, dal signor Joachim Lau, avvocato in Firenze e dal signor Dario Rossi, avvocato in Genova.

Il Governo Italiano è rappresentato dai suoi legali, Ersilia Grazia Spatafora e Paola Accardo.

3. Il ricorrente sostiene che nella notte tra il 21 ed il 22 luglio del 2001, al termine del Summit tenutosi a Genova e denominato "G8", aveva trovato una sistemazione per la notte nei locali della scuola Diaz-Pertini. Invocando l'articolo 3 della Convenzione, il ricorrente lamenta di essere stato vittima di violenze e abusi dallo stesso definiti “tortura” a seguito dell'irruzione da parte della Polizia italiana all’interno della scuola Diaz-Pertini. Sulla base degli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione, il ricorrente sostiene che i responsabili di questi atti non siano stati adeguatamente puniti. Il ricorrente ha aggiunto in particolare che lo Stato Italiano, non avendo una legislazione specifica per il reato di tortura e per la sua sanzione, non ha adottato le misure necessarie per prevenire e punire le violenze e gli abusi denunciati in ricorso.

4. Il 18 dicembre 2012, il ricorso è stato notificato al Governo Italiano.

5. Sia il ricorrente che il Governo hanno depositato osservazioni scritte sia in ordine alla sua ricevibilità sia sul merito della causa. Osservazioni congiunte sono state depositate dal Partito Radicale transnazionale e transpartito, dall'Associazione "Non c'è pace senza giustizia " e dai Radicali Italiani ( ex Partito Radicale Italiano ) il cui Vice Presidente è stato autorizzato ad intervenire nel procedimento ( articolo 36 § 2 della Convenzione e 44 § 3 ).

CONTINUA CON LA TRADUZIONE INTEGRALE DELLA SENTENZA NELLA SEZIONE DIRITTO MILITARE

Avv. Giuseppe Frate

 

Cestaro, la sentenza integrale a cura dell'avv. Giuseppe Frate

IN FATTO

 

LE CIRCOSTANZE.

6. Il ricorrente è nato nel 1939 e risiede a Roma.

7. Il 19, 20 e 21 luglio 2001 si è svolto a Genova, sotto la presidenza Italiana, il ventisettesimo vertice del G8.

8. In vista del vertice, molti organizzazioni non governative hanno istituito un gruppo di coordinamento denominato Genoa Social Forum (d’ora in poi “GSF"), al fine di organizzare a Genova, nello stesso periodo un vertice no-global (vedasi la relazione finale dell'indagine parlamentare sul G8 di Genova "Relazione finale dell'inchiesta parlamentare”, pp. 7-18).

9. A partire dalla riunione dell'Organizzazione mondiale del commercio tenutasi a Seattle nel novembre 1999 in poi, queste manifestazioni del movimento no-global si sono generalmente tenute in occasione dei vertici interstatali o durante  gli incontri delle istituzioni internazionali aventi ad oggetto la discussione della governance globale.

A volte sono state accompagnate da atti di vandalismo e da scontri con la polizia.

10. La Legge n. 349 dell'8 giugno 2000 ha affidato l'organizzazione degli incontri preliminari e del summit finale dei Capi di Stato e di Governo previsto per luglio 2001 ad una specifica struttura plenipotenziaria creata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri italiano. In diversi incontri si sono riuniti i rappresentanti del GSF, il capo della Struttura plenipotenziaria, il prefetto di Genova, il Ministro degli Interni, il Ministro degli Esteri e i rappresentanti delle istituzioni locali (Rapporto finale dell’inchiesta parlamentare, pp. 18-21).

11. Un importate apparato di sicurezza è stato poi istituito dalle autorità italiane. La Legge n. 349/2000 ha autorizzato il Prefetto di Genova ad utilizzare il personale delle forze dell’ordine. Inoltre è stata delimitata una " zona rossa " nel centro storico della città, ovverosia la zona interessata dalle riunioni del G8, il cui accesso è stato autorizzato solo ai residenti  ed agli esercenti locali. L'accesso al porto è stato vietato e l'aeroporto è stato chiuso al traffico. La zona rossa era racchiusa in una “zona gialla”, che a sua volta era circondata da una “zona bianca” (area normale).

12. Secondo le informazioni raccolte dalla Questura di Genova, fino al luglio 2001 (Rapporto finale dell’inchiesta parlamentare, p. 23), i gruppi che avrebbero potuto partecipare agli eventi del G8 erano stati classificati in base alla loro pericolosità in:

"Pink Blocks" non pericolosi; "Yellow Blocks" e "Blu Blocks" potenzialmente pericolosi ed infine i "Black Blocks", comprendenti diversi gruppi anarchici che agiscono incappucciati, mascherati e vestiti di nero.

13. Il 19 luglio 2001, hanno avuto luogo due eventi politici tuttavia non si è registrato alcun incidente. Alcuni disordini si sono verificati solo in serata (Rapporto finale dell’inchiesta parlamentare, p. 25).

14. Il 20 luglio, sono stati annunciati una serie di eventi e manifestazioni in diverse zone ed in particolare in diverse piazze della città  (c.d. “piazze tematiche").

15.  La mattina del 20 luglio, i Black Blocks provocavano molti scontri contro le forze dell’ordine, prendendo d’assalto banche e supermercati. Il carcere di Marassi veniva preso d’assalto e diverse stazioni di polizia furono oggetto di atti di vandalismo (relazione finale dell’inchiesta parlamentare, p. 26).

16. I Black Blocks provocavano lo stesso tipo di incidenti durante il passaggio del corteo delle c.d. “Tute Bianche” in via Tolemaide. In quell’occasione alcuni manifestanti si disperdevano, altri reagivano lanciando oggetti contundenti contro la polizia; mezzi delle forze dell’ordine, a loro volta, giungevano velocemente sul luogo degli scontri abbattendo le barricate erette dai manifestanti. Gli scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine si protraevano nelle vicinanze.

17. Scontri simili avvenivano anche verso le ore  15:00 in piazza Manin (Rapporto finale dell’inchiesta parlamentare, p. 26).

18. Verso le 17.20, durante uno scontro in piazza Alimonda, Carlo Giuliani, un giovane manifestante, veniva colpito da un colpo di pistola proveniente da una jeep dei Carabinieri che cercava di fuggire dai manifestanti.

19. Il 21 luglio aveva luogo l'evento finale del movimento No-Global; vi partecipavano circa 100.000 persone.

20. I saccheggi e le devastazioni in città iniziavano al mattino e continuavano per tutto il giorno. Nel primo pomeriggio,

la testa del corteo si imbatteva nel percorso di un gruppo di un centinaio di persone che si trovava già impegnato contro le forze dell'ordine. Scoppiavano nuovamente degli scontri con lancio di lacrimogeni e cariche da parte della polizia, (relazione finale dell'inchiesta parlamentare, pp. 27-28).

21. Durante i due giorni di scontri, diverse centinaia di manifestanti e di membri delle forze dell’ordine sono stati feriti.

Interi quartieri della città di Genova sono stati devastati.

 

B. LA CREAZIONE DI FORZE SPECIALI DI POLIZIA PER CONTRASTARE I BLACK BLOCKS.

 

22. La mattina del 21 luglio 2001, il capo della polizia convocava il Prefetto, il Vice-Capo della Polizia e della Struttura Principale plenipotenziaria, al fine di provvedere ad una perquisizione all’interno della scuola Paul Klee MG. A seguito di questa operazione venivano arrestate venti persone che tuttavia venivano rimesse immediatamente in libertà per oridine dell’autorità giudiziaria.

23. Dalle dichiarazioni rese dal Prefetto di Genoa nel corso del processo, risulta che l’attività di perquisizione era dovuta alla necessità di adottare una linea d'azione più "incisiva" che avrebbe dovuto aumentare il numero di arresti e conseguentemente cancellare l’immagine di una polizia che sino a quel momento era stata accusata di non essere riuscita a impedire i saccheggi e le devastazioni commesse in città. L’idea del Capo della Polizia era quella di creare una solida formazione di reparti misti, posti sotto il controllo ed il coordinamento di funzionari fidati, al fine di contrastare efficacemente i Black Blocks;

 

 

C. I FATTI ANTECEDENTI L’IRRUZIONE DELLA POLIZIA ALL’INTERNO DELLE SCUOLE  Diaz- Pertini e Diaz - Pascoli

25. Il Comune di Genova aveva messo a disposizione del GSF i locali di due scuole adiacenti tra loro, situate in via Cesare Battisti, per l'allestimento di un media center. In particolare, la scuola Diaz-Pascoli avrebbe ospitato un'ufficio stampa;

La scuola Diaz-Pertini, invece, avrebbe ospitato un punto di accesso ad internet.

In seguito ai forti temporali di qualche giorno prima, che avevano colpito la città rendendo impraticabili alcune aree di campeggio, il Comune aveva autorizzato l'uso della scuola Diaz-Pertini come luogo adibito al pernottamento dei  manifestanti.

26.  Il 20 e 21 luglio, alcuni residenti della zona avevano segnalato alle autorità che molti  giovani vestiti di nero erano entrati nella scuola Diaz - Pertini e avevano  preso del materiale che si trovava al suo interno.

27. All'inizio della sera del 21 luglio, due auto di pattuglia della Polizia che percorrevano insieme via Cesare Battisti, provocavano una reazione verbale da parte di alcune decine di persone che si trovavano davanti alle due scuole.

Veniva lanciata una bottiglia vuota contro le auto della Polizia (sentenza processo, pp. 244-249, e la sentenza della Corte di Cassazione, p. 122).

28. Tornati al quartier generale, i funzionari di Polizia tenevano un incontro tra i vertici delle forze dell'ordine (tra cui il prefetto A. L. B., il capo della polizia M. G. C.).

29. Dopo aver contattato il rappresentante del GSF, al quale era sta concessa la scuola Diaz-Pertini, si decise di effettuare una perquisizione per raccogliere le prove dell'accaduto nonché per individuare i Black Blocks responsabili dei saccheggi e delle devastazioni perpetuate durante il giorno.

Dopo un iniziale tentativo di impedire l'ingresso degli agenti di polizia all'interno delle scuole si decideva di ricorrere all'uso di gas lacrimogeni per mezzo degli agenti in tenuta antisommossa (il "VII Nucleo antisommossa dell' unità mobile di Roma); un'altra unità avrebbe dovuto invece condurre le operazioni di perquisizione; infine, un’ultima unità di agenti armati avrebbe dovuto circondare l’edificio per scongiurare la fuga dei individui sospetti.

Il capo della polizia era pienamente al corrente dei dettagli dell'intervento (sentenza , pp . 226 e 249-252 e relazione finale dell'inchiesta parlamentare , p . 29-31 ) .

30. In serata, un gran numero di agenti delle forze dell'ordine, appartenenti a varie unità e dipartimenti, lasciava il quartier generale della polizia dirigendosi in direzione via Cesare Battisti  (relazione finale dell'indagine parlamentare). Secondo la sentenza della Corte di Cassazione, il numero totale dei partecipanti alla spedizione fu di circa 500 tra agenti di polizia e Carabinieri, questi ultimi impegnati solo nell’accerchiamento dell'edificio.

La sentenza della Cassazione fa notare che questo numero non è stato tuttavia mai determinato con precisione.

 

D. L’IRRUZIONE DELLA POLIZIA ALL’INTERNO DELLA SCUOLA Diaz-Pertini.

 

31. Intorno alla mezzanotte, arrivati in prossimità delle due scuole, gli agenti del VII Nucleo antisommossa, dotato di caschi, scudi e manganelli, unitamente ad altri agenti dotati di identico equipaggiamento cominciavano ad avanzare.

Un giornalista ed un consigliere comunale che erano fuori dall'edificio, venivano aggrediti con calci e manganellate.

32. Alcuni occupanti della scuola Diaz-Pertini cercavano di bloccare gli ingressi con dei banchi di scuola e con delle tavole di legno. La Polizia si concentrava dinnanzi al cancello della scuola e dopo aver tentato di aprirlo provvedeva ad abbatterlo con un veicolo blindato. Infine, la stessa unità di polizia sfondava l'ingresso della scuola.

33. Gli agenti di polizia facevano irruzione nei vari  piani dell'edificio, in parte immerso nel buio. La maggior parte degli agenti cominciavano a colpire indiscriminatamente gli occupanti con calci e manganelli, insultandoli e minacciandoli le. Venivano aggrediti anche  coloro che erano seduti o addirittura sdraiati a terra.

Alcuni degli occupanti, svegliati dal  frastuono dell'assalto, venivano colpiti mentre erano ancora nei loro sacchi a pelo;

altri mentre erano addirittura con le braccia alzate in segno di resa e con i documenti d'identità nelle mani.

Alcuni occupanti che avevano cercato di fuggire nascondendosi in bagno, venivano catturati, picchiati, e tirati fuori dai loro nascondigli addirittura per i capelli (sentenza processo primo grado, pp. 263-280, e di appello,pp. 205-212).

34. Il ricorrente, che all'epoca aveva 62 anni, si trovava al piano terra.

Svegliato dal frastuono dell'irruzione, insieme ad altri occupanti si sedeva immediatamente di schiena contro il muro e con le braccia alzate (sentenza di primo grado, pp. 263-265 e 313).

Veniva colpito soprattutto sulla testa, sulle braccia e sulle gambe, a tal punto da provocargli fratture multiple: frattura dell'ulna destra, del perone destro e delle costole della parte destra del torace.

Secondo le dichiarazioni rese dal ricorrente dinnanzi ai giudici del Tribunale di Genova che nonostante le incessanti grida di aiuto, il personale medico entrava nella scuola solo molto tempo dopo la fine delle violenze.

35. Il ricorrente veniva operato presso l'ospedale Galliera di Genova, dove rimase ricoverato per quattro giorni, successivamente  presso l'Ospedale Careggi di Firenze. In seguito veniva dimesso con una convalescenza  di 40 giorni.

Tuttavia  le lesioni continuavano a procurargli forti dolori al braccio destro ed alla gamba destra.

 

E. L’IRRUZIONE DELLA POLIZIA ALL’INTERNO DELLA SCUOLA PASCOLI.

 

36.  Poco dopo l'irruzione nella scuola Diaz - Pertini, gli stessi agenti di Polizia facevano irruzione nella adiacente scuola Pascoli, dove alcuni giornalisti che si trovavano sul luogo erano riusciti a riprendere ciò che stava accadendo sia all'esterno che all'interno della scuola Diaz - Pertini. Una stazione radio raccontava addirittura questi eventi dal vivo.

37.  Al momento dell'arrivo degli ufficiali di polizia, i giornalisti venivano costretti a porre fine alle riprese. I nastri che contenevano i servizi filmati venivano sequestrati.

 

 

F. GLI EVENTI CHE SEGUIRONO L’IRRUZIONE NELLE SCUOLE  DIAZ – PERTINI E PASCOLI.

 

38. Dopo l'irruzione nella scuola Diaz-Pertini, la polizia perquisiva gli zaini e i bagagli degli occupanti senza né prima identificare i rispettivi proprietari né spiegare loro le ragioni dell'operazione. Tra gli oggetti si rinveniva una bandiera nera all'interno della palestra della scuola. Durante le operazioni di ricerca, alcuni occupanti venivano condotti nella stessa palestra e lì costretti a stare seduti o sdraiati.

39. Novantatre occupanti della scuola venivano arrestati e accusati di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione ed al saccheggio.

40.  Molti di loro venivano condotti presso gli ospedali della città. Altri ancora venivano condotti immediatamente presso la caserma del Bolzaneto.

41. Dopo la notte tra il 21 e il 22 luglio, il responsabile dell’ufficio stampa della polizia italiana affermava che durante la perquisizione, erano stati rinvenuti vestiti e cappucci neri simili a quelli utilizzati dai Black Blocks.

Aggiungeva che le tracce di sangue presenti nell'edificio erano dovute al fatto che molti degli occupanti erano  stati feriti durante gli scontri avvenuti nei giorni del G8.

42. Il giorno successivo presso la Questura di Genova, la polizia mostrava gli articoli di stampa sequestrati durante la perquisizione e due bottiglie Molotov. Veniva mostrato anche un agente che aveva riportato ferite da taglio sul viso.

43. Gli occupanti venivano ufficialmente accusati di associazione a delinquere volta alla cospirazione, al saccheggio e alla devastazione, insieme a resistenza a pubblico ufficiale e possesso illegale di armi.

 

G. IL PROCESSO PENALE NEI CONFRONTI DELLE FORZE DELL’ORDINE CHE FECERO IRRUZIONE NELLE SCUOLE DIAZ –PERTINI E PASCOLI.

 

44. Il Pubblico Ministero di Genova apriva un'indagine al fine di stabilire le ragioni che portarono alla decisione di fare irruzione nella scuola Diaz-Pertini e chiarire le modalità di azione, il presunto accoltellamento ai danni di un'agente di polizia e la scoperta di bottiglie Molotov e del resto degli eventi che ebbero luogo nella scuola Pascoli.

45. Nel dicembre 2004, dopo circa tre anni di indagini, ventotto persone tra funzionari, dirigenti e agenti di polizia sono stati rinviati a giudizio. Successivamente sono stati rinviati a giudizio altri tre agenti.

46. Il ricorrente si era costituito parte civile già all'udienza preliminare del 3 luglio 2004. Decine di occupanti sia italiani che stranieri nonché alcuni sindacati e altre associazioni non governative, si sono costituite parti civili nel processo per un totale di centodiciannove parti civili.

47. Sono state ascoltate in giudizio più di trecento persone tra imputati, vittime e testimoni, oltre alla visione di materiale audio-visivo.

 

1. Sugli eventi della scuola Diaz -Pertini.

48. Le accuse mosse in relazione agli eventi della scuola Diaz - Pertini sono state: falso intellettuale, calunnia e abuso d'ufficio aggravato  (soprattutto per l'arresto illegale degli occupanti),  lesioni personali semplici e aggravate ed uso di armi illegali.

 

a) Il giudizio di primo grado.

 

49. Con la sentenza n. 4252/08 del 13 novembre 2008, depositata l'11 febbraio 2009, il Tribunale di Genova ha condannato dodici imputati. Il giudice ha pronunciato condanne alla reclusione comprese tra due e quattro anni, l'interdizione dai pubblici uffici ed il pagamento in solido con il Ministero degli Interni delle spese di giudizio nonché dei  danni alle parti civili, che il giudice ha stabilito tra i 2.500-50.000 euro.

Al ricorrente, in particolare, è stato riconosciuto un risarcimento di 35 000 euro, che è stato pagato nel luglio 2009 a seguito di un pignoramento.

50.  Nel determinare la sanzione principale, la Corte ha ritenuto quale circostanza attenuante il fatto che gli autori dei reati non avevano precedenti penali e che avrebbero agito sotto stress e fatica. Uno dei condannati ha goduto della sospensione condizionale della pena. Inoltre, in applicazione della legge n. 241 del 29 luglio 2006 (indulto), dieci condannati già detenuti hanno goduto  dello sconto totale della pena principale ed uno di essi, già condannato a quattro anni di reclusione, ha  goduto di uno sconto di pena di tre anni.

51. Nei motivi della sentenza, il Tribunale di Genova ha riconosciuto che l'operazione è stata concepita sin dall'inizio come una spedizione punitiva contro i manifestanti.

Secondo il Tribunale, la polizia, alla luce della eventi che avevano preceduto l'irruzione (in particolare, le indicazioni dei residenti della zona e l'aggressione contro la pattuglia nel pomeriggio del 21 luglio - paragrafi 26-27 sopra), poteva verosimilmente  sospettare che nella la scuola Diaz-Pertini vi fossero dei Black Blocks.

Tuttavia, il Tribunale ha comunque considerato l'operato degli agenti di polizia come una chiara violazione della "dignità umana e del rispetto della persona".

Secondo il Tribunale, anche di fronte all'eventuale presenza di Black Blocks, la polizia non avrebbe dovuto usare quella forza poiché le condizioni in cui si trovavano gli occupanti della scuola non avrebbero giustificato tale condotta.

52. Il Tribunale ha anche sottolineato che la polizia non aveva efficacemente collaborato alle indagini sui fatti.  Il Tribunale ha osservato a tal proposito che nelle operazioni di riconoscimento dei poliziotti autori delle violenze mediante le fotografie e le immagini, i funzionari  di polizia avevano finto di non riconoscere i soggetti ritratti.

53. Nel valutare la responsabilità individuale degli imputati, il Tribunale ha rilevato che, nelle circostanze di specie, gli agenti di polizia avevano agito con la convinzione che i loro superiori avrebbero tollerato gli atti da loro posti in essere.

Il Tribunale ha rilevato infatti, che alcuni funzionari e dirigenti presenti alle operazioni, non avevano immediatamente impedito le violenze prendendo anzi parte attiva nell'irruzione del VII Nucleo antisommossa e degli altri membri delle forze dell'ordine.

Pertanto, secondo il Tribunale, questi funzionari e dirigenti erano da ritenersi complici.

54. Il Tribunale ha accolto inoltre la tesi del pubblico ministero secondo cui la polizia aveva prodotto prove false e raccontato il falso per giustificare a posteriori sia le violenze perpetuate sia  le perquisizioni.

55.  Per quanto riguarda il comportamento degli occupanti dinnanzi all'assalto della polizia, il Tribunale ha osservato che le registrazioni video non mostrato oggetti lanciati dall'edificio a quanto dichiarato degli agenti secondo i quali invece, avrebbero dovuto proteggersi dal lancio di alcuni oggetti (monete, bulloni, ecc) mediante il posizionamento degli scudi sulle proprie teste durante le operazioni di sfondamento della porta di ingresso della scuola.

56. Per quanto riguarda il presunto accoltellamento subito da un agente, il Tribunale, sulla base degli accertamenti effettuati, ha ritenuto di non poter stabilire se tale episodio sia in realtà avvenuto o meno.

57. Inoltre, il Tribunale ha osservato che le due molotov indicate nella dichiarazione stampa del 22 luglio erano state in realtà rinvenute dalla polizia in città nel pomeriggio del 21 luglio e solo successivamente,  su iniziativa del Vice Prefetto di Genova, trasportate nel cortile della scuola, dove, durante le operazioni di perquisizione, venivano "ritrovate" in circostanze poco chiare.

58. Infine, il Tribunale ha rilevato che il verbale dell'operazione conteneva una descrizione fuorviante dei fatti, descrivente una resistenza violenta da parte di tutti gli occupanti e tacendo invece sul fatto che la maggior parte di essi erano in realtà  stati feriti dalla polizia.

 

 

 

Il giudizio d’appello

 

59. Con  sentenza n 1530/10 del 18 maggio 2010, depositata il 31 luglio 2010, la Corte d’Appello di Genova riformava parzialmente il giudizio di primo grado .

60. Dichiarava gli imputati colpevoli di reato di falso (diciassette accusati), di lesioni aggravate (nove accusati) e utilizzo illegale di arma da guerra (un imputato). Pertanto li condannava a pene detentive dai tre anni e otto mesi a cinque anni di reclusione nonché l’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici. Ai sensi della legge n 241 del 29 luglio 2006, tutti i detenuti beneficiavano però di uno sconto di pena di tre anni.

61. Altri imputati ed in particolare coloro accusati dei reati di diffamazione aggravata (quattordici accusati), abuso di autorità pubblica a causa della arresto illegale degli occupanti della scuola Diaz-Pertini (dodici imputati) e lesioni semplici (nove accusati) vedevano sopraggiungere il termine di prescrizione del reato, per cui, la Corte d'appello non poté pronunciarsi nei loro confronti se non per il loro proscioglimento a casa dell’avvenuta prescrizione.

Particolari circostanze attenuanti determinavano il proscioglimento del capo del VII Nucleo antisommossa, inizialmente condannato per danno aggravato. Infine, la Corte d'appello assolveva un imputato di reato di calunnia e porto abusivo di  arma da guerra nonché un'altra persona accusata di calunnia.

61. Quanto al risarcimento dei danni ed alle spese di giudizio, la Corte di Appello gli ha sostanzialmente confermati, con l'estensione di obblighi civili per gli imputati condannati per la prima volta in sede di impugnazione.

63. Nella motivazione della sentenza, la Corte di Appello ha chiarito in via preliminare, che, seppure fosse in effetti giustificabile il sospetto che all’interno della scuola ci fossero nascoste le armi utilizzate dai Black Blocks durante i due giorni di manifestazione, pur tuttavia non poteva considerarsi giustificabile pensare che gli occupanti delle scuole medesime fossero dei Black Blocks o comunque delle persone armate.

64. La Corte d'Appello ha poi precisato che diversi fattori hanno dimostrato che l'operazione non aveva lo scopo di identificare i Black Blocks ma aveva uno scopo diverso.

65. In primo luogo, già nella pianificazione dell’intervento, i funzionari di polizia avevano deciso che a prendervi parte sarebbero state le forze del VII Nucleo antisommossa ed altre forze di polizia tutte armate sino i denti; nessuna indicazione, in particolare circa l'uso della forza contro gli occupanti, sarebbe stata fornita a queste unità; il loro unico compito doveva essere quello di "proteggere" (mettere in sicurezza) l’edificio.

66. In secondo luogo, anche le persone che erano al di fuori della scuola Diaz-Pertini che non avevano mostrato alcun segno di resistenza, venivano  immediatamente aggredite dalle forze dell’ordine.

67. In terzo luogo, le forze dell’ordine facevano irruzione rompendo le porte di ingresso senza prima tentare di parlare di negoziare con gli occupanti spiegando loro che il raid fosse innocuo. Una volta all'interno della struttura, gli agenti avevano colpito gli occupanti in modo crudele e sadico, anche attraverso manganelli non regolamentari. Secondo la Corte d'Appello, le tracce di sangue visibili nelle fotografie scattate durante il sopralluogo erano fresche e non potevano essere il risultato delle ferite riportate dagli occupanti durante gli scontri dei giorni precedenti, in contrasto quindi con la “tesi vergognosa” sostenuta dalla Polizia.

68. Alla luce di queste considerazioni, la Corte d'appello ha ritenuto che lo scopo di tutta l'operazione era quella di fare molti arresti, anche in assenza di motivazioni giudiziarie, il fine essenziale era quello di ripristinare l'immagine mediatica della polizia che in quei giorni era apparsa impotente nella gestione degli eventi. I più alti funzionari delle forze dell’ordine utilizzarono quindi gli agenti del VII Nucleo antisommossa, un'unità pesantemente armata, dotata di tipo manganelli “tonfa” (fuori ordinanza) capaci di poter infliggere anche colpi mortali, con l’unico obiettivo di neutralizzare gli occupanti della scuola Diaz-Pertini, stigmatizzarli come teppisti pericolosi e come gli autori dei disordini dei giorni precedenti. La condotta violenta e coordinata di tutti gli agenti e funzionari coinvolti nell'operazione sarebbe stata la naturale conseguenza di queste considerazioni.

69. Pertanto, secondo la Corte d'Appello, almeno tutti i principali funzionari e dirigenti del VII Nucleo antisommossa erano colpevoli delle lesioni inflitte agli occupanti. Per quanto riguarda i dirigenti e funzionari di grado più alto, la Corte d'Appello chiariva che la decisione di non coinvolgerli nel processo era stata giustificata dall’opportunità di non addebitare loro alcuna responsabilità penale.

70. Inoltre, secondo la Corte d'Appello, solo dopo che vi fu l’ordine di procedere penalmente nei confronti degli agenti, i vertici della Polizia avevano tentato di giustificare il loro intervento.

71. A questo proposito, la Corte d'appello ha rilevato, in primo luogo, che, nel corso dell'inchiesta, è stata attribuita agli occupanti la responsabilità di crimini che non hanno in realtà mai commesso: infatti, secondo i giudici di appello, era evidente che gli occupanti della scuola non avevano opposto alcuna resistenza alla polizia e che non avevano gettato oggetti sui poliziotti quando questi si trovavano nel cortile della scuola; alcuni occupanti si erano solo difesi dalle violenze degli agenti di polizia; fra tutte le circostanze poi, quella del presunto accoltellamento subito da un agente durante l’irruzione si sarebbe dimostrato una vera e propria "vergognosa messa in scena".

 

72. La Corte d'appello ha rilevato, inoltre, che i più alti funzionari delle forze di sicurezza sulla scena, avevano deciso di mettere le due molotov trovate altrove durante il pomeriggio, tra gli oggetti raccolti durante la perquisizione al fine di giustificare la necessità degli arresti. Per la Corte d'Appello, l'arresto, privo di ogni fondamento fattuale e giuridico, era quindi da considerarsi del tutto illegale.

73. Nel determinare le sanzioni, la Corte d'Appello ha ritenuto che, fatta eccezione per il capo del VII Nucleo antisommossa che aveva cercato di limitare la violenza e che aveva infine confessato il reato durante le discussioni in aula, nessuna circostanza attenuante poteva essere riconosciuta a favore degli altri imputati. Basandosi in particolare sulle dichiarazioni delle vittime, la Corte d'Appello sottolineava che gli agenti delle forze dell’ordine si erano trasformati in "teppisti violenti" indifferenti a qualsiasi vulnerabilità fisica legata al genere e all’età degli occupanti, nonché a qualsiasi segno di resa, anche da parte di quelle persone che si trovavano ancore nei loro sacchi a pelo. La Corte d’Appello ha rilevato che a tutto questo, gli agenti aggiungevano insulti e minacce. Tale condotta ebbe come ulteriore effetto quello di screditare l’Italia nell'opinione pubblica internazionale. Inoltre rilevava la circostanza che i vertici della stessa polizia avevano mentitamente addebitato agli occupanti la responsabilità di fatti meramente inventati.

La violenza sistematica e coordinata dalla polizia e i tentativi dei suoi vertici di giustificare a posteriori tale condotta erano da considerarsi, agli occhi della Corte di Appello, un comportamento consapevole e premeditato e non assolutamente causato da uno stato di stress e affaticamento.

74. Tuttavia, tenuto conto del fatto che l'intera operazione era stata organizzata al fine di operare degli arresti e che gli imputati avevano quindi agito sotto la pressione psicologica di questo tipo di operazione, la Corte d'Appello ne tenne comunque conto e pertanto ha condannato gli imputati alla pena minima prevista dalla legge penale per ciascuno dei reati in questione.

 

Il giudizio dinnanzi alla Corte di Cassazione.

 

75. Gli imputati, il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Genova, il Ministero dell'Interno (responsabile civile) e alcune delle vittime si costituivano dinnanzi alla Corte di Cassazione contro la decisione impugnata;

76. Con sentenza n ° 38085/12 del 5 Luglio 2012 depositata il 2 ottobre 2012, la Corte di Cassazione ha confermato in sostanza il giudizio di appello.

77.  Nelle motivazioni della sua sentenza, la Corte di Cassazione ha osservato che – così come sancito con le sentenze di primo e secondo grado - "le violenze perpetrate dalla polizia nella scuola Diaz Pertini sono state particolarmente gravi. Una condotta violenta perpetrata in tutti i locali della scuola nei confronti di persone disarmate, addormentate o sedute con le braccia alzate; una "violenza ingiustificata” e, come giustamente sottolineato dal Procuratore Generale, “esercitata con uno scopo punitivo, di rappresaglia, tesa semplicemente a provocare l'umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime ". Tale violenza, secondo la Corte di Cassazione, aveva a tutti gli effetti la connotazione della "tortura" ai sensi dell’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite.

78. La Suprema Corte ha osservato che, in assenza di un reato penale ad hoc secondo la legge italiana, la violenza in questione poteva essere processualmente considerata solo alla stregua di lesioni aggravate, per le quali comunque era già intervenuta la prescrizione ai sensi dell’art. 157. Ha osservato inoltre che questo era sostanzialmente anche il motivo per cui il Procuratore Generale aveva denunciato la contraddizione tra la regolamentazione della prescrizione dei reati penali ai sensi dell'articolo 157 del codice – per la quale non ha rilevanza l’articolo 3 della Convenzione - e l'articolo 3 della Convenzione stessa, che invece prevede l'obbligo per ogni Stato contraente di punire adeguatamente gli abusi e che quindi  dovrebbe impedire la prescrizione dei reati.

La Suprema Corte ha rilevato, tuttavia, che un cambiamento delle norme sulla prescrizione come sostenuto dal Procuratore Generale, non rientra nei poteri della Corte stante il disposto dell'articolo 25 della Costituzione italiana.

79. Per quanto riguarda le condanne per i reati di lesioni personali, la Corte di Cassazione ha confermato le conclusioni della Corte d'Appello che aveva ritenuto l’operazione di polizia come una operazione a connotazione “militare” con lo scopo di effettuare degli arresti nella scuola. Per la Corte di Cassazione, il numero molto elevato di agenti, l’assenza di  istruzioni, l’uso di gas lacrimogeni (vedi punto 29 sopra) e l'assenza di qualsiasi direttiva sull'uso della forza contro gli occupanti, confermavano che l'operazione non era stata concepita come un innocua perquisizione. Questi aspetti operativi avrebbe comportato il pestaggio di quasi tutti gli occupanti della scuola, confermando in tal modo la responsabilità, tra gli altri, dei  vertici del VII Nucleo antisommossa. In primo luogo, essi non hanno alcuna informazione su come avrebbero dovuto mettere in "sicurezza" l'edificio e non hanno fornito alcuna giustificazione sul perché non informarono i loro superiori che l’edificio era occupato da persone innocue; inoltre, non hanno fornito alcuna giustificazione sul perché dell’aggressione delle persone che erano al di fuori del palazzo, sul perché dell'ingresso violento nella scuola e dell'assalto contro gli occupanti dell’edificio. In conclusione, così come già statuito dalla Corte d'Appello, anche per i giudici della Cassazione i vertici della polizia erano consapevoli della violenza insita in quel tipo di operazione.

La Suprema Corte ha rilevato inoltre che i rinvii, le interruzioni e le strategie processuali hanno permesso la prescrizione dei reati già il 3 Agosto 2010 in forza degli articoli 157 e seguenti del codice penale, così come modificati dalla legge n.251 del 5 dicembre 2005.

80. La Corte di Cassazione ha confermato inoltre la commissione dei reati di calunnia, di falso e di abuso di armi da guerra come parte di una "vigliacca mistificazione" posta in essere per giustificare a posteriori la violenza nella scuola e  l’arrestato gli occupanti. Ha rilevato, in primo luogo, che gli occupanti della scuola non opposero resistenza e che non erano in possesso di bombe molotov, che invece sono state introdotte nella scuola dalla stessa polizia. La Corte di Cassazione conclude che i verbali e le considerazioni della polizia erano da ritenersi del tutto falsi e ingiustificati. Per quanto riguarda il presunto accoltellamento subito da un agente di polizia, così come già deciso dai giudici di appello, la Corte Suprema ha sostanzialmente confermato la sentenza nei confronti dei due ufficiali colpevoli di aver dichiarato il falso (tre anni e cinque mesi, come indicato nella motivazione della decisione impugnata, invece di tre anni e otto mesi, come statuito nella sentenza di primo grado.

 

2. Sugli avvenimenti della scuola Pascoli.

 

81. I capi di imputazione relativi a quanto accaduto nella scuola Pascoli sono stati quelli di perquisizione ingiustificata e danni materiali.

82. Con sentenza n 4252/08 (vedi punto 49), i giudici di primo grado hanno ritenuto che l’irruzione nella scuola Pascoli è stato in realtà frutto di un errore di identificazione dell’edificio. I giudici hanno inoltre ritenuto che non vi era stata alcuna chiara ragione per suggerire un’irruzione anche nella scuola Pascoli.

83. Con sentenza n 1530/10 (vedi punto 59), la Corte d'Appello di Genova ha ritenuto invece che non vi era stato alcun errore perché in realtà il motivo dell’irruzione era quello di voler eliminare ogni prova cinematografica dell’irruzione avvenuta poco prima nella vicina scuola Diaz-Pertini, per cui la polizia aveva deliberatamente danneggiato i computer ed il materiale che si trovava all’interno. Il giudice d'appello, tuttavia, proscioglieva gli ufficiali di polizia accusati a causa della prescrizione dei reati contestati.

84. Con sentenza n.38085/12 (punto 76), la Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di appello. Ha sottolineato infatti che la Corte d’Appello aveva giustamente osservato che nella scuola Pascoli, la polizia aveva fatto una perquisizione ingiustificata, finalizzata alla ricerca ed alla distruzione dei materiali audiovisivi e di altra documentazione relativa a quanto accaduto nella scuola Diaz-Pertini.

 

H. L’INCHIESTA PARLAMENTARE.

 

85. Il 2 agosto del 2001, i Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato affidavano alle commissioni Affari Costituzionali dei due rami del Parlamento la conduzione di una inchiesta sui fatti accaduti durante il G8 di Genova. A tal fine, veniva istituita una Commissione composta da diciotto deputati e diciotto senatori.

86. Il 20 settembre del 2001, la Commissione ha presentato una relazione dal titolo "Relazione finale dell’inchiesta parlamentare sui fatti del G8 di Genova”. Secondo la relazione, l’irruzione nella scuola Diaz - Pertini fu “un esempio significativo di gravi carenze organizzative e problemi operativi . "

 

II.LE NORME NAZIONALI

 

a) Le norme penali rilevanti.

 

87. L’art. 39 del codice penale (C.P.) distingue i reati in due categorie: i delitti e le contravvenzioni.

1.I capi di imputazione in relazione alle vicende della scuola Diaz-Pertini e le norme applicabili ai fini della condanna.

88. Ai sensi dell'articolo 323 del C.P. “..il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni” (L'art. 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha comportato un aggravamento di pena che ha portato i limiti edittali da uno a quattro anni di reclusione).

89. Ai sensi dell'art 368 §§ 1 e 2 del C.P., “chiunque, attraverso una informazione indirizzata all'autorità giudiziaria,  incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se si incolpa di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave”.

90. Ai sensi dell'articolo 479 del C.P., “il pubblico ufficiale che ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuta alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità (falso intellettuale) è punibile con la reclusione da un anno a sei anni o, se la falsità concerne un atto o parte di un atto che faccia fede fino a querela di fallo, la reclusione è da tre a dieci anni.”

91. L’articolo 582 del C.P. prevede che chi cagiona ad alcuno una lesione personale dalla quale deriva una malattia del corpo o della mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni.

Ai sensi dell'articolo 583 del C.P., la lesione è considerata "grave" ed è punibile con una pena detentiva da tre a sette anni se causa una particolare disabilità o inabilità temporanea superiore a quaranta giorni.

Secondo l'articolo 585 del C.P., queste sanzioni sono aumentate, in particolare, fino a un terzo, in presenza delle circostanze aggravanti previste dall’art. 577 del C.P. (ad esempio, se il fatto è commesso con premeditazione o una delle circostanze aggravanti ai sensi dell'articolo 61, 1 e 4 punto 93).

 

92. Ai sensi dell'articolo 2 della legge n 895 del 2 ottobre 1967, il possesso illegale di armi e esplosivi è punibile con una pena detentiva da uno a otto anni e una multa.

L'articolo 4 della legge penalizza il porto d'armi o di esplosivi in un luogo pubblico o aperto al pubblico, con la reclusione da due a otto anni, più una multa; tali sanzioni sono aumentate, tra l'altro, se il reato è commesso da due o più persone, o se si è commesso di notte in un luogo abitato.

93. Il codice penale prevede circostanze aggravanti comuni quali l’aver commesso un reato per motivi futili (articolo 61 § 1), per eseguirne od occultarne un altro (articolo 61 § 2), l’aver adoperato sevizie o aver agito con crudeltà contro la persona (articolo 61, § 4) e, infine, l’aver commesso il fatto con abuso di poteri o con la violazione di doveri inerenti l’esercizio di una pubblica funzione.

L’articolo 62 elenca le attenuanti comuni. Ai sensi dell'articolo 62-bis del C.P. nella condanna, il giudice può prendere in considerazione qualsiasi circostanza, anche non espressamente contemplata dall'articolo 62, quando questa possa giustificare una riduzione della pena.

94. Nel caso di condanna per concorso di reati nello stesso giudizio, le pene detentive sono cumulative (articoli 71, 73 e 74 del C.P.). Tuttavia, nel caso di concorso di reati, la pena da applicare non può essere superiore al quintuplo della più grave fra le pene concorrenti, né comunque eccedere i trenta anni in caso di reclusione (Articolo 78 § 1 CP).

95. Se più crimini sono stati commessi per mezzo di una serie di azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, il giudice deve applicare la pena per il reato più grave, aumentata di almeno un terzo, e sempre entro i limiti stabiliti dall'articolo 78 c.p. (articolo 81 C.P.).

 

 

2. La prescrizione dei reati

 

96. La prescrizione è una delle cause di estinzione dei reati (capo I del titolo VI del libro I del CP) . Le norme in materia di prescrizione sono state modificate dalla legge n. 251 del 5 dicembre 2005 e dal Decreto Legislativo n ° 92 del 23 maggio 2008 .

97. Ai sensi dell'articolo 157 § 1 del c.p., il reato è prescritto dopo la scadenza di un periodo di tempo equivalente alla durata del massimo della pena prevista dalla legge e comunque in un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e di quattro anni per se si tratta di contravvenzioni.

98. Il secondo, terzo e quarto comma dell'articolo 157 stabiliscono i criteri per il calcolo del termine di prescrizione; il quinto comma prevede un termine di prescrizione di tre anni per un reato se è punibile con pene diverse da quella detentiva o pecuniaria. Il sesto comma prevede che i termini di prescrizione siano raddoppiati per alcune tipologie di reati (tra cui l’associazione di stampo mafioso, la tratta di esseri umani, il sequestro di persona, il traffico di stupefacenti). L'ottavo comma del medesimo articolo, dispone che siano imprescrittibili i reati  punibili con l'ergastolo.

99. L'imputato può sempre rinunciare espressamente alla prescrizione (articolo 157 § 7 del C.P.).

100. L'articolo 158 § 1 del C.P. prevede che il termine di prescrizione decorre dal momento della commissione del reato.

101. Ai sensi dell'articolo 160 del C.P., il termine di prescrizione è prorogato in caso di interruzioni procedurali, tra cui la sentenza di condanna. Il secondo comma dell'articolo 161 dispone che, fatta eccezione per alcune tipologie di reato (previste dall’art. 51 commi 3-bis e 3-quater), in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere, ed in alcuni casi, più della metà (art.99 c.p.), più di due terzi (nel caso di recidiva) o più del doppio (se l'autore del reato è un delinquente abituale).

 

 

B. La Legge n.241 del 29 luglio 2006 (concessione dell’indulto).

 

102. Legge n 241 del 29 luglio 2006 stabilisce le condizioni per la concessione di un condono generale delle pene (indulto). Essa contiene un solo articolo, che nella parte che interessa, recita come segue:

"1. E’ concesso indulto, per tutti ireati commessi fino a tutto il 2 maggio 2006, nella misura non inferiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per quelle pecuniarie sole o congiunte a quelle detentive (...) "

 

 

C. L'azione civile in relazione ad un reato penale.

 

103. Ai sensi degli articoli 75 e 76 del codice di procedura penale, le persone che hanno subito un danno a causa di un reato possono costituirsi parte civile dinanzi ai tribunali civili o penali.

104. Dinnanzi ai giudici penali, l'azione civile è introdotta mediante la costituzione della parte civile

 

 

D. Relazione sull'amministrazione della giustizia per il 2013.

 

105. Il 24 gennaio 2014, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, il Primo Presidente della Corte di Cassazione nella relazione sull'amministrazione della giustizia del 2013 ha specificato che :

Dal 1989 , [ ... ] L'Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, impegnandosi ad introdurre nel nostro ordinamento la dispilina di questo grave reato e di stabilire i limiti e l'inapplicabilità di misure quali l'amnistia e l’indulto. Dopo venticinque anni, nulla è stato ancora fatto, tant'è che gli atti di tortura che si commettono in Italia sono ancora soggetti all’istituto della prescrizione a causa della mancanza di una legge che sanzioni la tortura come tale imponendo sanzioni adeguate e commisurate alla gravità dei fatti. »

 

E. Proposta di legge per l'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento giuridico italiano.

 

106. Il 5 marzo 2014, il Senato italiano ha approvato un disegno di legge (n ° S - 849 , che unisce le proposte S -10  S - 362 , S - 388 , S - 395 , S - 849 e S - 874) per l'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento giuridico italiano.

Tale proposta è stata successivamente inviata alla Camera dei Deputati per l'approvazione.

 

A. DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UMANITA’

 

III Elementi di diritto internazionale rilevanti nel caso di specie.

 

107. L'articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948 prevede che: "Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti. »

 

B. ACCORDO INTERNAZIONALE SUI DIRITTI CIVILI E POLITICI.

 

108. L'articolo 7 del Accordo internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, in vigore dal 23 marzo 1976 e ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978, prevede che:

"Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, a sperimentazioni mediche o scientifiche. »

 

C. CONVENZIONE DELLE NAZIONI UNITE CONTRO LA TORTURA

 

109. In relazione al caso in questione, gli articoli della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, entrata in vigore il 26 giugno 1987 e ratificata dall'Italia 12 gennaio 1989, sono i seguenti:

Articolo 1

"1. Ai fini della presente Convenzione, il termine "tortura" indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.

2. Tale articolo non reca pregiudizio a qualsiasi strumento internazionale o a qualsiasi legge nazionale che contenga o possa contenere disposizioni di più vasta portata.»

Articolo 2

1. Ogni Stato Parte adotta misure legislative, amministrative, giudiziarie ed altre misure efficaci per impedire che atti di tortura siano commessi in qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione.

2. Nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra. di instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per giustificare la tortura.

3. L'ordine di un superiore o di un'autorità pubblica non può essere invocato a giustificazione della tortura.

Articolo 3

1. Nessuno Stato Parte espellerà, respingerà o estraderà una persona verso un altro Stato nel quale vi siano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta alla tortura.

2. Al fine di determinare se tali motivi esistono, le autorità competenti terranno conto di tutte le considerazioni pertinenti, ivi compresa, se del caso, l'esistenza nello Stato interessato, di un insieme di violazioni sistematiche dei diritti dell'uomo, gravi, flagranti o massicce.

Articolo 4

1. Ogni Stato Parte vigila affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni nei confronti del suo diritto penale. Lo stesso vale per i tentativi di praticare la tortura o ogni atto commesso da qualsiasi persona, che rappresenti una complicità o una partecipazione all'atto di tortura.

2. Ogni Stato Parte rende tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità.

Articolo 5

1. Ogni Stato membro adotta le misure necessarie a determinare la sua competenza al fine di giudicare in merito alle trasgressioni di cui all'articolo 4, nei seguenti casi:

 

a) qualora la trasgressione sia stata commessa su qualsiasi territorio sottoposto alla giurisdizione di detto Stato o a bordo di aeronavi o di navi immatricolate in questo Stato;

 

b) qualora il presunto autore della trasgressione sia un cittadino di detto Stato;

 

c) qualora la vittima sia un cittadino di detto Stato e quest'ultimo il giudice appropriato.

 

2. Ogni Stato membro adotta altresì le misure necessarie a determinare la sua competenza al fine di giudicare le suddette trasgressioni, qualora il loro presunto autore si trovi su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione, ed il detto Stato non lo estradi, in conformità all'articolo 8, verso uno degli Stati di cui al paragrafo 1 del presente articolo.

 

3. La suddetta Convenzione non esclude nessuna competenza penale esercitata in conformità alle leggi nazionali.

 

Articolo 10

l. Ogni Stato membro vigila affinché l'insegnamento e l'informazione relativi all'interdizione della tortura,

siano parte integrante della formazione del personale civile o militare incaricato dell'applicazione delle leggi, del personale medico, degli agenti della funzione pubblica e di altre persone che possono intervenire nel corso della custodia, dell'interrogatorio o del trattamento di ogni individuo arrestato, detenuto o imprigionato in qualsiasi maniera.

2. Ogni Stato Parte inserisce detta interdizione nei regolamenti o nelle istruzioni promulgate in merito agli obblighi e alle competenze di tali persone.

Articolo 11

Ogni Stato membro esercita una sistematica sorveglianza su regolamenti, istruzioni, metodi e pratiche di interrogatorio e sulle disposizioni relative alla custodia ed al trattamento delle persone arrestate, detenute o imprigionate in qualsiasi maniera, su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione, al fine di evitare ogni caso di tortura.

Articolo 12

Ogni Stato membro vigila affinché le autorità competenti procedano immediatamente ad un'inchiesta imparziale, ogni volta che vi siano motivi ragionevoli di ritenere che un atto di tortura sia stato commesso su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione.

Articolo 13

Ogni Stato membro garantisce ad ogni persona che pretende essere stata sottoposta alla tortura su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione, il diritto di sporgere denuncia davanti alle autorità competenti di detto Stato, che procederanno immediatamente ed imparzialmente all'esame della sua causa. Saranno presi provvedimenti per assicurare la protezione dell'attore e dei testimoni contro qualsiasi maltrattamento o intimidazione a causa della denuncia inoltrata o di qualsiasi deposizione resa.

Articolo 14

l. Ogni Stato membro garantisce, nel suo sistema giuridico, alla vittima di un atto di tortura, il diritto di ottenere riparazione e di essere equamente risarcito ed in maniera adeguata, inclusi i mezzi necessari alla sua riabilitazione più completa possibile. In caso di morte della vittima, risultante da un atto di tortura, gli aventi causa di quest'ultima hanno diritto al risarcimento.

2. Il presente articolo non esclude alcun diritto al risarcimento cui la vittima od ogni altra persona avrebbe diritto in virtù delle leggi nazionali.

Articolo 15

Ogni Stato membro vigila affinché ogni dichiarazione in cui si sia stabilito che è stata ottenuta con la tortura non possa essere invocata come elemento di prova in un procedimento, se non contro la persona accusata di tortura, al fine di determinare che una dichiarazione è stata resa.

Articolo 16

l. Ogni Stato membro s'impegna a proibire in ogni territorio, sottoposto alla sua giurisdizione, altri atti che costituiscono pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che non siano atti di tortura come definiti all'articolo primo, allorché questi atti sono commessi da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. In particolare, gli obblighi enunciati agli articoli l0, 11, 12 e 13 sono applicabili mediante la sostituzione della menzione della tortura con la menzione di altre forme di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

2. Le disposizioni della presente Convenzione non pregiudicano le disposizioni di ogni altro strumento internazionale o della legge nazionale che vietino le pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, o che siano relative all'estradizione o all'espulsione.

 

 

D. DICHIARAZIONE SULLA PROTEZIONE DI TUTTE LE PERSONE CONTRO LA TORTURA E GLI ALTRI TRATTAMENTI CRUDELI, INUMANI E DEGRADANTI

 

110. Relativamente al caso in questione, gli articoli applicabili della Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1975 così recitano:

Articolo 4

1. Ogni Stato Parte vigila affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni nei confronti del suo diritto penale. Lo stesso vale per i tentativi di praticare la tortura o ogni atto commesso da qualsiasi persona, che rappresenti una complicità o una partecipazione all'atto di tortura.

2. Ogni Stato Parte rende tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità.

Articolo 7

1. Lo Stato Parte sul cui territorio viene scoperto il presunto autore di una trasgressione di cui all'articolo 4, qualora non estradi quest'ultimo, sottopone la questione, nei casi di cui all'articolo 5, alle sue autorità competenti per lo svolgimento dell'azione penale.

2. Dette autorità prendono le loro decisioni alle medesime condizioni che per ogni trasgressione di diritto comune di natura grave in virtù della legislazione di detto Stato.

Nei casi di cui al paragrafo 2 dell'articolo 5, i criteri di prova che si applicano ai procedimenti penali ed alla condanna non sono in alcun modo meno rigorosi di quelli che si applicano nei casi di cui al paragrafo 1 dell'articolo S.

3. Ogni persona perseguita per una qualsiasi delle trasgressioni di cui all'articolo 4, beneficia della garanzia di un trattamento equo in tutte le fasi della procedura.

Articolo 10

l. Ogni Stato Parte vigila affinché l'insegnamento e l'informazione relativi all'interdizione della tortura, siano parte integrante della formazione del personale civile o militare incaricato dell'applicazione delle leggi, del personale medico, degli agenti della funzione pubblica e di altre persone che possono intervenire nel corso della custodia, dell'interrogatorio o del trattamento di ogni individuo arrestato, detenuto o imprigionato in qualsiasi maniera.

2. Ogni Stato Parte inserisce detta interdizione nei regolamenti o nelle istruzioni promulgate in merito agli obblighi e alle competenze di tali persone.

Articolo 11

Ogni Stato Parte esercita una sistematica sorveglianza su regolamenti, istruzioni, metodi e pratiche di interrogatorio e sulle disposizioni relative alla custodia ed al trattamento delle persone arrestate, detenute o imprigionate in qualsiasi maniera, su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione, al fine di evitare ogni caso di tortura.

 

E. Principi di base delle Nazioni Unite sull'uso della forza e delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine

 

111. Adottati il 7 Settembre 1990 dall’ottavo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e sul trattamento dei trasgressori, questi principi relativamente al caso che interessa affermano:

“..Lo sviluppo e l'uso di armi paralizzanti non letali devono essere attentamente valutati al fine di minimizzare i rischi a terzi e l'uso di tali armi devono essere soggetti a controlli rigorosi.

4. I responsabili delle forze dell'ordine nello svolgimento del loro dovere, per quanto possibile devono ricorrere a l’uso di mezzi non violenti prima di ricorrere all'uso della forza o delle armi da fuoco. Essi possono usare la forza o fare ricorso alle armi da fuoco solo se tutti gli altri mezzi risultino inefficaci per il raggiungimento dello scopo.

5. Ogni volta che l'uso legittimo della forza e delle armi da fuoco è inevitabile, il responsabile delle forze dell'ordine deve:

a) operare con moderazione e agire in proporzione alla gravità del reato;

b) adoperarsi al fine di causare solo danni minimi e preservando quanto più possibile l'integrità fisica e la vita umana;

c) assicurarsi che l’assistenza e l'aiuto medico siano garantiti a ogni persona coinvolta nel tempo più rapido possibile.

d) verificare che i parenti o gli amici più stretti della persona infortunata o interessata siano immediatamente informati.

7. I governi devono garantire che l'uso arbitrario o abusivo della forza e delle armi da fuoco da parte di funzionari delle forze dell'ordine sia punito come reato, secondo la legislazione nazionale .

8. Circostanze eccezionali, come l’instabilità della situazione politica interna o lo stato di emergenza, non possono essere invocate per giustificare qualsiasi scostamento da questi principi basilari.

24. I funzionari di grado superiore devono essere ritenuti responsabili delle azioni dei loro sottoposti quando questi, sotto il loro comando, si rendano responsabili di un uso illegale della forza o di armi da fuoco, e quando gli stessi non abbiano preso tutte le misure in loro potere per prevenire, sopprimere o segnalare tale utilizzo. »

 

F. OSSERVAZIONI DEL COMITATO DEI DIRITTI DELL’UOMO DELLE NAZIONI UNITE

 

112. Le Osservazioni Conclusive del Comitato sui diritti umani delle Nazioni Unite per quanto riguarda l'Italia , pubblicate il 18 agosto 1998 ( Doc . CCPR / C / 79 / Add.94 ) così recitano :

" 13. Il Comitato è preoccupato per la mancanza di sanzioni nei confronti degli appartenenti delle forze dell'ordine e della polizia penitenziaria che abusano del loro potere. Si raccomanda che, sulla base del richiesto controllo di vigilanza, vengano denunciati tutti i Carabinieri ed  il personale carcerario che si rendano responsabili di tali violazioni.( ... )

19. Il Comitato rileva che molti ostacoli continuano a ritardare l'adozione dei seguenti atti legislativi: in particolare  l’incorporazione del reato di tortura nel codice penale che invece è previsto dal diritto internazionale (articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici( ... ) "

 

G. ATTI DEL COMITATO DELLE NAZIONI UNITE CONTRO LA TORTURA

 

113. Seguono le Osservazioni Conclusive del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ("CAT") emesse il 1° gennaio 1995, nei confronti dell’l'Italia (UN Doc A / 50/44 (SUPP) :

"157. Il Comitato raccomanda allo Stato membro di:(...)

d) Verificare che le denunce di maltrattamenti e di torture siano prontamente ed efficacemente esaminate e che gli eventuali responsabili siano prontamente sanzionati mediate l’effettiva applicazione di pene certe (...). »

114. Seguono altre Osservazioni conclusive del CAT pubblicate il 1° gennaio 1999 (A / 54/44 SUPP), sempre nei confronti dell'Italia:

"141. Il Comitato nota con apprezzamento:

a) che è in corso, nell’ambito del diritto nazionale italiano, l’esame relativo all’introduzione del reato di tortura nonché dell’istituzione di un fondo speciale nazionale per le vittime di tale tipologia di reato (.. .).

(...)

145. Il Comitato raccomanda:

a) che il legislatore italiano recepisca nel proprio diritto interno la figura del reato di tortura così come già definito dall’articolo 1 della Convenzione, ed assicuri alle vittime di tale reato la possibilità di ricorrere giudizialmente (...) "

115. Seguono le ulteriori Conclusioni e raccomandazioni del CAT pubblicate il 16 LUGLIO 2007 (A CAT doc / C / ITA / CO / 4.) sempre nei confronti dell’Italia:

"5. Nonostante lo Stato membro sostiene che tutti gli atti che possono essere descritti come  tortura "ai sensi dell'articolo 1 della Convenzione sono comunque punibili ai sensi del Codice penale italiano e sebbene si prende atto che il disegno di legge (n 1216) è stato approvato dalla Camera dei Deputati ed è attualmente in attesa dell’esame da parte del Senato, il Comitato rimane in ogni caso preoccupato del fatto che lo Stato italiano non abbia ancora recepito nel proprio ordinamento il reato di tortura così come definito all'articolo I della Convenzione (articoli 1 e 4). (...) Il Comitato ribadisce la sua precedente raccomandazione (A / 54/44, par. 145 a), nel senso che lo Stato membro si impegni ad recepire il reato di tortura nel diritto nazionale e ad adottare una definizione di tortura che ricalchi integralmente tutti gli elementi di cui all'articolo I della Convenzione. Lo Stato membro deve inoltre garantire che tali reati siano punibili con pene appropriate che tengano conto della loro gravità, così come previsto al paragrafo 2 dell'articolo 4 della Convenzione. »

 

H. I RAPPORTI DEL COMITATO PER LA PREVENZIONE DELLA TORTURA E LE RISPOSTE DEL GOVERNO ITALIANO

 

116. Il rapporto del CPT al Governo italiano all’indomani della visita in Italia dal 21 novembre al 3 dicembre 2004 (CPT / Inf (2006) 16 del 27 aprile 2006) relativamente al casoin questione, recita quanto segue :

"11. Il CPT ha seguito l’iter parlamentare del disegno di legge per l'introduzione del reato di tortura nel codice penale. Questi sforzi hanno raggiunto il loro culmine il 22 aprile 2004, con la discussione in seduta plenaria del Parlamento sul un nuovo articolo 613 bis. Tuttavia, questo progetto è stato oggetto di una modifica dell'ultimo minuto (l'aggiunta del concetto di violenza o minaccia "ripetuta"). E 'stato concordato un nuovo testo che non riflette esattamente quanto già previsto dalla Convenzione. Da allora, il processo legislativo è bloccato.

Le CPT spera che le autorità italiane possano perseverare nei loro sforzi al fine di introdurre nel codice penale il reato di tortura.

(....)

14. Nel 2001 il CPT ha discusso con le autorità italiane sugli eventi che hanno avuto luogo a Napoli (17 marzo 2001) e Genova (dal 20 al 22 luglio 2001). Le autorità italiane hanno continuato ad informare la Commissione circa i procedimenti relativi alle accuse di abusi operati dalla polizia. Le autorità hanno fornito, in occasione della visita, un resoconto dei procedimenti giudiziari e disciplinari in corso.

Il CPT vorrebbe essere regolarmente informato dei procedimenti giudiziari e disciplinari di cui sopra. Inoltre, chiede informazioni dettagliate sulle misure adottate dalle autorità italiane per impedire il ripetersi di episodi simili in futuro (per esempio, circa  la gestione delle principali operazioni di pace, circa la formazione del personale di vigilanza e del livello dei sistemi di controllo e di ispezione). »

117. Nella risposta del Governo italiano (CPT / Inf (2006) del 27 aprile 2006) si legge quanto segue:

"Per quanto riguarda la specifica introduzione e la definizione formale del reato di tortura nel codice penale italiano, la mancanza di reato in tale codice penale non implica che l’ordinamento non punisca tale tipo di condotta. Se, da un lato, il reato di tortura non è esplicitamente contemplato dal diritto penale interno perché si tratta di una pratica lontana dalla nostra cultura, dall’altro lato, gli autori di tale condotta sono assicurati alla giustizia e puniti severamente con altre norme del codice penale. Inoltre, stiamo considerando la possibilità, in relazione alla regolazione del nostro sistema giuridico e dello statuto della Corte penale internazionale, di inserire il reato di tortura nel nostro sistema, attraverso una definizione più ampia e più completa rispetto a quanto già previsto dalle convenzioni internazionali . Tuttavia, la sostanza non cambia; con o senza la parola "tortura" nel codice penale, la fattispecie è comunque punita. L Art.32 di Bill No. 6050 (2005), prevede che: "Chiunque leda un individuo sotto il proprio o altrui controllo o custodia cagionandogli gravi sofferenze, fisiche e/o psicologiche, è condannato alla pena della reclsuione fino a dieci anni (...)

"Per quanto riguarda i cosiddetti" eventi di Genova ", i procedimenti giudiziari riguardano tre diversi avvenimenti:

(...)

iii. Per quanto riguarda il procedimento penale relativo a quanto verificatosi nella scuola Diaz, all’all'udienza dell'11 gennaio 2006 è emerso che nonostante la mancanza di una norma che espressamente preveda e sanzioni il reato di tortura nel codice italiano, grazie a diverse disposizioni, le condotte comunque riconducibili alla tortura vengono comunque punite.

Alla luce dell'articolo 11 del decreto del D.P.R. n.737 / 1981 vengono difatto applicate misure disciplinari al personale di polizia che sia oggetto di procedimenti penali in relazione con gli eventi citati, nello specifico, i soggetti sottoposti a sanzione disciplinare vengono necessariamente sospesi dal servizio.

La logica di tale disposizione è evidente: si vuole evitare che si realizzino interferenze che possano pregiudicare l’attività dall'Autorità Giudiziaria sia in termini di ricostruzione dei fatti sia in termini di garanzia di difesa. Una valutazione disciplinare dei comportamenti individuali segue pertanto la commissione di eventuali reati, senza la possibilità che possa intervenire neppure la prescrizione. Dal 2001 ad oggi si è inoltre registrata un diminuzione di tali episodi anche in occasione di eventi ordinari quali ad esempio quelli relativi alle manifestazioni sportive. »

118. Il rapporto del CPT al governo italiano in occasione della visita in Italia dal 14 al 26 settembre 2008 (CPT / Inf (2010) 12 del 20 aprile 2010) rileva inoltre:

"11. Dal 2001, il CPT è impegnato in un dialogo con le autorità italiane per quanto riguarda gli eventi che hanno avuto luogo a Napoli (17 marzo 2001) e Genova (dal 20 al 22 luglio 2001).

Il Comitato ha preso atto delle informazioni fornite dalle autorità italiane durante la visita nel caso di procedimento giudiziario relativi agli eventi di cui sopra; chiede di essere informato in tempo utile, i risultati delle procedure.

12. Per quanto riguarda l'attuazione del progetto di lunga data per l'introduzione del reato di tortura nel codice penale, il CPT ha osservato che sono stati fatti solo progressi minimi dall’ultima visita del 2004. Il Comitato esorta le autorità italiane a raddoppiare gli sforzi per introdurre il più rapidamente possibile la criminalizzazione della tortura nel codice penale, in conformità con gli obblighi internazionali dassunti dall’Italia. »

119. La  risposta del governo italiano sulla richiesta ( CPT / Inf  13 del 20 aprile 2010) recita:

" 20. Per quanto riguarda il codice penale, vale la pena ricordare l'articolo 606 e seguenti che salvaguardano il diritto della persona contro l'arresto illegale inteso come indebita limitazione della libertà personale, l'abuso d'ufficio, le ispezioni e perquisizioni personali illegali .

21. Tali garanzie sono integrate dalle disposizioni di cui all'articolo 581 (percosse), dall'articolo 582 (lesione personale), dall'articolo 610 (violenza privata) e dall'articolo 612 (minaccia). Ed ancora, le disposizioni di cui all'articolo 575 (omicidio), e all'articolo 605 (sequestro), oltre all'insieme di norme che prevedono e disciplinano le circostanze aggravanti quali quelle relative alla brutalità ed alla crudeltà usata contro le vittime dei sopra citati reati sino anche a comprendere l'abuso  di potere di chi svolge un pubblico servizio, ipotesi rispettivamente previste dall'articolo 61, comma 1, numero 4 e 9 del codice penale. »

120.  Nella relazione del CPT al governo italiano in occasione della visita in Italia dal 13al 25 Maggio 2012 ( CPT / Inf 9 novembre 2013 ) si legge in particolare che:

" Prima di presentare le osservazioni della delegazione, il CPT nota con preoccupazione che, dopo più di venti anni di discussioni in Parlamento e l'elaborazione di nuovi progetti di legge, il codice penale italiano non prevede ancora alcuna norma che espressamente preveda e sanzioni il reato di tortura.

Il Comitato invita le autorità italiane ad implementare gli sforzi per introdurre al più presto il reato di tortura nel codice penale nel rispetto degli ormai risalenti obblighi internazionali. Inoltre, al fine di reprimere tali condotte delittuose, il Comitato esorta l'Italia ad adottare tutte le misure necessarie per garantire che il reato di tortura venga effettivamente punito. »

121. La risposta del governo italiano ( CPT / Infdel 19 novembre 2013)  alla richiesta del CPT, recita:

"5. Per quanto riguarda il reato di tortura, nel rammentare quanto già precedentemente espresso, si ribadisce quanto segue: l'articolo 606 ed altri del codice penale, tutelano la persona contro l'arresto illegale, inteso come indebita limitazione della libertà personale, dall'abuso d'ufficio contro i detenuti, da ispezioni e perquisizioni personali illegali. Queste garanzie sono integrate dalle disposizioni di cui all'articolo 581 (Percosse), all'articolo 582 (lesioni personali), all'articolo 610 (violenza privata), e all'articolo 612 (minaccia) del codice penale. Vi sono inoltre le disposizioni ai sensi dell'articolo 575 (omicidio), e dell'articolo 605 (sequestro di persona), per le quali sono anche previste le circostanze aggravanti quali la brutalità e la crudeltà della condotta nonché quelle dell'aver commesso il reato tesi con abuso del potere  di un pubblico ufficio o servizio, rispettivamente previsto all'articolo 61, comma 1, numero 4 e 9 del codice penale).

Il codice di procedura penale contiene inoltre principi che mirano a salvaguardare la libertà morale delle persone: l'articolo 64, paragrafo 2, e l'articolo 188 prevede che "non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti "

(...)

13. Come detto, molte sono state le proposte di legge formulate in proposito all'introduzione del reato di tortura, tuttavia non è stato ancora approvato alcunché dal Parlamento.  Secondo alcune di queste proposte, tale tipo di reato si configurerebbe ogni qual volta si realizzi una continuità temporale della stessa condotta penale (vedasi sentenza n. 30780 del 27 luglio 2012, in cui Corte di Cassazione ha fornito un'ampia interpretazione del reato di maltrattamento di cui all'art. 572 del codice penale). »

 

IN DIRITTO

 

1. OSSERVAZIONI PRELIMINARI

 

122. Il Governo ha preliminarmente eccepito la tardività degli interventi del Partito Radicale Transnazionale e Transpartito, dell'associazione " Non c’è pace senza giustizia" e dei Radicali Italiani  (precedentemente "Partito Radicale Italiano"),  sostenendo che la proposizione degli stessi (avvenuta il 21 giugno 2013) fosse avvenuta oltre il termine di dodici settimane dalla data in cui era stato notificato il ricorso, il 21 dicembre 2012, (punti 4 e 5). Ha tal proposito il Governo ha richiamato l'articolo 44 § 3, in base al quale le domande di intervento nel giudizio da parte di terzi interessati  "dovrebbero essere (...) presentate per iscritto in una delle lingue ufficiali (...) entro e non oltre dodici settimane dalla data in cui il ricorso è stato portato all'attenzione della Parte resistente."

123. Il Governo ha eccepito inoltre che i terzi intervenienti, ed in particolare i partiti politici, devono eventualmente partecipare al giudizio solo allo scopo di dare un contributo meramente informativo per  le riforme legislative all'autorità deputata a decidere la questione. Tuttavia, in questo caso, secondo il Governo italiano, i terzi intervenuti non avrebbero avuto l'intenzione di offrire un contributo di questo tipo, quanto piuttosto, l'obiettivo di stigmatizzare  il vuoto normativo nazionale in tema di tortura e con ciò, sempre secondo il Governo, il ruolo di tali soggetti non sarebbe stato di aiuto alla Corte.

124.  Per queste ragioni, il Governo ha sostenuto che le osservazioni di tali soggetti non avrebbero dovuto essere prese in considerazione e avrebbero dovuto, in ogni caso, essere ignorate dalla Corte.

Il Governo ha aggiunto che, in ogni caso, si tratta di osservazioni infondate atteso che  l'assenza nell'ordinamento italiano del reato di tortura non  ha di fatto impedito l'individuazione e la punizione degli agenti di polizia coinvolti nel

eventi della scuola Diaz-Pertini.

125. Il ricorrente non ha replicato sul punto.

126. Per quanto riguarda la prima parte delle osservazioni preliminari sollevate dal Governo, la Corte ha semplicemente osservato che, ai sensi dell'articolo 44 § 3, "[l] la Corte può, eccezionalmente, fissare un termine superiore alle  "dodici settimane" indicate nella prima parte dello stesso articolo.

127. Per il resto, la Corte afferma che in ordine alle osservazioni dei terzi partecipanti al giudizio, essere saranno tenute  in considerazione solo se effettivamente rilevanti per la trattazione del caso di specie.

 

II. SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE

 

128. Il ricorrente ha sostenuto che durante l'irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini, è stato vittima di atti di violenza e di abusi che egli stesso definisce quale vera e propria tortura.

Egli sostiene inoltre che la punizione dei responsabili di tali atti sia stata inadeguata ed insufficiente ed, in particolare , a causa della avvenuta prescrizione, la maggior parte dei responsabili si è vista estinguere il reato. Inoltre, molti dei condannati, hanno goduto di forti riduzioni di pena nonché del beneficio dell'indulto.

Il ricorrente ha sostenuto, in particolare, che, non essendo previsto dall'ordinamento italiano lo specifico reato di "tortura", tali condanne non trovano di conseguenza una adeguata punizione.  Lo Stato italiano non avrebbe pertanto adottato le misure necessarie per prevenire  e punire tali violenze.

Il ricorrente invoca pertanto la violazione dell'articolo 3 della Convenzione, che recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti.»

129.  Il ricorrente deduce inoltre la violazione dell'articolo 6 § 1 (ragionevole durata del processo) e 13 della Convenzione disgiuntamente ed in combinazione con l'articolo 3.

Tenuto conto della formulazione delle censure del ricorrente, la Corte ritiene di dover esaminare la questione relativamente alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione.

130. Il Governo italiano si oppone a quanto richiesto dal ricorrente.

 

A. SULLA RICEVIBILITA'

 

1. L'obiezione del Governo secondo la quale al ricorrente non può attribuirsi lo status di vittima

 

a) Argomenti delle parti

 

i. Il Governo

 

131. Il Governo ha ritenuto che, alla luce della giurisprudenza della Corte, il ricorso andrebbe respinto perché il ricorrente non può essere considerato vittima.

Secondo il Governo, infatti, il processo penale interno avrebbe già accertato le responsabilità  degli autori.

A seguito di tale processo, il ricorrente, che si era costituito parte civile, avrebbe già ottenuto il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno,  di fatto pagato nel 2009, all'esito dei tre gradi di giudizio per l'ammontare di 35 000 (si veda il punto 49).

Pertanto, secondo il Governo, l'autorità giudiziaria nazionale ha già pienamente riconosciuto le violazioni denunciate dal ricorrente e ha già provveduto a riconoscergli il giusto risarcimento

132. Inoltre, la prescrizione di alcuni reati nell'ambito del procedimento penale in questione, non avrebbe privato il ricorrente della possibilità di avviare un successivo procedimento civile per ottenere la liquidazione completa e definitiva dei danni patiti.

133. A sostegno di tali argomentazioni, il Governo fa riferimento anche al caso Palazzolo v. Italia (n.32328/09, §§ 86, 103-104, 24 settembre 2014), per sottolineare che la Corte non può accogliere rimostranze che non siano state sollevate a livello nazionale e pertanto non può assumersi il compito di sostituirsi ai giudici nazionali alla stregua di una sorta  quarto grado di giudizio.

 

ii. Il ricorrente

 

134. Sulla scia dei casi Gäfgen Darraj c. Francia e Dembele, il ricorrente osserva che, in caso di violazione dell'articolo 3 della Convenzione, è fondamentale, al fine di garantire un adeguato risarcimento a livello nazionale,  punire i responsabili con sanzioni commisurate alla gravità della condotta.

135. Egli sostiene che nel caso di specie le autorità nazionali hanno riconosciuto la violazione dell'articolo 3, ma che non abbiano adeguatamente punito i responsabili ed in particolare a causa della intervenuta prescrizione dei reati nonché della mancata adozione di adeguate misure disciplinari.

Egli ritiene che, in tali circostanze, ha si ottenuto un risarcimento come parte civile nel procedimento penale ma tale risarcimento non è ritenuto sufficiente per riparare adeguatamente il danno subito. Pertanto, nel contestare le argomentazioni addotte dal Governo, lo accusa di contro di non aver avviato un successivo procedimento civile per la liquidazione completa e definitiva del risarcimento del danno subito.

 

b) Le valutazioni della Corte

 

136. La Corte osserva che la questione centrale relativa alla perdita dello status  di vittima del ricorrente è strettamente correlata in sostanza all'aspetto procedurale della denuncia ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione. Conseguentemente, la Corte accoglie l'obiezione.

137. Per quanto riguarda il fatto, rilevato dal Governo, che il richiedente non ha avviato un successivo procedimento civile, la Corte ritiene che tale circostanza si presta ad essere esaminata sulla base del non - esaurimento delle vie di ricorso interne ( paragrafi 149 e seguenti).

 

2. L'obiezione del Governo basata sul non esaurimento dei rimedi processuali nazionali-

 

a) Argomentazioni delle parti

 

i. Il Governo

 

138.  Il Governo ha osservato, in primo luogo, che il ricorso è stato presentato nel Gennaio 2011, ovvero prima che il procedimento penale relativo agli eventi della scuola Diaz - Pertini fosse terminato. Il Governo afferma a questo proposito che il ricorrente abbia adito la Corte dopo la sentenza di appello del 18 maggio 2010, depositata il 31 luhlio 2010 (vedi sopra, punto 59), ma prima della sentenza della Corte di Cassazione del 5 luglio 2012, depositata in data 2 Ottobre 2012 (paragrafo 76 sopra).

139. In secondo luogo, il Governo ribadisce che, avendo ottenuto una sentenza per risarcimento danni nel 2009, nell'ambito di un procedimento penale (vedi punto 49), il ricorrente non ha avviato successivamente un procedimento civile per la determinazione di un risarcimento definitivo per i danni patiti.

140. In sintesi, quando ha adito la Corte, il ricorrente non aveva ancora esaurito i rimedi penali e civili previsto dall'ordinamento nazionale, per cui, secondo il Governo, si configurerebbe violazione dell'articolo 35§1 della Convenzione.

 

ii. Il ricorrente

 

141. Per il ricorrente, l'obbligo di esaurire le vie di ricorso interno ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione si applica solo nella misura in cui esista, a livello nazionale, una procedura atta a garantire un adeguato risarcimento della vittima.

142. Nel caso di specie, si sostiene che le violenze e gli abusi  perpetrati dalla polizia e di cui il ricorrente è stato vittima, non sono mai stati veramente puniti nel processo penale. Egli ritiene che il processo sia stato un fallimento dell'intero sistema giudiziario italiano.

143. Alla luce di quanto sopra, il ricorrente ritiene che il successivo procedimento civile, non avrebbe potuto essere considerato come un rimedio efficace in grado di correggere le violazioni all'articolo 3 della Convenzione.

144. Per quanto riguarda la presunta prematurità della richiesta, perché introdotta prima della sentenza della Corte di Cassazione, il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata (supra, punto 61) aveva già dichiarato la prescrizione della maggior parte dei crimini e che la legge n. 241 del 2006 aveva fatto godere degli effetti dell'indulto buona parte di coloro che erano stati già condannati.

Pertanto, il ricorrente ha ritenuto di non dover attendere la sentenza della Corte di Cassazione.

 

b) Il giudizio della Corte.

 

145. Per quanto riguarda la prima parte della eccezione del Governo, la Corte ha dichiarato che già in occasione di altri casi aventi ad oggetto la violazione dell’articolo 3 è stata sollevata tale eccezione e che la stessa è stata ritenuta sempre infondata.

146. Inoltre, se è vero che in linea di principio, il ricorrente è tenuto ad esperire prima i vari strumenti processuali nazionali  e ciò come requisito preliminare per adire successivamente la Corte, è altrettanto vero che la stessa Corte tollera i casi in cui il ricorso all’ultimo strumento processuale nazionale venga utilizzato poco dopo aver adito anche la Corte purché questa non si pronunci prima dell’ultimo giudice nazionale.

147. Nel merito, la Corte osserva che il ricorrente ha dichiarato e sostenuto di essere stato violentemente aggredito dalla polizia quando questa ha fatto irruzione nella scuola Diaz-Pertini nel luglio 2001 (paragrafi 34-35 di cui sopra).

Osserva poi che nel procedimento penale contro la polizia in relazione agli eventi nella scuola Diaz-Pertini il ricorrente si è costituito parte civile nel luglio 2004 (vedi sopra punto 46). Nel febbraio 2009 c’è stato il deposito della sentenza di primo grado (punto 49) e nel luglio 2010, il deposito della sentenza di appello (vedi sopra punto 59).

148. In forza di quanto sopra, la Corte non può biasimare il ricorrente per aver avanzato ricorso lamentando la violazione dell'articolo 3 della Convenzione nel gennaio 2011, quasi dieci anni dopo gli eventi nella scuola Diaz-Pertini, senza attendere la sentenza della Corte di Cassazione successivamente depositata in cancelleria il 2 ottobre 2012 (sopra, punto 76). Di conseguenza, l'eccezione del Governo nella parte relativa al mancato esaurimento dei procedimenti interni non può essere accolta.

149. Per quanto riguarda la seconda parte della censura del Governo, ove si sotiene che il ricorrente non ha avviato un successivo procedimento civile per risarcimento danni, la Corte rinvia ai principi generali che regolano l'esaurimento dei ricorsi interni così come già  intesi recenentemente nel caso Vučković e altri c . Serbia del 25 marzo 2014.

150. Sul punto rileva in particolare l'articolo 35 § 1 della Convenzione. Un strumento giudiziale è efficace quando tale efficacia è sia teorica che pratica, in altre parole, quando tale strumento riesce a permettere con successo la composizione delle controversie.

151. La Corte rileva inoltre che l’applicazione della regola dell'esaurimento dei ricorsi interni, deve necessariamente tener conto anche del contesto: vale a dire la prioritaria tutela dei diritti umani, che le parti contraenti hanno deciso di tutelare. La Corte precisa che l'articolo 35 § 1 deve essere applicato con flessibilità e senza eccessivi formalismi. Precisa inoltre che la regola dell'esaurimento dei ricorsi interni non può essre applicata in modo automatico; bisogna che essa operi avendo riguardo alle circostanze del caso. Ciò significa che la Corte deve prendere in considerazione in maniera realistica il contesto giuridico e politico in cui operano gli strumenti giudiziari nazionali nonché la situazione personale dei ricorrenti.

152. Nel valutare l’efficacia dei rimedi indicato dal governo convenuto, la Corte deve quindi tener conto della natura del reclamo e delle circostanze del caso per determinare se questi rimedi hanno fornito al ricorrente un adeguato ristoro  della violazione patita (Reshetnyak v. Russia § 71, per quanto riguarda l'inadeguatezza di un risarcimento nel caso specifico della violazione continuata dell'articolo 3, a causa delle condizioni di detenzione e, in particolare, a un peggioramento dello stato di salute del detenuto).

153. La Corte rileva poi, che nell’ambito dell’eccezione relativa alla perdita dello status di vittima, tale eccezione debba essere respinta atteso che è insitamente collegata alla violazione dell’art. 3 della Convenzione,

 

3. Altri motivi di inammissibilità.

 

154. Ritenuto che il presente ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione e che non vi è nessun altro motivo di irricevibilità, la Corte lo dichiara ricevibile.

 

B. NEL MERITO

 

1. l'aspetto sostanziale dell'articolo 3 della Convenzione.

 

a) Argomenti delle parti

 

i. Il ricorrente

 

155. Il ricorrente ha sostenuto che durante l’irruzione della polizia nella scuola Diaz - Pertini, è stato insultato e picchiato con calci e manganelli soprattutto sulla testa, sulle braccia e sulle gambe, a tal punto da causargli lesioni che hanno richiesto il ricovero per quattro giorni presso l’ospedale di Genova ed in particolare un'operazione all’ulna destra.

Veniva dimesso dall’ospedale con quaranta giorni di convalescenza.

Ha poi sostenuto di soffrire di invalidità permanente al braccio destro e alla gamba destra. Ha documentato poi che nel 2003 ha dovuto sottoporsi ad un nuovo intervento chirurgico all’ulna destra e che, nel 2010, gli veniva addirittura  raccomandata una nuova operazione.

156. Il ricorrente aggiunge che, quando la polizia ha fatto irruzione, egli, come molti altri occupanti, alzò le mani in segno di sottomissione e che questo non aveva impedito alla polizia, armata di manganelli, di colpire tutti i presenti.

Egli rimase sorpreso e spaventato perché non aveva mai vissuto una simile situazione ed anche, perché, come cittadino senza precedenti penali, aveva sempre pensato che la polizia avrebbero dovuto proteggere i cittadini dalla violenza e non infliggerla a persone innocue.

157. Basandosi sulla ricostruzione dei fatti contenuti nelle sentenze di primo e secondo grado, il ricorrente sostiene che, più in generale, l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini è stata caratterizzata fin dall'inizio da una violenza estrema e ingiustificata. Secondo il ricorrente, la polizia ha attaccato prima le persone che pacificamente si trovavano all'esterno della scuola e in seguito tutti gli altri che si trovavano all’interno. Inoltre, al posto di manganelli ordinari, gli agenti hanno utilizzato un tipo di manganello fuori ordinanza modello “tonfa” i cui colpi possono facilmente provocare fratture o addirittura la morte. Inoltre, dopo la violenta irruzione, il ricorrente e gli altri occupanti venivano arrestati illegittimamente  e gli autori delle violenze attribuirono agli occupanti la responsabilità di falsi reati mai effettivamente commessi.

158. Inoltre, il ricorrente sostiene di essere stato costretto a rimanere in posizioni umilianti. Egli ha anche lamentato di non essere stato messo in condizione di contattare un avvocato o una persona di fiducia. Infine, ha denunciato la mancanza di qualunque soccorso o cura tempestiva, affermando che solo successivamente veniva sottoposto ad una visita medica e che comunque essa era avvenuta alla presenza degli agenti di polizia.

159. In considerazione di quanto sopra, il ricorrente sostiene di essere stato vittima di tortura, ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione.

 

ii. Il Governo

 

160. Il Governo assicura che non vuole "minimizzare o sottovalutare la gravità degli episodi" che si sono verificati nella scuola Diaz-Pertini la notte del 21-22 luglio 2001. Esso riconosce che la condotta " degli agenti di polizia è stata molto grave e deprecabile, ma che i giudici italiani hanno risposto rapidamente per ristabilire lo Stato di diritto".

161. Il Governo ribadisce che i Tribunali nazionali hanno duramente stigmatizzato il comportamento degli agenti di polizia durante l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini.

162. Ritiene tuttavia che gli eventi in questione, tra cui i maltrattamenti nei confronti del ricorrente non siano assolutamente una pratica comune della polizia italiana. Secondo il Governo, essi costituiscono solo uno sfortunato episodio, isolato ed eccezionale che va letto nel contesto delle tensioni del G8 di Genova generate dalla necessità di dover assicurare l’ordine pubblico difronte  e a seguito dei numerosi incidenti e scontri verificatisi durante le proteste.

Il Governo ha concluso aggiungendo che la formazione delle forze dell'ordine italiane è da tempo incentrata sul rispetto dei diritti umani e che in tal senso gli agenti vengono formati ed educati anche mediante la diffusione di testi e linee guida internazionali in materia.

 

iii . I terzi intervenuti

 

163. I terzi intervenuti ricordano la sentenza del giudizio di appello (punti 64 e 68) secondo la quale l’irruzione nella scuola Diaz - Pertini non sarebbe stata organizzata al fine di reperire le prove e individuare gli autori delle devastazioni del 21 luglio 2001 bensì per effettuare arresti indiscriminati. A sostegno vi sono le affermazioni della Corte di Cassazione, secondo la quale la violenza usata dalla polizia nella scuola sarebbe stata una di una gravità assoluta e perpetrata in tutti i locali della scuola e contro persone disarmate, addormentate o sedute con le braccia alzate (punti 77 e 79 di cui sopra).

 

 

b) La valutazione della Corte

 

i. La prova del presunto abuso

 

164. La Corte ricorda che, come sostenuto dalla sua consolidata giurisprudenza, in caso di presunta violazione dell'articolo 3 della Convenzione, è necessario valutare le prove mediante un esame particolarmente accurato. Ove siano state effettuate le procedure interne, la procedura innanzi alla Corte non deve sostituirsi ad esse né sostituire sulle osservazioni e decisioni dei giudici nazionali se non quando si ravvisino nuovi elementi di prova che non siano stati portati a conoscenza dei giudici nazionali.

Infatti, in questi casi, se da un lato la Corte può certamente esaminare in modo più accurato la vicenda, è tuttavia opportuno e necessario poter disporre di pove certe prima di sindacare il giudizio del giudice nazionale.

165. Nel caso di specie, la Corte rileva che la sentenza di primo grado e quella d’appello (punti 33 e 73), cui si riferisce la sentenza della Corte di Cassazione (vedi punto 77 ) affermano che, una volta entrati nella scuola Diaz-Pertini, gli agenti di polizia hanno colpito quasi tutti gli occupanti, anche quelli che erano seduti o sdraiati per terra, con pugni, calci e manganelli, gridando e minacciandoli.

La sentenza di primo grado afferma che all'arrivo della Polizia il ricorrente era seduto di schiena contro il muro, accanto a un gruppo di occupanti, e aveva le braccia in aria; è stato percosso soprattutto sulla testa, sulle braccia e sulle gambe, a tal punto da causargli fratture multiple all’ulna, al perone destro e a diverse costole; tali lesioni hanno determinato il ricovero per quattro giorni, una convalescenza superiore a 40 giorni e l’invalidità permanente del braccio destro e della gamba destra (paragrafi 34-35 sopra).

166. Le lesioni riportate dal ricorrente sono state confermate dalle sentenze dei vari gradi di giudizio.

167. Inoltre, il Governo ha espressamente condiviso "il giudizio dei tribunali nazionali, che hanno duramente condannato il comportamento degli agenti di polizia".

168. Pertanto, la Corte ha confermato che l’aggressione fisica e verbale lamentata del ricorrente è realmente avvenuta così come anche le conseguenze di tale aggressione.

169. In tali circostanze, la Corte ritiene che la violazione dell'articolo 3 è sufficientemente provata e non vi è alcuna necessità di provarla ulteriormente (posizioni umilianti, incapacità di contattare un avvocato e / o una persona di fiducia, mancanza di cure immediate, la presenza di agenti delle forze dell’ordine durante la visita medica).

 

ii . In ordine alla qualificazione giuridica dei trattamenti subiti.

 

170. Coerentemente alla sua consolidata, la Corte ritiene che non vi sia dubbio che gli abusi in questione rientrino nell’ambito dell'articolo 3 della Convenzione. Il Governo, del resto, non contesta. La questione è se tali abusi debbano o meno essere qualificati come tortura, così come sostenuto dal ricorrente.

 

α) Quadro giurisprudenziale sulla "tortura"

 

171. In linea di principio, per determinare se una particolare forma di maltrattamento possa essere qualificato come tortura, la Corte deve prendere in considerazione la distinzione che l'articolo 3 opera tra questa nozione e quella di trattamenti inumani o degradanti. Come la Corte ha già rilevato, questa distinzione sembra essere stata sancita dalla Convenzione al fine di individuare in maniera più specifica quei trattamenti che si caratterizzano per  l’inumanità  e la capacità di arrecare sofferenze molto gravi e crudeli. Tale specificità dipende da una serie di elementi, come la durata del trattamento e dei suoi effetti fisici o mentali e, a volte, il sesso, l'età, lo stato di salute della vittima, etc.

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, già nel 1986 aveva definito la "tortura", come qualsiasi atto mediante il quale viene inflitto intenzionalmente dolore ad una persona fine di ottenere da essa informazioni oppure per punirla o intimidirla.

172. Il concetto di “tortura” è stato quindi implementato e meglio definito ricorrendo quindi a due particolari aspetti, ossia la gravità della sofferenza e l’intenzionalità di procurarla, percui significative sono le pronunce della Corte a casi aventi ad oggetto condotte caratterizzate da questi due aspetti (vedi, per esempio, Aksoy v Turkey, 18 dicembre 1996 §§ 63-64, Raccolta 1996-VI: il ricorrente era stato sottoposto alla c.d. "impiccagione palestinese" - alla persona vengono legati i polsi dietro la schiena e viene appesa per i polsi -; Batı e altri, §§ 110, 122-124: i ricorrenti erano stati privati del sonno e sottoposti a "impiccagione palestinese", getti d'acqua, a percosse ripetute e alla c.d. tortura di “falaka” affinché confessassero la loro appartenenza a un partito politico; Abdülsamet Yaman v Turchia, no 32446/96, §§ 19-20, 2 novembre 2004. Il ricorrente era stato sottoposto a "impiccagione palestinese" e a getti di acqua e scosse elettriche per diversi giorni; Polonskiy c. Russia, no 30033/05, § 124, il 19 marzo 2009: il ricorrente era stato colpito più volte e in varie parti del corpo nonché sottoposto a scosse elettriche per costringerlo a confessare un crimine - si deve rilevare che la Corte ha dichiarato che la "tortura" può realizzarsi anche in assenza di effetti fisici di lunga durata; Kopylov, , §§ 125-126: il ricorrente era stato appeso ad una corda con le mani legate dietro la schiena, bastonato, picchiato e sottoposto per quattro mesi a diversi forme di abusi, che gli provocarono conseguenze gravi e irreversibili; El-Masri, §§ 205-211: il ricorrente era stato picchiato, spogliato nudo e sottoposto all’introduzione forzata di oggetti nel deretano, poi ammanettato e incappucciato prima di essere trascinato su un aereo, dove era stato legato e sedato; Secondo la Corte, tutti questi trattamenti erano stati commessi al fine di ottenere informazioni dalla persona interessata, per punirla ed intimidirla).

173. In alcuni casi, la Corte, col suo ragionamento, ha ritenuto di dover considerare " tortura " quegli abusi intenzionali con i quali è stato " causato dolore e sofferenza " e caratterizzati da " particolare gravità e crudeltà ".

174. In altri casi, si è assegnato un peso particolare alla natura delle violenze commesse nei confronti del ricorrente, detenuto, per raggiungere un risultato di "tortura". Ad esempio, nel caso di Vladimir Romanov, ha osservato che il ricorrente era stato picchiato con bastoni, dopo aver rispettato l'ordine di lasciare la sua cella percui la violenza subita aveva un significato di "rappresaglia". Allo stesso modo, nel caso Dedovskiy e altri, la Corte ha ritenuto che il potenziale rischio che detenuti avrebbero potuto dare inizio ad una sommossa non avrebbe giustificato un intervento preventivo e violento da parte della polizia, nel caso specifico attraverso l’uso di manganelli di gomma. Pertanto, le azioni degli agenti (...) sono state chiaramente sproporzionate rispetto alle trasgressioni addebitabili ai ricorrenti ", che nel caso in questione si erano rifiutati di uscire dalle loro celle. La Corte ha ritenuto quindi che l'abuso avesse chiaramente il carattere di "rappresaglia" e di "punizione corporale" e che, nel contesto, l'uso della forza era immotivata.

175. La Corte ha anche affrontato la questione della violenza da parte degli agenti di polizia durante l'arresto, ovvero se in tali casi si fosse configurato il reato di" tortura " ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione . Tuttavia, nei casi dibattuti è emerso che l'obiettivo della polizia non era quello di estrarre confessioni ai ricorrenti e, considerata inoltre la breve durata della violenza commessa in un contesto particolarmente teso unitamente al fatto che non era stato sufficientemente provata la sofferenza arrecata, la Corte ha deciso che non vi fosse motivo di ritenere realizzata la “tortura”.

176. Infine, nel già citato caso Gäfgen, la Corte ha considerato: a) la durata del maltrattamento della vittima, vale a dire una decina di minuti; b) le conseguenze fisiche e mentali che questo trattamento ha causato al ricorrente; la Corte ha dichiarato che gli abusi avevano causato in lui paura, ansia e notevole sofferenza mentale, ma senza conseguenze a lungo termine; c) l’intenzionalità della condotta; la Corte ha dichiarato che la condotta non era stata un atto spontaneo, ma era stata premeditata intenzionalmente; d) la continuità della condotta ed il contesto in cui si è svolta; la Corte ha sottolineato che la polizia aveva abusato del ricorrente al fine di estorcergli informazioni in merito alla sorte di un bambino rapito che si pensava fosse ancora in vita ma in grave pericolo. Pertanto, la Corte, tenendo conto della “motivazione che ha ispirato il comportamento della polizia e l'idea che la stessa avesse agito nel tentativo di salvare la vita di un bambino",  ha ritenuto che i metodi utilizzati durante l’interrogatorio erano certamente contrari all'articolo 3, ma  che non avevano comunque raggiunto quel  livello di crudeltà necessario per definirli  atutti gli effetti tortura.

 

 

ß ) Nel caso di specie.

 

177. Nel caso di specie, la Corte non può ignorare che, secondo la Corte di Cassazione, le violenze pepetrate nella scuola Diaz - Pertini, di cui il ricorrente fu vittima, abbiano avuto " uno scopo punitivo, uno scopo di rappresaglia, per provocare l'umiliazione, il dolore e la sofferenza delle vittime ", che dovrebbero essere considerate vera e propria " tortura "ai sensi dell'articolo 1 della Convenzione contro la tortura e gli altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti (punto 77).

178. E’ dimostrato che il ricorrente è stato aggredito dagli agenti di polizia a colpi di calci e con manganelli del tipo “tonfa”, considerati potenzialmente letali (v 68), e che è stato colpito più volte in diversi punti del corpo.

É dimostrato che i colpi gli causarono fratture multiple, una degenza di quattro giorni, invalidità temporanea di 40 giorni, due interventi chirurgici a distanza di pochi anni; il ricorrente ha riportato così un’invalidità permanente al braccio destro ed alla gamba destra (paragrafi 34-35 sopra). I danni fisici subiti dal ricorrente sono importanti. Dal punto di vista psicologico il ricorrente soffre ancora oggi di gravi stati di ansia e paura.

Allo stesso tempo la Corte osserva che anche il Governo ha condiviso l’opinione che la condotta della Polizia ha costituito una chiara violazione sia della legge sia  "della dignità e del rispetto dell'individuo "; secondo i giudici italiani gli occupanti sono stati trattati in modo crudele e sadico, alla stregua di  "teppisti violenti" (paragrafi 67 e 73); la Corte di Cassazione l’ha definita come una violenza " insolitamente grave " e " assoluta" ( paragrafo 77 ) .

Nelle osservazioni presentate alla Corte, il Governo ha definito la condotta degli agenti di Polizia "molto grave e deplorevole."

179. In sintesi, è innegabile che quanto accaduto al ricorrente sia stato caratterizzato da "particolare gravità e crudeltà”.

180. La Corte ha inoltre rilevato l'assenza di un nesso di causalità tra il comportamento del ricorrente e l'uso della forza da parte degli agenti di polizia.

Infatti, la sentenza di primo grado, pur ammettendo che alcuni atti isolati di resistenza sono stati probabilmente commessi dagli occupanti della scuola Diaz-Pertini osserva che il ricorrente - che aveva già una certa età nel luglio 2001 - non aveva opposto alcuna resistenza (vedi punto 51). Inoltre, come risulta dalla stessa sentenza, la postura del richiedente, seduto schiena contro il muro, le braccia alzate (vedi sopra, punto 34), conferma quanto sopra.

Vieppiù che non è stata fornita neppure alcuna prova sulle resistenze opposte dagli occupanti (vedi paragrafo 71). Inoltre, secondo la sentenza, la polizia è rimasta indifferente a qualsiasi condizione fisica di vulnerabilità legate al genere ed e all’età, ed a qualsiasi segno di resa (punto 67 e 73).

La sentenza della Corte di Cassazione ha confermato l'assenza di qualsiasi resistenza opposta dagli occupanti (vedi punto 80).

181. Di conseguenza, questo caso si distingue dai casi in cui l' uso (sproporzionato) della forza degli agenti di polizia era comunque da considerare in relazione agli atti di resistenza fisica opposta.

182. La violenza inflitta al ricorrente è stata in questo caso completamente gratuita.  Si ricorda ancora che l’intervento della Polizia avrebbe dovuto mirare solo ed esclusivamente ad individuare gli appartenenti ai Black Blocks artefici dei saccheggi in città ed eventualmente al loro arresto (vedi punto 29).

Tuttavia, contrariamente a ciò, la Polizia ha proceduto picchiando quasi tutti gli occupanti senza nemmeno cercare di identificarli. Queste circostanze sono tra le ragioni per cui, nella sua decisione, confermata dalla Corte di Cassazione, la Corte d'Appello ha ritenuto illegale la condotta delle Forze dell’ordine (paragrafi 33-34, 38-39, 72).

183. L'operazione in questione doveva essere condotta da un reparto costituito principalmente da agenti appartenenti ad una divisione per le operazioni "anti-sommossa" (vedi punto 29). Questo reparto, secondo le dichiarazioni delle autorità doveva "mettere in sicurezza" l'edificio. Tuttavia, agli agenti sono stati impartiti degli ordini non rientranti nelle linee guida per l'uso della forza (punti 65, 68 e 79 di cui sopra). La polizia ha attaccato immediatamente già coloro che si trovavano fuori dalla scuola (punti 31 e 66 di cui sopra). Non ha mai tentato di negoziare con le persone che, si ricorda, erano state  autorizzate ad occupare l’edificio. Infine, ha picchiato tutti gli occupanti (punti 33 e 67 di cui sopra).

Pertanto, si è trattato di un abuso intenzionale e premeditato di cui il ricorrente, in particolare, è stato vittima.

184. Per comprendere il contesto in cui si è avvenuta l'aggressione del ricorrente e, in particolare, l’intenzionalità della condotta, la Corte non può trascurare i tentativi della polizia di occultare questi eventi o di giustificarli sulla base di circostanze del tutto mendaci.

In primo luogo, come ha sottolineato la Corte d'Appello e la Corte di Cassazione, con l’irruzione nella scuola Pascoli, la polizia ha tentato di cancellare tutte le prove video dell'irruzione che ha avuto luogo nella scuola Diaz Pertini (punti 83-84). Inoltre, è opportuno ricordare le dichiarazioni dell’addetto stampa della polizia la notte tra il 21 e il 22 luglio, in base alle quali molte tracce di sangue sul pavimento, sulle pareti e sui termosifoni, erano stati giustificati come frutto delle  lesioni che la maggior parte degli occupanti avrebbe riportato durante gli scontri del giorno prima (punto 41, punto 67) .

Parimenti, la resistenza degli occupanti, l’accoltellamento del poliziotto e la scoperta nella scuola Diaz-Pertini di due molotov erano tutte menzogne che avrebbero dovuto avere lo scopo di giustificare a posteriori l'irruzione e la violenza (paragrafi 70-73). Secondo la Corte di Cassazione si è trattato di una vera e propria "vigliacca mistificazione" (punto 80).

185. Alla stregua di ciò, la Corte non può accettare la tesi implicitamente avanzata dal Governo secondo la quale la gravità degli abusi siano da valutare in relazione al contesto, ed in particolare, delle tante schermaglie che si erano verificate  durante i giorni delle manifestazioni.

186. Certamente la Corte comprende la situazione di tensione e la forte tensione emotiva.

187. In questo caso, se i giudici di primo grado avevano riconosciuto che gli agenti avevano agito "in una condizione di stress e di stanchezza" nell’atto dell’irruzione nella scuola Diaz-Pertini (vedi supra, punto 50), la Corte di Cassazione non ha adottato questa circostanza attenuante (v 73).

188. Spetta alla Corte pronunciarsi non sulla responsabilità penale o civile, ma sulle responsabilità degli Stati contraenti in relazione al rispetto della Convenzione. Per quanto riguarda, in particolare, l'articolo 3 della Convenzione, la Corte ha dichiarato più volte che questa disposizione sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. L'articolo 3 non prevede eccezioni, né alcuna deroga, anche in situazioni di emergenza pubblica che metta a repentaglio la sicurezza della Nazione. La Corte ha confermato che, anche nelle circostanze più difficili, quali la lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata, la Convenzione proibisce in termini assoluti la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, a prescindere dal comportamento della vittima.

189. Di conseguenza, e senza voler sottovalutare la difficoltà del compito della polizia nelle società contemporanee e l'imprevedibilità del comportamento umano, si rammenta che in questo caso:

- La polizia ha fatto irruzione nella scuola Diaz-Pertini nella notte tra il 21 e il 22 luglio, cioè quando gli scontri e i saccheggi che si erano verificati durante il G8 erano ormai terminati e niente di simile stava accadendo all’interno della scuola o nell’area circostante;

- Anche ammettendo che gli autori dei saccheggi e delle devastazioni si fossero rifugiati nella scuola, all’arrivo della polizia, tali eventuali soggetti non avrebbero comunque opposto alcuna resistenza, ragion per cui il comportamento della polizia rimane comunque ingiustificabile (punti 71 e 80 di cui sopra);

- le indagini hanno dimostrato che le autorità avrebbero avuto il tempo sufficiente per organizzare correttamente l'operazione di "perquisizione" (paragrafi 27-30 sopra);

- un’altra operazione di perquisizione presso un'altra scuola e l'arresto di una ventina di occupanti, anche se poi rivelatasi di nessuna utilità per gli inquirenti, aveva avuto luogo nel pomeriggio del 21 luglio e in quel caso non si verificò alcuna violenza da parte della polizia (vedi punto 22).

Ciò premesso, le tensioni che secondo il Governo avrebbero governato la polizia durante l’irruzione nella scuola Diaz – Pertini non possono essere spiegate dal fatto che si doveva procedere a degli arresti.

 

190. In conclusione, date tutte le circostanze di cui sopra, la Corte ritiene che l'abuso subito dal ricorrente a seguito dell’irruzione della polizia nella scuola Diaz - Pertini costituisce a tutti gli effetti una vera e propria " tortura "ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione.

 

Sul aspetto procedurale dell'articolo 3 della Convenzione

 

a) Argomenti delle parti

 

i. Il ricorrente

 

191. Il ricorrente sostiene che al termine di un lungo processo penale i Giudici italiani hanno riconosciuto la gravità degli abusi perpetrati dalle forze dell'ordine ma non hanno inflitto ai responsabili punizioni adeguate. Ed infatti, nonostante siano state appurate le responsabilità di diversi reati tra cui, falso intellettuale, calunnia, abuso d’ufficio e lesioni personali (semplici ed aggravate), a tali reati non sono seguite le pene adeguate.

192. Egli aggiunge in particolare che, in soccorso dei responsabili è intervenuta la prescrizione e la concessione dell'indulto in base alla legge n 241 del 29 luglio 2006.

193. Aggiunge inoltre che i responsabili di quanto accaduto alla Diaz-Pertini, non solo non sono stati oggetto di provvedimenti disciplinari ma che hanno ottenuto addirittura delle promozioni di carriera.

194. Pertanto, basandosi in particolare sui casi Tzekov, Samoylov e Polonskiy, il ricorrente sostiene che lo Stato ha violato l'art. 3 della Convenzione, vale a dire, l'obbligo di prevenire, accertare e punire adeguatamente i responsabili del reato di tortura.

195. Il ricorrente afferma che le gli Stati membri sono tenuti a creare a un quadro giuridico interno coerente con la tutela dei diritti riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi protocolli, e rimprovera a questo proposito lo Stato italiano di non aver previsto nel impianto legislativo lo specifico reato di tortura, il che contraddice l'impegno assunto dallo Stato nel 1989 al momento della ratifica della Convenzione contro la Tortura e gli altri trattamenti crudeli, inumani o e degradanti (punto 109). Quindi, il ricorrente sostiene che lo Stato, contrariamente agli impegni assunti, non ha adottato le misure necessarie per prevenire e punire gli atti di tortura.

Infine, secondo il ricorrente, tale mancanza è stata confermata la scorsa primavera dal CPT nella sua relazione al Governo italiano a seguito della visita dal 13-25 Maggio 2012 (vedi sopra, punto 120).

 

ii. Il Governo

 

196. Il Governo ritiene che lo Stato ha invece ottemperato agli obblighi derivanti dall'art 3 della Convenzione – ed in particolare in riferimento alla conduzione di una indagine indipendente, imparziale e approfondita.

Esso sostiene che le autorità giudiziarie nazionali hanno adottato tutte le misure necessarie per l'identificazione e la punizione adeguata dei responsabili nonché per il giusto risarcimento alle vittime.

Il Governo ha sottolineato a questo proposito che la sentenza di primo grado ha effettivamente condannato i responsabili degli abusi e conseguentemente riconosciuto i risarcimenti agli aventi diritto, inoltre, specifica che la sentenza di appello, nonostante la prescrizione di alcuni reati, ha comunque aumento le pene nei confronti dei responsabili. Infine, ha ricordato che la Corte di Cassazione ha confermato il giudizio di appello, tra cui l'obbligo di risarcimento e il pagamento delle spese processuali. Il Governo ritiene quindi che la prescrizione di alcuni reati non ha di fatto compromesso né l'efficacia delle indagini né il diritto del ricorrente al risarcimento definitivo del definitiva del danno in relazione anche della possibile azione civile successiva.

197. Inoltre, il Governo ha eccepito che la domanda del ricorrente si basi sostanzialmente sull'assenza di una norma interna che disciplini espressamente il reato di tortura. Sul punto, il Governo ha ribadito che l'articolo 3 della Convenzione non impone espressamente agli Stati contraenti di prevedere nel loro ordinamento giuridico, un reato ad hoc e che, quindi, gli Stati membri sono certamente obbligati a perseguire il reato di tortura ma conservano piena discrezionalità nella individuazione degli strumenti normativi e giudiziari per l'adempimento di tale obbligo.

198. Nel caso di specie, il Governo ritiene che i responsabili degli abusi siano stati perseguiti ai sensi delle norme che prevedono i reati previsti dal diritto penale italiano (tra cui il reato di lesioni personali aggravate) e che tali norme  non hanno impedito ai giudici nazionali di valutare e condannare adeguatamente gli autori degli abusi in questione.

199. In ogni caso, il Governo ha informato la Corte che diversi disegni di legge finalizzati all’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano, sono ad oggi all'esame del Parlamento e che la procedura di approvazione di queste proposte è già in una fase avanzata.

 

iii. I terzi intervenuti

 

200. I terzi intervenuti espongono in primo luogo che da quasi 20 anni, la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, CAT e CPT denunciano costantemente l'assenza del reato di tortura nell'ordinamento giuridico italiano e che  pertanto chiedono l'introduzione di una disposizione penale ad hoc, con la previsione di pene certe ed appropriate.

201. Essi affermano inoltre che il Governo non è riuscito nel corso degli anni ad operare con successo in tal senso. Affermano che il Governo ricorre sostanzialmente all'applicazione di norme riferite ad altre fattispecie di reato presenti nel codice penale nazionale;

202. A questo proposito i terzi intervenuti sottolineano che le pene massime per i reati in questione sono generalmente lievi e che giudici penali generalmente applicano il minimo della pena.

I terzi intervenuti sostengono che ci sia  un'accentuata frammentazione della qualificazione giuridica della tortura e che i responsabili di tali tipologie di condotte, rispetto a quanto avviene a livello internazionale, riescano spesso a godere nell'ambito nazionale di vari benefici quali, l'amnistia, l'indulto, la rimessione delle pene, la sospensione dei processi e altre misure che indeboliscono l'efficacia della sanzione penale.

In sintesi, gli autori possono sentirsi liberi di agire con la convinzione quasi assoluta di non essere puniti.

203. Le parti intervenute concludono che, in queste condizioni, l'Italia viola gli obblighi derivanti non solo dalla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti ma anche l'articolo 3 della Convenzione. A questo proposito, attirano l'attenzione della Corte i principi dalla stessa sanciti a seguito del caso Gäfgen ed in particolare per ciò che attiene l'efficacia del procedimento con cui le autorità devono accertare e punire i responsabili dei reati di tortura.

Richiamando poi il caso Siliadin v. Francia, i terzi intervenuti rammentano alla Corte che gli Stati membri hanno il dovere di prevedere in maniera espressa il reato di tortura in ossequio all'art. 3 della Convenzione.

 

b) La valutazione della Corte

 

i. Principi generali

 

204. La Corte, nel rammentare che la Convenzione obbliga ogni Stato membro a "garantire il rispetto dei diritti e delle libertà dell'individuo a tutti coloro che si trovano entro la propria giurisdizione (...)", richiede implicitamente che ogni Stato debba identificare e punire chi si renda responsabile di tali violazioni anche se questi faccia parte delle istituzioni.

205. Al fine di garantire l'efficacia delle procedure giurisdizionali, ogni Stato deve garantire innanzitutto la tempestività delle stesse.

206. Quando l'indagine preliminare porti all'apertura di un procedimento dinanzi a giudice nazionale, egli  non deve in alcun modo mostrarsi disponibile a lasciare impunito il responsabile. Ciò è essenziale per mantenere intatta la fiducia della collettività  nello Stato di diritto e per evitare che le istituzioni appaiano tolleranti nei confronti degli atti illegali o addirittura colluse con i responsabili degli stessi.

207. Per quanto riguarda la sanzione penale, la Corte ricorda che essa non è competente in ordine alla sua determinazione ed irrogazione che sono invece di competenza esclusiva delle autorità giudiziarie nazionali.

Tuttavia, ai sensi dell'articolo 19 del Convenzione e in base al principio secondo il quale la Convenzione rappresenta una garanzia non solo teorica ma anche pratica, la Corte afferma che lo Stato deve effettivamente proteggere i diritti di coloro che si trovano all'interno della sua giurisdizione e qualora ciò non avvenga, ne risponde giudizialmente. Pertanto, la Corte "deve controllare ed intervenire allorquando si realizzi una sproporzione evidente tra la gravità dell'atto e la sanzione inflitta. Se così non fosse, il dovere di ogni Stato membro di assicurare  procedimenti giudiziari efficaci perderebbe di significato ".

208. La valutazione dell'adeguatezza della sanzione dipende infine dalle circostanze del caso di specie (İlhan, citata, § 92). La Corte ha anche dichiarato che,  nei casi di tortura operati da funzionari statali, i procedimenti penali non dovrebbero mai estinguersi per effetto della prescrizione, così come l'amnistia e indulto non dovrebbe mai essere concessi per questo tipo di reato. La stessa cosa dicasi per la sospensione dell'esecuzione della pena.

209. Affinché un processo possa essere efficace nella pratica, il presupposto necessario è che lo Stato abbia emanato disposizioni di diritto penale in ossequio a quanto previsto dall'articolo 3.

Infatti, la mancanza di un'adeguata legislazione penale finalizzata alla prevenzione e capace di punire efficacemente gli autori delle condotte contrarie all'articolo 3, che permetta di valutare la gravità delle condotte, di imporre pene adeguate e di eliminare il rischio di indebolimento del sistema dinnanzi a tali reati. Per quanto riguarda l'azione disciplinare, la Corte  ha ribadito più volte che quando a rendersi responsabili di tali reati siano dei funzionari statali, è importante che questi siano sospesi per tutto il periodo delle indagini e del processo e che vengano definitivamente rimossi in caso di condanna.

211. Inoltre, la vittima deve essere messa in grado di partecipare efficacemente al processo.

212. Infine, oltre a un'indagine approfondita ed efficace, lo Stato deve garantire alle vittime il giusto risarcimento.

 

ii . Applicazione al caso di specie

 

213. Per quanto riguarda i principi sopra riassunti e in particolare l'obbligo dello Stato di individuare e, se del caso , adeguatamente punire i colpevoli di atti contrari all'articolo 3 della Convenzione, la Corte ritiene che il caso di specie solleva essenzialmente  tre problemi.

 

α) La mancata identificazione degli autori degli abusi.

 

214. Gli agenti di polizia che hanno aggredito e materialmente torturato il ricorrente non sono mai stati identificati. Quindi non sono nemmeno stati oggetto di indagine e pertanto sono rimasti impuniti.

215. Certo, l'obbligo di indagare a norma dell'articolo 3 non garantisce poi il risultato, nel senso che l'indagine può in ipotesi anche concludersi negativamente nonostante gli  sforzi delle autorità.

216. Ciò non toglie che nel caso in questione la mancata  identificazione degli autori degli abusi sia stata anche determinata, oltre che dalle difficoltà oggettive dell'indagine,  anche dalla mancata e discutibile collaborazione della polizia durante le indagini preliminari (si veda punto 52). La Corte biasima il comportamento dei vertici della Polizia italiana.

217. Inoltre, risulta dalle sentenze che il numero esatto dei funzionari coinvolti nell'operazione sono rimasti sconosciuti e che i poliziotti, almeno quelli che con i  caschi protettivi, hanno preso d'assalto la scuola premunendosi anche di nascondersi il volto con apposite sciarpe.

Secondo la Corte, già queste due circostanze sono significative della volontà di ostacolare le indagini. Parimenti significativo è poi il fatto che gli agenti di polizia non avessero alcun segno distintivo - per esempio, un numero - che, preservando l'anonimato, potesse permette comunque la successiva identificazione dei soggetti.

 

ß) La prescrizione dei reati e la remissione parziale delle pene

 

218. Per le violenze perpetrate nella scuola Diaz-Pertini, per il tentativo di nascondere e giustificare tali condotte, dirigenti, funzionari ed un certo numero di agenti di polizia sono stati indagati e rinviati a giudizio per diversi reati.  Così anche per quanto accaduto nella scuola Diaz - Pascoli.

219. Tuttavia, alcuni reati quali quelli di calunnia, di abuso d’ufficio (in particolare per l’arresto illegale degli occupanti), di lesioni semplici, si sono prescritti prima della sentenza di appello. Il reato di lesioni aggravate, per il quale diciannove imputati sono stati condannati in primo e secondo grado (punti 49 e 60 di cui sopra), è stato dichiarato prescritto dalla Corte di Cassazione (si vedano i paragrafi 76 e 79 sopra) .

Per quanto riguarda gli eventi che hanno avuto luogo presso la scuola Pascoli, in particolare i reati di occultamento delle prove della violenza perpetrata nella scuola Diaz-Pertini, si sono anch’essi prescritti (punto 83).

220. Sono state comminate solo pene lievi quali l’interdizione temporanea per di cinque anni e condanne alla reclusione da tre anni e tre mesi a quattro anni per falso intellettuale e detenzione ed uso  illegale di armi da guerra (vedi punto 60).

221. In sintesi, al termine del processo penale, nessuno è stato condannato per maltrattamenti e violenze ma solo per  reati di lesioni semplici e aggravate. Inoltre, ai sensi della legge n 241 del 29 luglio 2006, che stabilisce le condizioni per la concessione di un condono generale (indulto) le pene sono state ridotte addirittura di tre anni percui i responsabili sono rimasti di fatto impuniti.

222. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che la risposta delle autorità italiane sia stata insufficiente in relazione alla gravità dei fatti. Pertanto l’operato delle autorità italiane risulta incompatibile con quanto previsto dall'articolo 3 della Convenzione.

223. Rispetto ad altri casi, la Corte ritiene tuttavia che quanto accaduto in Italia non sia addebitabile alla procrastinazione o alla negligenza delle autorità giudiziarie italiane.

Infatti, se da una parte il ricorrente ha attribuito la prescrizione dei reati all'eccessiva durata del processo, dall’altra parte egli non ha dato prova di tale affermazione la quale non è altresì dimostrata dall’analisi dei lavori processuali. Nessun ritardo emerge dai fascicoli.

Anche se ci sono voluti più di dieci anni per giungere ad una sentenza definitiva, la Corte non può ignorare il fatto che l'accusa si sia trovata di fronte ad ostacoli significativi durante le indagini (punti 44, 45 e 52 di cui sopra) e che il giudice di merito ha dovuto istituire un complesso procedimento penale nei confronti di decine di imputati e un centinaio di attori italiani e stranieri (paragrafi sopra 46-47), per stabilire, nel rispetto dei principi del un giusto processo, le responsabilità individuali di un episodio di violenza perpetrato dalla polizia e che il Governo convenuto ha qualificato come eccezionale.

224. La Corte non può accusare i giudici nazionali di non aver misurato adeguatamente la gravità delle accuse contro gli imputati o, peggio, di aver usato disposizioni legislative ed esecutive del diritto nazionale per impedire la giusta condanna degli agenti di polizia accusati.

Le sentenze di appello e cassazione, in particolare, hanno mostrato fermezza esemplare e non hanno mai trovano alcuna giustificazione per i gravi eventi della scuola Diaz-Pertini.

225. La Corte ritiene piuttosto che sia stata piuttosto la legge penale italiana (si vedano i paragrafi 88-102 sopra) a mostrarsi inadeguata di fronte a tali episodi di violenza, ed in particolare, che la stessa si sia dimostrata incapace sia di punire tali condotte sia di funzionare come deterrente per la commissioni, anche futura, di tali reati.

 

226. La Corte tornerà più avanti (paragrafi 244 e seguenti sotto) su quanto emerso dalle osservazioni fatte dal primo presidente della Corte di Cassazione (vedi punto 105) italiano e di quelle dei di terzi intervenuti (paragrafi sopra 200-203).

 

γ ) Dubbi sulle misure disciplinari adottate nei confronti dei funzionari coinvolti nell’abuso d’ufficio.

 

227. Non è chiaro dal fascicolo sei i responsabili delle torture subite dal ricorrente e degli altri reati ad esse collegati siano stati poi effettivamente sospesi dalle loro funzioni durante il processo penale. La Corte non dispone di informazioni sull'evoluzione delle loro carriere durante le fasi del procedimento penale e dopo la loro condanna definitiva.

228. A tal riguardo, è rilevante il silenzio del Governo italiano nonostante siano state espressamente richieste informazioni già all’atto della notifica del ricorso.

 

iii. Lo status di vittima e l'esaurimento delle vie di ricorso interne (in particolare: l’azione per il risarcimento danni)

 

229. Alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che le varie misure adottate dalle autorità nazionali non hanno pienamente soddisfatto il requisito di un esame approfondito ed efficace così come invece ritenuto dalla giurisprudenza. Questa circostanza è decisiva ai fini dell'eccezione sollevata dal Governo in merito alla avvenuta perdita dello status di vittima del ricorrente, e ciò perché, sempre secondo il governo, i giudici hanno già riconosciuto la violazione in questione nell'ambito del procedimento penale e che hanno già riconosciuto e liquidato il risarcimento alla persona interessata (punto 131).

230. Infatti, come ricordato in occasione del caso Gäfgen, "in caso di maltrattamenti da parte di funzionari statali in violazione dell'articolo 3, la Corte ritiene che "oltre al riconoscimento della violazione," sono necessarie altre due condizioni "per privare il ricorrente del suo status di vittima. "In primo luogo, le autorità statali devono condurre un'indagine approfondita ed efficace che deve portare all'identificazione e alla punizione dei responsabili. In secondo luogo, il ricorrente, se del caso, deve ottenere un risarcimento o almeno avere la possibilità di chiedere e ottenere il risarcimento del danno".

231. La Corte ha ripetutamente affermato che la concessione di un risarcimento alla vittima non è sufficiente a porre rimedio alla violazione dell'articolo 3. Infatti, se le autorità potessero semplicemente rispondere dei casi di maltrattamento doloso riconoscendo un semplice risarcimento economico, senza perseguire e punire i funzionari, i funzionari statali potrebbero violare i diritti delle persone rimanendo impuniti e di conseguenza il divieto legale assoluto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti non avrebbe alcun effetto e sarebbe svuotato della sua importanza fondamentale.

Pertanto, il diritto di chiedere ed ottenere il risarcimento del danno rappresenta solo una parte delle misure necessarie per rimediare al danno subito.

232. Per quanto riguarda l’eccezione del mancato esaurimento dei ricorsi interni, relativo al fatto che il richiedente non ha azionato un successivo procedimento civile per risarcimento danni (vedi sopra, punto 139) la Corte ricorda di aver già ripetutamente respinto eccezioni simili, dopo aver osservato che la procedura di risarcimento non era destinata alla punizione dei responsabili di atti contrari agli articoli 2 e 3 della Convenzione e riaffermando che per le violazioni di questo tipo, la reazione delle autorità non può essere limitato al risarcimento della vittima.

In altre parole, in caso di violazione all'articolo 3 della Convenzione, l'obbligo di concedere un risarcimento a livello nazionale non esaurisce il compito delle autorità nazionali perché queste devono ovviamente garantire indagini approfondite ed efficaci volte all'individuazione ed alla punizione dei responsabili che non possono quindi essere sotituite da un mero risarcimento.

233. La Corte precisa che, quando un rimedio è stato esperito, l'uso di un altro rimedio il cui scopo è praticamente identico, non è ammissibile.

234. La corte osserva inoltre che in questo caso il ricorrente aveva esercitato l’azione civile per il risarcimento del danno costituendosi parte civile nel luglio 2004 nell’ambito del processo penale. Ha partecipato a tutti i gradi del processo (paragrafi 59 e 75 di cui sopra) fino alla sentenza della Corte di Cassazione, depositata in cancelleria il 2 ottobre 2012.

Considerato quanto sopra, l’instaurazione di un successivo procedimento civile sarebbe stato un onere eccessivo per il ricorrente.

235. Sulla base della propria consolidata giurisprudenza, la Corte respinge le due eccezioni preliminari sollevate dal Governo.

 

iv. Conclusioni

 

236. La Corte nel ravvisare la violazione dell'articolo 3 della Convenzione a causa dei maltrattamenti perpetrati nei confronti del ricorrente, ritiene che tali maltrattamenti abbiano a tutti gli effetti le connotazioni tipiche della " tortura " ai sensi di tale disposizione, in entrambe le sue componenti, sostanziale e procedurale. In tali circostanze, la Corte respinge sia l'eccezione preliminare del Governo relativa alla perdita di status di vittima (si vedano i paragrafi 131 e seguenti  di cui sopra ) nonché  l'eccezione preliminare basata sul mancato esaurimento dei procedimenti interni  (paragrafi 139-140 sopra )"

 

III Sulla applicazione degli articoli 41 e 46 della Convenzione

 

Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione:

" Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette, se non in modo imperfetto, di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa »

Le parti interessate sono soggette, in questo caso,  anche all'applicazione dall'articolo 46 del Convenzione che recita:

" 1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti."

" 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l'esecuzione ( ... ) . »

 

A. Indicazione delle misure generali

 

1. Principi generali

 

239. La Corte ricorda che ogni giudizio che accerti una violazione da parte dello Stato convenuto, obbliga il medesimo ai sensi dell'articolo 46 della Convenzione, di porre fine alla violazione e di cancellarne le conseguenze, in modo da ripristinare quanto più possibile la situazione precedente.

Se la legge nazionale non permette, o permette in modo inadeguato, il risarcimento della parte lesa, trova applicazione l'art. 41 della Convenzione secondo cui se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette, se non in modo imperfetto, di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un equo indennizzo alla parte lesa.

240. La Corte ricorda inoltre che le sue decisioni hanno carattere essenzialmente dichiarativo, per cui, è in primo luogo lo Stato in questione a dover individuare - sotto il controllo del Comitato dei Ministri - le risorse per ottemperare al suo obbligo ai sensi dell'articolo 46 della Convenzione, a condizione che tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte.

Questo potere discrezionale circa l'esecuzione della sentenza riflette la libertà di scelta che accompagna l'obbligo primario della Convenzione per gli Stati contraenti: assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà garantite.

241. Tuttavia, eccezionalmente, per aiutare lo Stato convenuto ad adempiere agli obblighi di cui all'articolo 46, la Corte può indicare il tipo di misure da adottare al fine di far cessare gli effetti della violazione accertata. Quando la natura della violazione non permette di individuare specifiche misure, la Corte non può indicare la specifica misura da adottare.

 

2. L'applicazione di questi principi nella fattispecie.

 

242. In questo caso, la Corte ha osservato che le autorità italiane perseverano nel considerare e punire il reati di tortura  responsabili con norme che si riferiscono ad altre fattispecie di reato.

Tuttavia, la Corte ha ravvisato la mancanza di responsabilità dei giudici italiani. E’ invece il diritto penale italiano a presentare forti lacune “dimostrandosi sia nel sanzionare la tortura sia a rappresentare un valido deterrente per prevenire le violazioni dell'articolo 3 in futuro "(paragrafi 223-225 sopra).

La natura strutturale del problema sembra così evidente.

Inoltre, tenuto conto dei principi stabiliti dalla propria giurisprudenza, la Corte conclude che il problema non attiene solamente la mancata previsione del reato di tortura ma anche della facile applicazione delle norme in tema di prescrizione ed indulto che, di fatto, finiscono spesso per vanificare il lavoro della autorità giudiziaria.

 

 

243. Per quanto riguarda le misure da adottare al fine di porre rimedio a tale situazione, la Corte ricorda in primo luogo che gli Stati aderenti hanno l’obbligo di istituire un quadro giuridico adeguato attraverso disposizioni penali efficaci (punto 209).

244. Come anche nel caso Söderman c . Svezia [ GC ] n.5786/08 , § 82 , CEDU 2013, la Corte rammenta inoltre che tale obbligo deriva anche da altre disposizioni internazionali quali, in particolare, l'articolo 4 della Convenzione.

245. La competenza della Corte è limitata a garantire il rispetto degli obblighi di cui all'articolo 3 della Convenzione e, in particolare, ad aiutare lo Stato convenuto nella ricerca di soluzioni adeguate al problema dell’inadeguatezza della normativa italiana.

246. Si ritiene pertanto necessario che il sistema giuridico italiano si munisca di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili degli atti di tortura o comunque di quelle condotte previste dall’art. 3 e di impedendire che i responsabili di tali atti beneficino di misure contrarie con la giurisprudenza della Corte.

 

B) IL DANNO

 

247. Il ricorrente chiede 180.000 € (EUR) quale danno patrimoniale per le lesioni personali riportate a seguito delle aggressioni fisiche subite (frattura ulna destra, stiloide destra del perone destro e diverse costole, successiva invalidità permanente del braccio e della gamba destra).

Chiede inoltre 120.000 EUR per danni morali conseguenti al dolore ed alla paura sofferta in occasione dell’irruzione nonché per i successivi disagi psicologici patiti.

248. Il Governo contesta tali richieste perchè ritenute contrastanti con lo scopo del ricorso, che, secondo il Governo, è quello di denunciare la lacuna normativa del diritto penale italiano in relazione all'articolo 3 della Convenzione.

Aggiunge inoltre che, il ricorrente ha già ottenuto in ambito nazionale un risarcimento di $ 35.000.

249. In subordine, il Governo ritiene che le richieste del ricorrente siano sproporzionate alla luce dei criteri applicati a livello nazionale per la determinazione complessiva del danno fisico e morale.

250. La Corte ritiene che il danno fisico non può essere considerato una perdita di materiale.

251. La Corte ritiene che il ricorrente abbia subito un danno non patrimoniale a causa delle violazioni. Date le circostanze del caso e, in particolare, del risarcimento già ricevuto a livello nazionale, la Corte ritiene opportuno concedere al ricorrente la somma  di 45.000 euro.

 

C. Costi e spese

 

252. Il ricorrente non ha presentato alcuna nota spese percui la Corte non ritiene di dover riconoscere alcunché sul punto.

 

D. Interessi moratori

253. La Corte ritiene opportuno calcolare il tasso degli interessi di mora sul tasso di rifinanziamento della Banca Centrale Europea, maggiorato di tre punti percentuali.

 

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE ALL'UNANIMITA '

 

1. Unisce al merito l'eccezione preliminare del Governo in ordine alla perdita dello status di vittima, e la respinge;

2. Unisce al merito l'eccezione preliminare del Governo circa il non-esaurimento delle vie di ricorso interne, e la respinge;

3. Dichiara il ricorso ricevibile per quanto riguarda le denunce di cui all'articolo 3 della Convenzione;

4. Dichiara che vi è stata una violazione dell'articolo 3 della Convenzione nel suo aspetto sostanziale;

5. Dichiara che vi è stata una violazione dell'articolo 3 della Convenzione sul piano procedurale;

6. Dichiara:

a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi dalla data in cui la sentenza diventi definitiva, ai sensi dell'articolo 44 § 2 della Convenzione, 45.000 EUR (€ 45.000) oltre eventuali imposizioni fiscali;

b) che a partire dalla scadenza di tale termine e fino all’effettivo pagamento, tale importo aumenterà con un tasso di interesse  calcolato sulla base del tasso di rifinanziamento della Banca centrale europea del periodo, maggiorato di tre punti percentuali;

7. Respinge la richiesta di risarcimento per l'eccedenza.

Redatto in francese, si notifichi per iscritto in data 7 apr 2015, in applicazione dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

 

  Il Cancelliere                                                                                  Il Presidente

Françoise Elens Passos                                                                        Päivi Hirvelä

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Caso Marò: il Diritto Penale Indiano tra aspetti giuridici e possibili scenari

Con il presente contributo si tenterà, seppur sommariamente, di analizzare i principali aspetti giuridici della vicenda che vede coinvolti i nostri connazionali Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Come ormai noto, i Governi italiano ed indiano si stanno ormai da tempo rimpallando tesi contrastanti circa la possibilità o meno, non solo di una condanna detentiva ma addirittura di una condanna a morte dei nostri due Marò. Come è noto l'India è uno dei Paesi al mondo che prevede la pena capitale, mediante impiccagione,  per reati particolarmente efferati.  La pena di morte è prevista dal Codice Penale e dall’art. 21 della Costituzione Indiana, che afferma: “Nessuna persona può essere privata della vita o della libertà personale salvo nei casi stabiliti dalla legge”. La pena capitale è prevista inoltre da una serie di leggi ad hoc riguardanti materie diverse non espressamente indicate nello stesso codice penale ma coerenti con il dettato costituzionale indiano. In generale, l'art. 302 del Codice Penale Indiano prevede la condanna a morte per il reato di omicidio volontario. Lo stesso Codice prevede poi, all'art. 305, la pena di morte per colui che ha indotto al suicidio un minorenne o un ritardato mentale. Proseguendo, l'art. 307 prevede  la pena capitale per l'omicidio o il tentato omicidio da parte di colui che già sta scontando una pena detentiva all'ergastolo. Infine, anche i reati  di "Cospirazione contro il Governo", la "Diserzione" (anche solo tentata) ed "l'intraprendere o tentare di intraprendere una guerra contro il Governo centrale" sono tutti puniti con la pena capitale. Oltre al Codice Penale, altri codici quali quelli militari dell'Army Act e l'Air Force Act - entrambi del 1950 - ed il Navy Act del 1956, prevedono la pena capitale per alcune tipologie specifiche di reati tuttavia collegate alla natura prettamente militare dei soggetti protagonisti.  In linea di massima il Governo indiano - se volesse - potrebbe arbitrariamente far rientrare il caso dei due Marò anche nell'ambito di tali specifiche normative. Oltre a ciò, ulteriori leggi speciali, hanno permesso nel tempo la possibile applicazione della pena di morte per ulteriori reati che qui di seguito si riportano in  ordine cronologico: nel 1987 il Commission of Sati Prevenction Act ha introdotto la pena di morte per chi istiga una vedova al suicidio sacrificale (il c.d. sati); nel 1988 il Narcotic Drugs and Psychotropic Substance Amendment Act ha introdotto la pena di morte per colui che riporta la seconda condanna per traffico di sostanze stupefacenti; nel 2002 col il Prevention of Terrorism Act si è prevista la pena di morte per coloro che si rendano responsabili di atti di terrorismo; nel 2011 la Petroleum and Minerals Pipelines ha introdotto la pena capitale per coloro che compiono atti di terrorismo come il sabotaggio, quando questo sia talmente pericoloso da poter causare la morte di essere umani. Sull'onda negativa della sequenza di stupri avvenuta nel 2012, nell'aprile del 2013 è entrata in vigore la Legge Anti-stupri che prevede ergastoli e condanne a morte per coloro che vengono condannati per il reato di stupro e punizioni severe per  i reati connessi come le aggressioni con l'acido, lo stalking ed il voyeurismo. Questa recentissima legge prevede condanne al carcere duro per almeno 20 anni, che può essere esteso fino all'ergastolo ed altre disposizioni che permettono alle Corti di emettere una condanna a morte per coloro che sono stati condannati in precedenza per gli stessi delitti. Per il caso dei due Marò, particolarmente interessante è anche il "Suppression of Unlawful Act Against Safety of Maritime Navigation and Fixed Platforms and Continental Shelf Act" (c.d. SUA Act) del 2002 che all'articolo 3, lett. g, 1° punto, prevede la pena capitale per colui che determina la morte di qualcuno nella commissione o durante il tentativo di commettere uno dei reati di cui ai punti (a) ovvero un atto di violenza ai danni di persona a bordo di una piattaforma fissa o di una nave, mettendo a rischio la sicurezza della piattaforma, o, a seconda dei casi, della navigazione sicura della nave, e (d) ossia nel collocare su una piattaforma fissa o su una nave, da qualsiasi mezzo, un dispositivo o sostanza in grado  di distruggere una piattaforma fissa o una nave, o creare un danno alla piattaforma o alla nave o al suo carico, mettendo in pericolo anche solo parzialmente la piattaforma fissa o la navigazione sicura di quella nave. Orbene, se si considera che il Governo indiano ha incaricato proprio l'agenzia federale "N.I.A." che si occupa specificamente dei reati previsti dal SUA Act, è evidente che l'India ha attualmente optato per una incriminazione dei due Marò ai sensi di questa legge. Avverso tale opzione vi è stata una però un'istanza italiana volta ad eliminare la stessa N.I.A. dal processo. Proprio su tale aspetto, all'udienza del 10 marzo 2015 l'autorità giudiziaria indiana nelle vesti del giudice M.K.Hanjura si è riservato in ordine alla fondatezza di tale istanza ma tutto lascia presagire che l'agenzia investigativa non venga estromessa dal giudizio e ciò non può certamente intendersi come segnale positivo Tornando all'analisi della pena capitale, la Costituzione Indiana prevede comunque che la pena di morte possa essere commutata, sospesa o rinviata dal Presidente il quale anche concedere la grazia. Passando ai dati statistici, è interessante notare che il National Crimes Record Bureau (NCRB) indiano, afferma che tra il 2001 al 2011, i vari tribunali del Paese hanno condannato a morte 1.460 persone e varie Alte Corti hanno commutato in carcere a vita le condanne a morte di 4.321 prigionieri, mentre Amnesty International dichiara che circa 78 nuove condanne a morte sono state comminate nel 2012 e alla fine di marzo 2013 erano 404 i detenuti nel braccio della morte in varie prigioni del Paese. L'ultima commutazione è del 27 gennaio 2015 quando l'Alta Corte di Mumbai ha commutato in ergastolo la condanna a morte di Sunil Ombase accusato di aver ucciso suo figlio di tre anni e sua nipote di nove dopo aver aggredito sua moglie il 31 dicembre 2012. Orbene, tornando alla questione dei nostri connazionali, considerato che i presupposti oggettivi e legislativi vi sono tutti, occorre sottolineare che l’eventualità di un una condanna, e soprattutto di una condanna a morte, necessita preliminarmente di una definitiva attribuzione del caso alla giurisdizione indiana, secondariamente che la condotta dei due Marò sia riconosciuta determinante per la morte dei due indiani e quindi che questa sia fatta rientrare in una delle fattispecie codicistiche o legislative su elencate. Tutti elementi che al momento restano purtroppo in piedi e che l’India sembra sostenere decisamente senza alcuna determinante azione di contrasto del Governo Italiano. Allo stato attuale lo scenario è ancora troppo ricco di incognite: i due Marò potrebbero essere imputati tanto di semplice omicidio volontario (per cui come detto sopra è prevista la pena di morte ex art 302) tanto da norme para-internazionali attribuenti la violazione dell’art. 3 della SUA Act, con conseguente condanna a morte perché dall’azione ne sono scaturite conseguenze mortali per i due pescatori indiani. Non è dunque un’ipotesi peregrina e remota, anzi vista la lenta evoluzione processuale del caso senza che il nostro Governo abbia fatto di recente qualche passo sostanziale, che dopo l’incriminazione formale si passi al processo ed all'eventuale condanna e quindi tutte le ipotesi sono aperte, tra cui anche la condanna a morte. La soluzione del caso - ed il governo italiano dovrebbe prenderne atto - sta nel citare l’India davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja (International Court of Justice, ICJ) o tentare di riaffermare la giurisdizione italiana sulla vicenda attraverso un arbitrato internazionale al Tribunale Internazionale del Diritto del Mare di Amburgo (International Tribunal for the Law of the Sea, ITLOS). Secondo la modesta opinione dello scrivente, sarebbe stato opportuno insistere sin da subito e con maggior vigore sulla sottrazione dei nostri connazionali alla giurisdizione indiana, tuttavia così non è stato ed è ovviamente auspicio di tutti che ciò non si riveli determinante per la sorte dei due militari italiani.

Avv. Giuseppe Frate