Embedded Agency >

Elaborati corsisti

Gestione del panico: strategie di coping in relazione all'attentato alle Torri Gemelle

Valutazione attuale:  / 5
ABSTRACT
 
Il presente elaborato dal titolo “Gestione del panico: strategie di coping in relazione all’attentato alle Torri Gemelle” si propone di analizzare le tecniche e le strategie di coping adottate durante uno degli attentati terroristici più gravi che abbiano mai colpito l’Occidente, vale a dire l’attacco dell’11 settembre 2001.
 
Il fine è di dimostrare come è stato gestito il panico, attraverso i meccanismi di coping in diversi individui nell’ambito di situazioni delicate, in questo caso un attacco terroristico senza precedenti. 
 
Si procederà dapprima con il presentare cos’è il coping e la nascita del termine, per poi illustrare brevemente gli avvenimenti di quel giorno. Si cercherà di analizzare, attraverso diversi documenti fotografici, le strategie messe in atto dalle vittime degli attentati, dai cittadini newyorkesi e dai diversi operatori delle forze dell’ordine e di soccorso che hanno prestato servizio l’11 settembre.
 
Infine, si parlerà delle diverse disposizioni e delle misure di prevenzione nate in seguito all’evento per evitare situazioni simili e per gestire efficacemente ogni possibile minaccia alla sicurezza dello Stato. 
 
  
This work entitled “Gestione del panico: strategie di coping in relazione all’attentato alle Torri Gemelle” offers an analysis of the techniques and the strategies of coping adopted during one of the most serious terrorist attacks to have ever hit the Western World, namely the 9/11 2001 attack.
 
It aims at providing how the attack, occurred during a new era for the humankind, influenced the different victims and the entire world. 
 
Firstly, it underlines what coping is and how the term is used. Later it continues with a brief presentation of the events that occurred that day. The aim is to analyze, through different photographic documents, the strategies adopted by the victims of the attacks, by the New York citizens and the law enforcement and rescue workers who were on duty on 9/11.
 
In conclusion, the different provisions and prevention measures are described in order to  understand how to menage a global threat, such as a terrorist attack.
 
 
INTRODUZIONE
 
Gli attentati dell’11 settembre 2001 costituiscono uno degli avvenimenti più bui della storia statunitense e di tutto il mondo occidentale. L’effetto sorpresa, il numero di vittime e le conseguenze economiche e psicosociali hanno dimostrato la vulnerabilità di un paese che fino a quel momento era considerato quasi invincibile. Le reazioni da parte delle vittime, dei loro parenti, delle Forze dell’Ordine e degli altri soccorritori sono state di diversa natura: paura, ansia, rassegnazione, speranza, lucidità, freddezza, determinazione… Molte delle vittime sopravvissute hanno presentato pesanti conseguenze psicologiche per diversi anni dopo l’attentato e sono arrivate al punto di chiedersi il motivo della loro sopravvivenza rispetto alla sfortuna di coloro che hanno perso la vita.
 
A causa di un attentato terroristico di tale entità, molti individui si sono trovati di fronte a morte certa, altri alla speranza di poter sopravvivere, altri ancora sono stati costretti a fuggire lontano dalle proprie case per via dei danni strutturali subiti dagli edifici vicini alle Torri Gemelle e gli operatori si sono trovati davanti migliaia di morti e feriti da soccorrere. Risulta naturale chiedersi come è stata gestita la situazione dal punto di vista emotivo e quali strategie siano state messe in atto dalle diverse persone coinvolte.
 
Come già accennato in precedenza, tale evento ha causato delle profonde lacerazioni all’interno dello Stato americano e ha fatto trasparire una debolezza nascosta nella gestione delle minacce nazionali e internazionali con un’assenza quasi totale di misure di prevenzione dei rischi in relazione agli attacchi terroristici, presenti solamente con un grado d'intensità minore fino a quel giorno.
 
Si renderà dunque fondamentale una breve premessa storica sulla teoria del coping e sugli eventi di quel giorno, che hanno portato le persone a confrontarsi con se stessi e con le sensazioni che l’11/09 ha fatto nascere in ogni individuo, con particolare attenzione alle differenze tra vittima, spettatore e soccorritore.Alla luce di tutto ciò, verrà analizzato il tema della gestione del panico in tutte le sue declinazioni, dando voce a coloro che si sono ritrovati nel mezzo dell’evento. 
 
 
1.1  Definizione e nascita del coping
 
Ogni individuo possiede una personalità specifica che lo influenza nelle scelte decisionali e nei modi di essere, di conoscere e di agire. La suddetta personalità è frutto di un processo di crescita e cambiamento, che si compie nel corso della vita, attraverso l’interazione continua tra la persona e l’ambiente circostante. Oltre ai tratti di personalità, ognuno tende a sviluppare specifiche abitudini e metodi di resilienza in situazioni particolarmente stressanti. Proprio in queste situazioni si innestano le strategie di “coping”.
 
Il termine “coping” è stato usato per la prima volta dallo psicologo americano Lazarus Richard (1922-2002) nell’opera “Psychological Stress and the Coping Process” pubblicata nel 1966. Secondo Lazarus, gli studiosi che lo hanno preceduto non hanno mai analizzato le risorse interne della persona, ma si sono sempre concentrati sulle influenze esterne. Hanno sempre considerato un individuo in difficoltà come il risultato di una serie di circostanze negative senza pensare alla conseguente risposta alle difficoltà. Solamente le teorie di psicoanalisi elaborate dallo  psicoanalista Sigmund Freud  (1856-1939) hanno accennato ai meccanismi di difesa, vale a dire operazioni psichiche inconsapevoli e messe in campo dall’Io per difendersi da richieste istintuali eccessive o incompatibili con i vincoli ambientali.  Attraverso il ricorso a tali meccanismi, pensieri e impulsi inaccettabili vengono cancellati dalla coscienza, proteggendo l’individuo dall’angoscia che scaturirebbe dalla loro consapevolezza. Si può dire che coping e meccanismi di difesa abbiano in comune l’obiettivo di proteggere l’individuo da uno stress eccessivo, ma presentano gradi di consapevolezza differenti. Infatti, i meccanismi di difesa  sono in parte o del tutto inconsci, mentre il coping è per lo più consapevole e intenzionale. 
 
Lazarus distinse gli individui con una maggior maturità psichica e tecniche di coping efficaci rispetto a quelli con minor maturità e tecniche inconsce legate a una reazione spontanea e non premeditata. In entrambi, il processo dinamico che porta al coping si articola in tre fasi distinte:
 
1. Appraisal primario: la valutazione della situazione e dei possibili rischi e danni correlati;
2. Appraisal secondario: la valutazione degli strumenti e delle risorse a disposizione per poter affrontare la minaccia in questione;
3. Re-appraisal: la rivalutazione della situazione per poter stabilire i pro e i contro delle strategie pianificate e le azioni da mettere in atto.
Queste fasi risultano più marcate negli individui con un q.i. superiore alla media. Tutti gli esseri umani provano paura, ma ciò che distingue l’uno dall’altro è la razionalizzazione e la reazione all’atto stressante e pauroso. In seguito, è importante distinguere le modalità di attuazione delle strategie di coping:
 
1. Coping orientato al problema o alla situazione: azioni finalizzate a gestire la fonte di stress e a prevenire ulteriori danni tramite l’organizzazione di un piano d’azione, la ricerca di supporto e le operazioni di problem solving. Sul piano emotivo, vi è un discostamento momentaneo dai pensieri negativi per poter dar spazio alla ragione e compiere gesti logici utili alla risoluzione del problema. Risultano più efficaci nel lungo periodo, dato che cercano di affrontare l’ostacolo alla radice e di eliminarlo senza aggravarne le conseguenze. Tuttavia, non tutte le situazioni possono essere affrontate in questo modo, poiché esistono situazioni non modificabili o controllabili, ad esempio un lutto in famiglia o una malattia terminale.
 
2. Coping orientato alle emozioni: strategie finalizzate alla gestione della risposta emozionale negativa allo stress, come crisi di pianto e/o isteria. Non risultano particolarmente efficaci nel lungo periodo, dato che il soggetto prova una riappacificazione mentale momentanea e con il tempo potrebbero svilupparsi sensi di colpa per non aver agito diversamente. In quest’ultimo caso, si innesca la dinamica del coping disadattivo, vale a dire l’implementazione di dinamiche d’evitamento e di fuga dalle difficoltà tramite le tecniche di auto-aiuto (consumo di alcolici o sostanze stupefacenti, crisi di pianto e panico continue ecc.), che potrebbero addirittura fare ricorso all’aggressività e alla violenza.
 
Le suddette strategie legate alle emozioni si suddividono a loro volta in 4 azioni:
a. Distanziamento: negazione del problema e allontanamento fisico e/o psicologico facendo finta che il problema non esista o rimanendo immobili, come paralizzati, a guardare (Bystander Effect o effetto spettatore);
b. Autocontrollo: tentativo di gestione delle emozioni negative tramite pensieri positivi e tecniche di respirazione e rilassamento aiutando prettamente se stessi;
c. Assunzione di responsabilità: assumersi la piena responsabilità dell’accaduto o spostare le colpe a qualcun’altro senza porsi troppe domande sulle conseguenze;
d. Rivalutazione positiva: dare una connotazione diversa a ciò che sta accadendo.
            
Di conseguenza, non solo disporre di un buon repertorio di coping aiuta a vivere meglio e ad adattarsi alle difficoltà, ma anche a reagire con minor stress davanti alle sfide.  Di fronte a eventi conflittuali e stressanti, infatti, una persona può adottare anche differenti strategie di coping, partendo da un tipo per poi passare a un altro; oppure potrebbe perfino adottare più strategie di coping contemporaneamente. Gli studiosi non hanno stabilito che una tecnica sia migliore rispetto all’altra in maniera universale, dato che ogni essere umano è pervaso da diverse emozioni e ha un proprio bagaglio socioculturale che influenza la presa di decisioni. 
 
Inoltre, è stato anche dimostrato che vi sono piccole differenze nelle reazioni tra due individui di sesso opposto all’interno di condizioni stressanti o conflittuali simili. Entrando più nel dettaglio, sembrerebbe che le donne tendano a far fronte ai problemi adottando preferenzialmente strategie di coping incentrate sulle emozioni. Invece, gli uomini tendono a prediligere strategie di coping incentrate sul problema. È comunque opportuno precisare che quanto appena detto non è applicabile a tutti gli individui, perché, come ribadito diverse volte, le variabili coinvolte sono molteplici e dipendono dalla singola personalità in gioco.
 
Questo tipo di differenze non è solo dovuto al livello di ansia e stress presente prima e durante una situazione difficile, ma è principalmente dovuto alle diverse strategie che ottimisti e pessimisti mettono in atto nel far fronte agli eventi. Le persone ottimiste, con una maggiore fiducia nel futuro, producono uno sforzo continuo per capire la nascita del problema e le sue possibili soluzioni, anche quando si trovano di fronte a gravi avversità quasi insormontabili. Al contrario, i pessimisti, che presentano maggiori dubbi e preoccupazioni sull’avvenire, tendono ad allontanare da sé ogni pensiero negativo e a evitare le avversità a tutti i costi. In conclusione, è stato dimostrato che i pessimisti tendono principalmente a compiere azioni che diano loro temporanee soluzioni o distrazioni, ma che non li aiutano a risolvere  completamente il problema. Mentre, l’ottimismo porta a una frequente focalizzazione sul problema con un impegno prevalente sulle strategie problem-focused, piuttosto che emotion-focused.
 
1.2  11 settembre 2001: breve cronologia degli eventi
 
Nonostante l’ampia letteratura in merito, è da considerarsi utile una breve ricapitolazione di ciò che avvenne quel giorno. La mattina dell’11 settembre 2001, diciannove attentatori appartenenti a una cellula dell’organizzazione terroristica jihadista di Al-Qaeda dirottarono quattro aerei di linea per portare a compimento uno degli attentati più gravi, se non il più grave, che gli Stati Uniti d’America abbiano mai subito. 
 
Due degli aerei si schiantarono contro le Torri Gemelle del World Trade Center di New York, situato a Manhattan, il primo alle 8:45 (14:45 ora italiana) e il secondo alle 9:05, solo alle 9:33 si scoprì che uno degli aerei kamikaze era un Boeing 767 dirottato da Boston.  Alle 9:45 scoppiò un incendio a Washington, al Pentagono (Ministero della Difesa americano), che venne fatto evacuare e solo in seguito si scoprì che le fiamme erano dovute all’esplosione di un altro aereo. L’ultimo, coraggiosamente dirottato dai passeggeri, si schiantò in un campo in Pennsylvania. In merito a quest’ultimo, si crede che l’obiettivo potesse essere la Casa Bianca (fatta evacuare quando scoppiò l’incendio al Pentagono) o il Congresso. Alle 10:07 crollò il primo grattacielo colpito a New York e venti minuti dopo la stessa sorte toccò alla seconda torre, due ore dopo cedette un altro palazzo vicino al World Trade Center a causa dei danni provocati dalle precedenti esplosioni.
 
Gli attentati causarono la morte di 2.823 persone a New York, 184 al Pentagono e 40 in Pennsylvania, ma ci furono oltre 6000 feriti, nei 4 aerei dirottati e precipitati c’erano 264 passeggeri. È poi importante sottolineare anche la perdita di oltre 400 poliziotti, vigili del fuoco e personale medico che sono rimasti uccisi nel tentativo di salvare vite umane e di tirare fuori i feriti dalle macerie degli edifici crollati.
 
In seguito all’attentato, il Governo degli Stati Uniti iniziò una lunga campagna antiterroristica che prese il nome di “Global War on Terror”(GWOT). Vennero implementate nuove misure di contenimento e riduzione del danno, ma anche misure di prevenzione e di salvaguardia della sicurezza nazionale e internazionale.
 
Alla base dell’attacco c’era la convinzione da parte di Osama Bin Laden (1957-2011), leader dell’organizzazione terroristica, che gli Stati Uniti fossero in realtà una “tigre di carta”, ossia un paese molto più debole di quello che appariva. Sfortunatamente, gli attacchi dell’11 settembre confermarono questa tesi e posero l’attenzione sui punti fallaci della sicurezza statale.
Al contempo, tale avvenimenti dimostrarono la portata globale di Al-Qaeda: stando infatti a quanto contenuto nel report ufficiale della Commissione sull’11/09 (“National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States”), l’attacco era stato pianificato da molto tempo e aveva coinvolto terroristi provenienti da diverse zone del Medio Oriente. Precedentemente all’attacco, ci sono stati molteplici meeting in Malesia con lo scopo di pianificare precisamente ogni singola azione dell’attentato. Questa precisa organizzazione è evidente anche dal fatto che i dirottatori avevano preso lezioni di volo negli Stati Uniti e che, alla base dell’attacco, vi erano dei finanziamenti consistenti provenienti dalle famiglie degli sceicchi degli Emirati Arabi Uniti. 
 
Dalle e-mail di uno degli attentatori è possibile ricostruire gli stratagemmi e le parole crittografate usate per tenere tutti i partecipanti al corrente dello stato di avanzamento della pianificazione senza destare sospetti. In uno dei messaggi si legge: “The first semester commences in three weeks…Nineteen certificates for private education and four exams.” (“Il primo semestre inizia tra tre settimane… Diciannove certificati per istruzione privata e quattro esami”). Alla luce degli avvenimenti e dei particolari, tale messaggio si riferiva al fatto che l’attacco sarebbe stato portato a compimento dopo tre settimane e che avrebbe coinvolto 19 terroristi e 4 target specifici all’interno degli USA.
 
In una delle mail successive, l’attentatore forniva informazioni circa la data e le modalità in cui si sarebbe svolto l’attacco. Il contenuto del messaggio rinviava a “due bastoni, un trattino e una torta con un bastone verso il basso” (“two sticks, a dash and a cake with a stick down”); riportando graficamente quanto scritto, il risultato sarebbe stato “11 - 9”, ossia l’11 settembre, giorno in cui è  effettivamente stato portato a termine l’attacco.
 
1.3  Il coping attraverso le immagini 
 
L’11 settembre può essere raccontato anche attraverso una serie di immagini e video struggenti diventati simbolo di un episodio che ha segnato l’umanità intera. Le stesse fotografie raccontano le storie delle vittime e tra queste vi è il celebre scatto “Falling Man”, che oggi è diventato rappresentativo non solo di quel tragico evento, ma anche delle diverse reazioni del popolo americano.
 
La foto è stata scattata dal fotografo Richard Drew, chiamato dall’agenzia Associated Press per documentare l’accaduto. L’identità dell’uomo raffigurato non è mai stata accertata, ma è stato ipotizzato che potesse essere Norberto Hernandez, pasticciere di un ristorante situato al 106° piano della Torre Nord. La foto è diventata iconica anche per la posizione dell’uomo, in quanto la sagoma è verticale e con le braccia allineate al corpo, come se si fosse tuffato nel vuoto. Nonostante si possa pensare a un tentativo di fuga, è evidente la rassegnazione e la conseguente scelta di suicidio. Sembra che l’uomo abbia eseguito una valutazione dei pro e dei contro e abbia scelto il male minore, data l’impossibilità di fuggire dal 106° piano e quindi di sopravvivere. La scelta razionale è stata una conseguenza della messa in atto di una strategia di coping legata alla situazione: il soggetto in questione, avendo compreso  l’incontrollabilità dell’evento, non si è fatto prendere dal panico e ha gestito la situazione nell’unico modo possibile.
 
Oltre all’iconico “Falling Man”, ci sono molte altre immagini di persone che precipitano nel vuoto. La maggior parte si sono fatte prendere dalla paura e, attraverso un impulso legato all’autoconservazione, hanno attuato tecniche di coping legate alle emozioni. Queste caratteristiche vengono messe in evidenza dalla posizione scomposta del corpo e sembra quasi che il soggetto si sia lanciato senza riflettere sulle possibili conseguenze. 
 
In alcune foto si vedono molte persone allontanarsi da Manhattan con una certa compostezza, anche se alle loro spalle vi è una nube di fumo e detriti. Si tratta di una strategia di coping che si basa sulla situazione, dal momento che cercano di trovare un modo composto di mettersi in salvo, allontanandosi dal luogo dell’attentato, ma mantenendo comunque la calma e la lucidità, in modo da non generare situazioni violente e aggressive. Al contrario, in altre vi sono persone, che si allontanano di corsa dalla zona vicina al World Trade Center. Sebbene la reazione possa essere considerata normale, visto il trauma subito, in questo particolare momento oltre alla strategia di coping legata alla situazione, che porta a un allontanamento dalla zona per mettere in salvo la propria vita, stavano sicuramente usando anche una strategia di coping che riguarda le emozioni. In quest’ultimo caso, si nota come la paura e il panico abbiano avuto la meglio sulla logica, portando così l’impulso di autoconservazione a prevalere sul resto.
 
Un ulteriore esempio simile è quello dell’economista italiano Ruggero De Rossi, trasferitosi in America in giovane età. Al momento dello schianto del 1° aereo si trovava in prossimità dell’ingresso della Torre Sud, dato che, come da routine, si stava per dirigere al 32° piano della torre per andare a lavorare nell’ufficio dell’azienda Oppenheimer Funds. Tuttavia, arrivò all’edificio con 15 minuti di ritardo, perché si era attardato a scrivere una lettera indirizzata a un familiare residente a Milano. Fortunatamente, riuscì a sopravvivere senza alcuna lesione fisica, ma ancor’oggi continua a ripensare a quel giorno e alle sue azioni. Preso dalla paura e dal panico, si innescò in lui una sensazione legata all’autoconservazione e alle emozioni negative del momento, quindi decise di fuggire per mettersi in salvo. Poco dopo si rese veramente conto dell’accaduto, ma non tornò indietro per aiutare eventuali feriti. Da quel giorno, si sente intrappolato in un senso di colpa costante per essere fuggito e sopravvissuto, a differenza di molte altre persone presenti sul luogo. 
Nel 2021 decise di raccontare la sua storia per ricordare le vittime e per far capire al mondo come questo evento abbia segnato del tutto la sua stessa vita. Proprio dalle sue parole traspare il dolore e sono evidenti le conseguenze nel lungo termine delle sue azioni di coping legato alle emozioni: 
 
«Avevo fatto due passi fuori dal portone, stavo iniziando a correre quando percepii l’ombra dell’aereo passarmi sulla testa. Sentii lo spostamento d’aria, il rumore assordante, lo schianto. Non mi voltai. Correvo. Piangevo. Urlavo. Quando mi fermai, qualche strada più in là, provai un incredibile senso di impotenza. Dovevo tornare indietro ad aiutare? Il senso di colpa di essermi salvato, non mi ha più lasciato. Dopo l’evento molti hanno chiesto aiuto. Io in qualche modo ho rimosso. Ma so quanto quel giorno ha determinato la mia vita. Il mio matrimonio si è sgretolato e lo capisco. Diventai paranoico. Ossessionato dal terrorismo islamico. La notte avevo incubi terribili. Sognavo fiamme, saltavo dal letto per mantenere la parete convinto che stesse per travolgere la mia famiglia. Ma ripresi presto a lavorare e quello mi costrinse a mettere da parte le emozioni».
 
Sono state anche diffuse fotografie particolarmente emblematiche, che ritraggono i vigili del fuoco che hanno prestato servizio la mattina dell’attentato. C’è chi si lascia andare sopraffatto dal tragico evento e piange sulle macerie del World Trade Center. Si tratta di un tipico esempio di coping legato alle emozioni, dato che lasciano sfogo alla crisi di pianto, nonostante il tentativo di autocontrollo e di porre fine alle emozioni negative. Ma ci sono anche altri vigili del fuoco che, a differenza del precedente,  hanno adottato una strategia di coping legata alla situazione. Quest’ultimi hanno reagito senza piangere o mostrare altra emozione apparente, ma rendendosi conto della gravità dell’evento si sono recati ad aiutare le vittime. Ciò significa che sono riusciti a trovare il modo di non lasciarsi coinvolgere emotivamente e trascinare dal trauma, mantenendo dunque lucidità e “freddezza”. 
 
Oltre ai soccorritori del 911, sulla scena erano presenti diversi civili rimasti a spostare le macerie per trovare i feriti. Proprio come i vigili del fuoco, questi volontari hanno messo in pratica delle azioni nate da una riflessione attenta dell’evento e delle sue conseguenze, grazie alle tecniche di coping legato alla situazione. Tuttavia, c’è una compresenza di coping legato alla situazione con coping legato alle emozioni, dato che i presenti sono riusciti a gestire le emozioni negative trasformandole in azioni positive, quali l’aiuto nei confronti delle vittime.
 
In conclusione, viene proposto un ulteriore esempio di coping legato alle emozioni, che sembra essere la strategia adottata dalla maggior parte dei presenti sul posto, ossia il distaccamento sotto forma di “Bystander Effect”, conosciuto anche come “effetto spettatore”. Si tratta di un singolare fenomeno psicologico e sociale che avviene nei casi in cui gli individui non offrono nessun aiuto a una vittima quando sono presenti altre persone sul luogo dell’accaduto. La presenza di altri spettatori riduce i sentimenti individuali di responsabilità personale e fa decrescere la velocità della reazione. I ricercatori aggiungono che la spiegazione del fenomeno risiede maggiormente nella reazione di ciascun individuo al comportamento degli altri presenti, piuttosto che nella sua personale indifferenza nei confronti della vittima.
 
1.4   Disposizioni e misure di prevenzione: Stati Uniti vs Regno Unito
 
In seguito agli eventi dell’11 settembre, gli Stati Uniti in particolar modo hanno cercato di sviluppare delle strategie di prevenzione a livello nazionale e internazionale. 
Stando al Dipartimento di Stato degli USA, la prevenzione delle minacce terroristiche è fondamentale, in quanto i gruppi come ISIS, al-Qaida e Hezbollah continuano a organizzare attacchi per colpire il mondo occidentale. Le minacce poste da questi gruppi devono essere combattute congiuntamente, attraverso un impegno costante e non solo a livello diplomatico; è necessario dotarsi delle conoscenze e degli strumenti fondamentali per prevenire, individuare e rispondere alle minacce che possono ledere la sicurezza statale. Oltre a tutto ciò è necessario un potenziamento  delle forze di polizia e del sistema giudiziario, aumentando così i controlli di confine e incrementando lo scambio d'informazioni tra le varie organizzazioni e i paesi stessi; per questo il Dipartimento di Stato collabora con il Dipartimento della Difesa, la Sicurezza Nazionale, i Servizi di Intelligence e molti altri.
 
Per combattere efficacemente la minaccia terroristica bisogna adottare un approccio multi-direzionale, perché non si può pensare di sfruttare unicamente le forze armate, ma è necessario mettere in pratica tutte le capacità d’Intelligence, compreso il “semplice” scambio d'informazioni. Non bisogna dimenticare che il terrorismo non colpisce solamente il mondo occidentale, anzi, la maggior parte degli attacchi avvengono a livello “locale”, quindi è proprio lì che bisogna iniziare se si vuole eliminare il fenomeno alla radice. Un esempio di questo è stato riportato da Timothy Alan Betts, coordinatore per l’antiterrorismo e inviato speciale per la coalizione globale contro l’ISIS, al summit internazionale antiterrorismo tenutosi in Israele il 13 settembre di quest’anno. Secondo Betts, ora che il cosiddetto califfato è stato almeno parzialmente sconfitto, bisogna prendere in considerazione gli strumenti civili, tra cui il rafforzamento delle capacità e i programmi di stabilizzazione nei territori liberati dall’ISIS. Solo così si potrà garantire una certa sicurezza in zone come Iraq e Siria. Tali strumenti sono essenziali anche perché impediscono ai terroristi di guadagnare terreno e di attrarre nuovi adepti attraverso i processi di radicalizzazione. Non bisogna poi dimenticare che per sconfiggere una rete fitta come quella terroristica bisogna stringere numerose alleanze diplomatiche, che permettano di mettere in pratica diversi programmi extra-militari; la sola azione militare infatti non basta, perché quando si elimina fisicamente una minaccia ne nasce una nuova poco tempo dopo. Gli approcci civili sono cruciali, come il contrasto all’estremismo violento, il rafforzamento dei controlli ai confini e i programmi di riabilitazione e reinserimento per coloro che decidono di rinunciare alla violenza.
 
È importante elaborare una strategia multilaterale, creando connessioni non solo a livello locale, ma anche a livello globale cercando di sfruttare tutte le risorse disponibili per prevenire, per quanto possibile, ogni tipo di minaccia. Dall’11 settembre, gli Stati Uniti hanno creato una rete antiterrorismo flessibile, che unisce individuazione delle minacce, analisi del rischio, scambio d'informazioni, watch list, partnership con enti pubblici e privati e programmi di formazione. 
 
Un altro tema affrontato dal Governo Federale riguarda la prevenzione della radicalizzazione e del terrorismo violento. Il Governo si impegna quotidianamente per supportare e aiutare le comunità e i partner locali attraverso lo scambio d'informazioni in materia di estremismo e radicalizzazione, rafforzando la cooperazione con le forze dell'ordine e collaborando sempre di più con le comunità, affinché queste si possano proteggere dalla propaganda, che ormai si è diffusa anche online. Tuttavia, lo sforzo del Governo da solo non è sufficiente, l’ideologia dell’odio deve essere combattuta in primis all’interno delle comunità stesse, in particolare in quelle musulmane, che spesso vengono prese di mira dai terroristi per trovare nuove reclute da inserire nell’organico dell’organizzazione terroristica. Molte comunità musulmane in America hanno condannato categoricamente il terrorismo e collaborano attivamente con le forze dell’ordine. Sono stati creati  numerosi progetti rivolti ai più giovani per evitare che si avvicinino all’ideologia estremista.     
 
Il terrorismo è un fenomeno diffuso, ben radicato e in continua evoluzione, quindi bisogna essere in grado di adattarsi e di migliorare costantemente le proprie strategie di difesa e prevenzione, è necessario essere più furbi e cercare di anticipare le mosse dell’avversario, per questo il lavoro dei servizi segreti è fondamentale. Negli ultimi anni gli attacchi sono stati numerosi, ma l’umanità deve studiare la storia e imparare dagli eventi passati in modo da riuscire ad affrontare una minaccia forte e difficilmente debellabile.  
 
Purtroppo l’11 settembre è stato il punto di partenza per numerosi altri attentati, non solo da parte di Al-Qaeda, ma anche di nuovi gruppi terroristici, come l’ISIS, che ha terrorizzato l’Europa negli ultimi anni. Proprio per questo, molti paesi hanno redatto delle linee guida per prevenire o quantomeno affrontare nel modo migliore possibili attacchi futuri. Un esempio significativo può essere quello del Regno Unito, che ha pubblicato il seguente documento al fine d'informare la popolazione sulle possibili minacce e su come gestire in maniera appropriata un momento di crisi, senza farsi prendere dall’ansia, scatenando il panico generale. Il NaCTSO (National Counter Terrorism Security Office), sezione antiterrorismo del National Police Chiefs’ Council britannico, ha pubblicato delle linee guida a proposito delle procedure da seguire in caso di attacco. In allegato a esse vi è una lista di consigli utili per cercare di gestire lo stress della situazione nel miglior modo.
 
Viene consigliato un lockdown dinamico nel caso di minaccia a un particolare sito o edificio limitando quindi entrate e uscite. L’obiettivo di tale procedura è di fare in modo che le persone non accedano ad aree pericolose e di scoraggiare l’accesso all’edificio ai terroristi. Un elevato livello di pianificazione preventiva può infatti fungere da deterrente. Nel caso in cui non sia stato possibile prevenire l’attacco, il lockdown dinamico potrebbe rallentare le azioni violente degli aggressori e ridurre notevolmente il numero di vittime. La prima cosa da fare in casi simili è identificare tutti i punti di accesso, pubblici e privati, tenendo presente che non si parla solo di porte e cancelli, ma di tutti i passaggi che garantisco un qualsiasi tipo di accesso. Bisogna evitare di far scattare l’allarme antincendio, perché porterebbe solo a una risposta sbagliata da parte delle persone nell’edificio, creando probabilmente uno stato di ansia e panico generale.
 
Il NaCTSO ha inoltre redatto i cosiddetti Stay Safe principles, che danno indicazioni su come gestire situazioni pericolose, come un attacco terroristico. Il primo consiglio è di scappare, tenendo sempre la mente lucida e cercando la via d’uscita più sicura. Prima però bisogna considerare come arrivare alla meta senza esporsi a un pericolo ancora maggiore, quindi se il percorso non è sicuro, è consigliabile nascondersi. È inoltre importante cercare di rimanere fuori dalla linea del fuoco, tenendo a mente che “se tu vedi l’attentatore allora lui potrebbe vedere te”. Ovviamente nascondersi non garantisce una completa sicurezza, in quanto proiettili ed esplosioni non si fermano davanti alle finestre e nemmeno davanti alle pareti, siano esse anche di metallo, ma rimanere fuori dal campo visivo degli attentatori può garantire un certo vantaggio. A seconda delle situazioni, nel caso in cui scappare sia impossibile, bisogna evitare di rimanere intrappolati, cercando di non farsi prendere dalle emozioni più negative, facendo silenzio e trovando un rifugio sicuro.
 
L’ultimo punto indicato nelle linee guida riguarda l’eventuale possibilità di contattare le forze dell’ordine. Se fosse possibile, bisognerebbe comunicare il numero di attentatori, la posizione in cui sono stati visti per l’ultima volta, descrivendo la fisionomia, l’abbigliamento e i tipi di armi utilizzate. Sarebbe anche consigliato fornire informazioni riguardo eventuali vittime e i tipi di ferite riportate, cercando sempre di fare del proprio meglio per mantenere in vita i presenti. Rimanere calmi è fondamentale in situazioni di questo tipo, in quanto permette di gestire ansia e panico, garantendo una maggiore sicurezza per se stessi e per gli altri.
 
Senza dubbio molti di questi consigli sarebbero stati difficilmente adottabili in un attentato come quello dell’11 settembre, in quanto si tratta di un caso particolarmente estremo in cui le vie di fuga e le possibilità di rimanere in vita erano alquanto scarse, ma negli ultimi anni anche la tipologia di attacco è cambiata, quindi non bisogna pensare che se tali linee guida fossero state pubblicate precedentemente sarebbe cambiato qualcosa. Forse qualcuno non avrebbe perso la vita perché in grado di gestire il panico, ma l’importante oggi è cercare di sfruttare al meglio tutte le strategie di coping elencate precedentemente per essere in grado di affrontare con maggior lucidità possibili eventi futuri.    
 
CONCLUSIONE 
 
L’11 settembre ha rappresentato e rappresenta ancora oggi una data chiave della storia dell’umanità, sia dal punto di vista dello studio criminologico, per quanto riguarda l’attentato in sé, sia da quello psicologico, in quanto ha evidenziato la fragilità umana di fronte a un evento drammatico e traumatico. Ha trovato impreparati gli Stati Uniti, considerati da sempre una potenza internazionale, ma anche tutta la popolazione mondiale dal momento che tutti nel mondo hanno assistito, anche a distanza, alla brutalità dell’accaduto. 
 
Tale evento ha intensificato anche lo studio di quelle che oggi vengono chiamate strategie di coping, con le quali vengono analizzate le reazioni e le diverse maniere di affrontare una crisi globale. Un fenomeno con una tale portata ha permesso di osservare da vicino le diverse sfaccettature del comportamento umano, mettendo in evidenza il fatto che ognuno reagisce a seconda della propria esperienza personale: c'è chi è in grado di non farsi prendere dal panico e di dimenticare se stesso mettendo al primo posto l’aiuto nei confronti di chi ha più bisogno, come hanno fatto i tantissimi vigili del fuoco, agenti e soccorritori che si sono “tuffati” in quella cieca  disperazione, cercando solo di salvare più vite possibile. C’è anche chi si fa trasportare da emozioni negative quali panico e angoscia senza saperle gestire, diventando così vittima non solo della situazione, ma anche di se stesso. Ci sono anche persone che, come detto in precedenza parlando del Bystander Effect, si paralizzano e come automi non sono nemmeno in grado di chiedere o fornire aiuto. Infine, c’è chi tristemente si rassegna al proprio destino non vedendo alcuna via di fuga o possibilità di sopravvivenza, come il famoso “Falling Man”, che si è lasciato letteralmente cadere nel vuoto, ma in modo quasi consapevole, al contrario di chi, come molti altri in quell’occasione, segue impulsivamente il proprio istinto di autoconservazione e si getta, sperando in una specie di “aiuto provvidenziale”. 
 
Ogni persona, proprio per essere in grado di gestire al meglio una qualsiasi situazione di crisi dovrebbe quantomeno informarsi, leggendo le linee guida e consigli da adottare per cercare di salvare non solo se stesso, ma anche gli altri. Il terrorismo “gioca” sulla paura delle persone, sul panico generale che un “semplice” attacco è in grado di provocare e chi commette gli attacchi punta sull’effetto sorpresa, che spesso paralizza la gente o fa scatenare le masse in maniera disordinata e scomposta,  creando un danno ancora maggiore.  
 
La prevenzione serve proprio a evitare che tali eventi traumatici si verifichino - nella storia ce ne sono stati anche troppi - e a prendere coscienza della situazione intervenendo alla radice del problema. Il terrorismo non va combattuto solo nei “nostri” paesi occidentali, ma va combattuto a livello locale, dove nasce e si sviluppa. Bisogna liberare quelle nazioni che sono ormai “impregnate” di un’ideologia di odio e di estremismo violento. L’eliminazione della radicalizzazione serve a creare un ambiente più sicuro per tutte quelle persone che quotidianamente sono vittime di attacchi. È da qui che si può scrivere una nuova pagina della storia, con la speranza che sia positiva.
 
di Elena Pinton, Lucrezia Menegon e Matteo Colnago
 
                                           
 

GEOPOLITICA E RELAZIONI INTERNAZIONALI

Valutazione attuale:  / 0

La rinascita della Geopolitica

 

Nel secondo dopoguerra, la Geopolitica accademica subì un bando dalle Istituzioni accademiche, in quanto veniva associata al nazismo; la stessa parola sparì quasi dai vocabolari. Essa si ripresenta a metà degli anni Ottanta, ma sotto una veste molto più scientifica, lontana il più possibile dalla Geopolitica classica d’anteguerra. Essa infatti comincia a studiare i vecchi, ma anche i nuovi attori coinvolti in conflitti territoriali, non soltanto quindi lo Stato-Nazione, le popolazioni locali e indigene, le articolazioni politiche regionali e locali, lo sviluppo ambientale sostenibile, ma anche le multinazionali.

Durante la Guerra Fredda, se il prisma politico portava a una divisione politica del mondo in due parti, l’Est e l’Ovest, la realtà economica, da parte sua, lo frazionava in tre insiemi: l’Occidente, capitalista, le economie socialiste pianificate, e infine il Sud, povero e sottosviluppato, spesso chiamato Terzo Mondo. L’emergere di nuove potenze economiche nell’emisfero Sud non segna soltanto la fine del concetto di Terzo Mondo, ma porta soprattutto all’inasprirsi delle rivalità commerciali tra gli occidentali alla continua ricerca di nuovi mercati. Dagli inizi degli anni Novanta possiamo osservare una singolare evoluzione, cioè che l’economia diventa un sostituto della politica e dell’ideologia come fattore di coesione nazionale davanti allo straniero. Sono le questioni economiche e finanziarie ad essere poste in primo piano grazie all’interdipendenza delle economie. Non tutti i conflitti sono economici, ma alla base di molti di essi c’è spesso un movente economico, che a volte è stato la semplice necessità di sopravvivenza, e in altri casi la preoccupazione di assicurarsi degli sbocchi, il desiderio di impadronirsi di un territorio, di un mercato, un fattore di produzione, di un elemento di vendita, che permetta di aumentare il potere o la ricchezza di una collettività. Si parla oggi di “guerra economica” quando si assiste a pratiche di dominazioni economiche sistematiche da parte di uno o più Paesi in su un altro. Le varie azioni possono essere di diverso tipo: non vendere al Paese aggredito le materie prime, l’energia, le forniture tecnologiche di cui ha bisogno, creare “cartelli offensivi” destinati a far lievitare i prezzi di determinati prodotti, come fu attuato dall’OPEC nel 1973; proporre la vendita di determinati prodotti in regime di concorrenza sleale; utilizzare in modo discriminatorio il contingentamento fisico dei diritti doganali o degli ostacoli non tariffari (regolamenti tecnici o sanitari); favorire la creazione di mercati pubblici riservati a imprese nazionali e a certe attività dei monopoli, che favoriscono gli Stati più

forti nei confronti del Paese più debole, che vedrà nello stesso tempo compromessa la sua capacità di formulare una politica di potenza, la sua stabilità e la sua coesione interna (Jean, 2012, cit.).

Stato, territorio e ricchezza: sistema-paese e competitività

In passato, in economia dominava una politica difensiva, che era propria del mercantilismo, del protezionismo e dell’autarchia. Il territorio dello Stato e le dimensioni del mercato erano per lo più coincidenti. Adesso, gli Stati sono rimasti territoriali, mentre il segmento più ricco della popolazione, quello che un tempo aveva costituito l’ossatura degli Stati nazione moderni, è diventato nomade. La competitività, cioè la produttività relativa del sistema Paese, sta diventando una componente strutturale del nuovo contratto politico e sociale fra ogni Stato e i suoi cittadini. L’ossatura della competitività del sistema Paese è basata sulle “dotazioni di ambiente”, che costituiscono economie esterne alle imprese, in grado di renderle più attraenti. Basti pensare alle infrastrutture e ai servizi, alla formazione professionale alla ricerca e allo sviluppo, alla correttezza e trasparenza della pubblica amministrazione all’efficienza anche in termini temporali della giustizia civile; all’intelligence economica, al basso costo dell’energia ed altro (Jean, 2012, cit.).

Geofinanza

Prima degli anni Settanta, con l’esplosione del processo di liberalizzazione e di deregolamentazione, iniziato nel Regno Unito con la Tatcher e negli Usa con Reagan, esisteva un forte collegamento fra la finanza e l’economia reale. La moneta era uno strumento di scambio e di riserva al servizio dell’economia. Adesso, le cose sono cambiate tenendo conto dei derivati e dei features e assimilabili, le attività finanziarie complessive sono diventate pari a 12-15 volte il Pil mondiale. Gli Stati, pertanto, non sono in grado di resistere a massicci attacchi se non con iniziative concordate a livello globale; la finanza si è dissociata dall’economia, permettendo massicci fenomeni speculativi anche sui debiti sovrani. La de-materializzazione e la virtualità dei features hanno contribuito alla deterritorializzazione della ricchezza e, quindi, all’erosione della centralità degli Stati e del primato della politica; inoltre, hanno anche determinato l’idea che la finanza sia più importante e remunerativa delle attività produttive. Tutti sono consapevoli della centralità che gli accordi di Bretton Woods avevano attribuito al dollaro e ai vantaggi che tale privilegio determinava (e tuttora determina) a favore degli Usa; tale vantaggi si accentuarono dopo il 1971, quando fu abolita la convertibilità del dollaro in oro, e gli Usa ebbero la possibilità di finanziare i loro debiti commerciali e di bilancio stampando moneta e titoli di Stato. Non ci si poneva praticamente l’interrogativo sulla possibilità che una grande potenza come gli Usa, potesse continuare a essere in deficit. La liberalizzazione delle economie propria del Washington Consensus, a cui si ispirano gli

interventi del FMI e della Banca Mondiale, nonché l’informatizzazione, hanno contribuito ad erodere il potere degli Stati sulla gestione della finanza e sull’economia. Si è spezzata la catena tra Stato, territorio e ricchezza che esisteva non solo nelle società agrarie, ma anche in quelle della prima rivoluzione industriale. La Geofinanza sta caratterizzando la politica del XXI secolo; attraverso la guerra delle monete, l’impiego aggressivo dei fondi sovrani, le speculazioni sui debiti pubblici, il controllo delle agenzie di rating, la manipolazione dell’informazione, e così via, essa determina potenza e ricchezza delle Nazioni o, viceversa, ne decreta il declino. Gli interventi sono difficili e molto contestati, perché esiste un risentimento diffuso nei confronti dei responsabili del sistema finanziario, cui viene attribuita la colpa della crisi. Risentimento accresciuto dal fatto che le banche sono riuscite a far socializzare le loro perdite, mantenendo utili elevati e ingiustificati livelli retributivi per i loro dirigenti, oltre a opporsi a ogni forma di regolamentazione, anche con ritorsioni quali la contrazione del credito alle imprese e alle famiglie, che i Governi centrali non riescono a neutralizzare.

Geonergia

Nonostante gli investimenti nelle energie alternative, che coprono poco meno del 3% del fabbisogno energetico mondiale, le fonti fossili, come petrolio, carbone e gas, almeno per un altro secolo abbondante rimarranno fondamentali sia per l’uso industriale sia per gli usi civili, grazie anche ai nuovi processi di urbanizzazione, che vedono vasti segmenti di popolazione spostarsi dalle campagne alle città. L’energia nucleare può essere applicata per scopi industriali, così come l’idroelettrica, la più pulita in termine di produzione; ma esse non potranno mai sostituirsi al petrolio, se non altro indispensabile per i trasporti. Se l’energia nucleare è quella che crea meno conflitti dal punto di vista Geopolitico, tra Paesi produttori e Paesi importatori, in quanto non esiste un cartello di produttori, è sicuramente la più pericolosa per potenziali incidenti. I casi di Cernobyl (1986) e di Fukuscima (2011) ne sono un esempio. Il petrolio ed il gas continueranno invece ad esser motivo di tensione tra gli Stati: il primo, per quanto riguarda il suo consumo e le sue riserve ancora disponibili, che spesso, per le sue cifre talvolta gonfiate, sono motivo di battaglia sia per gli ambientalisti che per i produttori; il secondo, perché si potrebbero creare tensioni tra Paesi produttori, Paesi di transito degli oleodotti e Paesi importatori. L’Europa ne è un classico esempio: la sua dipendenza sia dalla Russia che dall’Algeria potrebbe creare tensioni anche all’interno degli stessi Stati europei; la stessa Cina importa notevoli quantità di gas dalla Russia, per cui è auspicabile che i rapporti tra questi due paesi, insieme a quelli con l’Iran, ma anche col Canada e col Venezuela, grandi produttori sia di petrolio che di gas, siano più che buoni. Anche i problemi legati all’alimentazione sono strettamente legati a quelli energetici, poiché, nelle società industriali,

il consumo di carne in continuo aumento, nonostante che da più parti se ne condanna il consumo, necessita di una crescente disponibilità di energia, così come per la produzione agricola. Da questo punto di vista, paesi come la Cina o l’Arabia Saudita, che hanno grossi deficit di produzione agricola legati alla numerosità della popolazione o all’asperità del territorio desertico, prendono in affitto terreni agricoli dagli Stati che ne hanno invece grandi disponibilità, come ad esempio il Brasile o l’Ucraina. Se nel caso economico e finanziario la Geopolitica ha diminuito la sua influenza, nel caso delle risorse energetiche e alimentari disponibili, con i relativi problemi ambientali collegati (cambiamenti climatici, disastri idrogeologici), si assiste, al contrario, ad una sua rivincita, ma pertanto anche della geografia determinista, che vede i disagi delle popolazioni influenzati prevalentemente dai fenomeni geografici più che dall’avidità politica.

Geopolitica e ambiente

Il caso più studiato dalla Geopolitica rivolta alla questione ambientale è quello dell’effetto serra, relativo ai cambiamenti climatici e dell’atmosfera. Le Nazioni Unite, tramite Organismi politici ad essa associati, presentano annualmente Rapporti sull’ambiente. Da alcuni studi pubblicati, sembra che la temperatura media del globo, potrà subire un futuro aumento tra gli 1,4 e 5,8 gradi centigradi rispetto ad oggi. Gli esperti dell’ Intergovermental Panel on Climate Change sottolineano come c’è una chiara correlazione tra l’attività umana di produzione, i consumi energetici, l’ incremento della concentrazione di anidride carbonica, e l’ aumento della temperatura media. Anche gli ossidi di azoto e l’ozono sono cresciuti, rispettivamente, del 15% e del 145%, anche se rispetto all’anidride carbonica hanno un tempo minore persistenza in atmosfera. I danni associati ai cambiamenti climatici sono valutati tra l’1 e l’1,5 % del PIL nei Paesi sviluppati e tra il 2 e il 9% nei Paesi in via di sviluppo. E’ importante quindi progettare politiche economiche ed ambientali che tengano conto delle caratteristiche di ogni Paese. Un secondo tema di rilevante importanza è quello relativo alla deforestazione e alla perdita della diversità biologica. Lo sfruttamento eccessivo delle foreste, oltre a danni alla capacità di riproduzione, provoca la riduzione di vaste aree del verde, che costituiscono uno dei principali “serbatoi di anidride carbonica”, in quanto la assorbono. L’altro fenomeno interessa soprattutto i Paesi in via di sviluppo (continuando con questa velocità, spariscono circa 250000 km2 l’anno di foreste, superficie pari quasi a quella superficie dell’Italia). Note sono le cause della deforestazione: l’ampliamento delle terre coltivabili, per far fronte alla crescita demografica e quindi alle necessità alimentari; una domanda sempre maggiore di legname da parte dei Paesi industrializzati e non , che interessano oltre un miliardo di popolazione, in cui il legno per il 90% copre il loro fabbisogno energetico. Questo comporta di conseguenza la perdita della biodiversità, aspetto fondamentale dell’ambiente, soprattutto perché la deforestazione interessa le

foreste tropicali; il rischio idroegeologico, poiché la mancanza di coperture forestali modifica la capacità di scorrimento delle acque superficiali, incrementando l’erosione e squilibrando i bacini idrici; l’aumento dell’anidride carbonica. Purtroppo, il tavolo di discussione sulla deforestazione, instaurato in seno alle Nazioni Unite dal 1995, rimane ancora in una situazione di stallo. Su un altro problema molto importante, anch’esso di natura globale, dell’assottigliamento dello strato di ozono presente nell’atmosfera, di cui sono responsabili Clorofluorocarburi, processo che espone maggiormente alla aggressività dai raggi solari, e che comporta un aumento dei tumori della pelle, anche se questo si sottolinea non è sempre collegato ai problemi dell’ozono. Nel 1987 è stato firmato il Protocollo di Montreal, per la riduzioni di Cfc. Nonostante esistano Problemi legati ai comportamenti dei paesi non firmatari del protocollo, possiamo dire che la riduzione si sta attuando, se pur lentamente. Un altro punto interessante, di carattere non propriamente globale, bensì transnazionale, è quello delle piogge acide, dovute al rilascio di agenti inquinanti di biossido di zolfo e ossidi di azoto, successive alla fase di combustione delle centrali termoelettriche a carbone. L’ex Federazione russa costituisce il principale gruppo di Paesi responsabile delle piogge acide; gli inquinanti acidi, per la loro duttilità, si spostano poi velocemente verso altri Paesi, come quelli europei ad Ovest, più responsabili, che ne subiscono purtroppo le conseguenze.

Dagli anni Settanta ad oggi, sono stati firmati oltre 200 trattati relativi all’ambiente. La più nota conferenza internazionale sui temi ambientali si è svolta a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992. L’obiettivo, purtroppo non raggiunto dalla Conferenza, era quello di stipulare una Carta della terra, che venne sostituita alla Dichiarazione di Rio, un documento purtroppo dai contenuti più politici che ambientali. Un ruolo in negativo, per la mancata applicazione delle clausole, è dovuto all’atteggiamento degli Stati Uniti. Alla Convenzione sui Cambiamenti Climatici si è aggiunto il Protocollo di Kyoto del 1997, per il controllo dei gas serra. Il tema del cambiamento climatico sta diventando e resterà il tema ambientale più importante dalla cui soluzione dipenderà la sopravvivenza della vita sulla superficie terrestre (Jean, 2012, cit.).

Alcune teorie della Geopolitica contemporanea

Fra le principali teorie affermatisi nel dopo guerra fredda che potremo considerare “geopolitiche” merita ricordare quelle della “Fine della storia” di Francis Fukuyama (1992), e dello “Scontro di civiltà” di Samuel Huntington (2000). Il saggio più conosciuto di Fukuyama, La fine della storia, è del 1992, dopo il collasso degli Stati a regime comunista. Secondo Fukuyama, la vittoria del

sistema capitalista avrebbe fornito un paradigma ideologico di riferimento, - la prevalenza dell’economia sulla politica - , ma non sarebbe mai riuscito ad eliminare tensioni, dispute territoriali o conflitti locali per l’egemonia regionale. Dopo gli attentati alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, Fukuyama divenne uno degli Studiosi di riferimento dei Neoconservatori americani. Nel suo pensiero, elabora la tesi che vede la contrapposizione delle forze razionali della tolleranza, del secolarismo e della separazione tra la religione e la politica da un lato, e quella dell’irrazionalismo, rappresentata dai vari fondamentalismi. Huntington invece sostiene, nel suo Scontro di civiltà, del 1993, che la fine della guerra fredda ha riaperto quei conflitti, latenti da tempo, ma rimasti in disparte per la eccessiva polarizzazione legata alla guerra fredda, che se aveva bloccato la conflittualità tra le grandi civiltà e le principali religioni, la sua fine l’avrebbe fatta riemergere. Secondo lo studioso , le principali civiltà da lui chiamate sono: il cristianesimo (cattolicesimo e protestantesimo), l’ortodossia, l’ebraismo, l’Islam, il confucianesimo (che non è una religione ma una regola di vita), il buddismo, l’induismo, la civiltà latino-americana, una non meglio precisata civiltà africana. Tutte le faglie presentano delle considerazioni in parte giuste ed in parte meno legittime. Ad esempio, il modello di economia liberale, che si dava per vincente, insieme al diffondersi della libertà e della democrazia, come sostenuto da Fukuyama e che aveva ispirato in parte la politica di Bush, viene messo in discussione per la crisi economica che, partita dagli Stati Uniti, è andata caratterizzando quasi tutti i principali paesi industrializzati. Le tesi di Huntigton, possono viceversa valere per la crisi, come nel caso dell’ ex Jugoslavia e altre realtà locali, dovute a scontri etnico-identitari. Se purtroppo il conflitto etnico ha influito, come l’instabilità politica, nel caso della guerra al terrorismo islamico, la storia ha dimostrato e dimostra che le civiltà e le religioni, seppur influenzando la Geopolitica e il senso di solidarietà dei popoli e degli Stati, non sono i veri e propri elementi giustamente sulla scena internazionale; la politica e i conflitti continuano ad avere nella ricerca del potere e del prestigio, e nella difesa di interessi economici e materiali la causa più determinante.

Altri due autori di notevole importanza, che seguono una linea geopolitica più tradizionale, sono Zbigniew Brzezinski ed Henry Kissinger. Questi non si concentrano sui fondamenti ideologici quali possano essere la difesa della libertà e della democrazia, o dei valori religiosi e culturali; utilizzano i parametri più classici come le condizioni geografiche, legate al possedimento di risorse economiche, come probabili fattori di tensioni geopolitiche. Brzezinski individua gli “archi di crisi”, che sono il Medio oriente, l’Africa settentrionale e l’Asia centrale, realtà nelle quali possono avvenire forti competizioni per il controllo delle risorse emergenti. Egli, come anche Kissinger, auspica una collaborazione tra le grandi potenze, perché una iper-competizione non gioverebbe a nessuno; né agli Usa, che pur essendo i garanti della sicurezza mondiale per la loro superiorità

strategica, sono una potenza a debito, né alle altre grandi potenze, Russia e Cina, esclusa l’Europa (legata ancora agli Stati Uniti). La Geopolitica moderna non deve infatti prevedere postulati di partenza legati a schemi fissi, come poteva essere durante la guerra fredda, ma deve adattarsi, di volta in volta, alle situazioni contingenti con alleanze a geometria variabile (Jean, 2012, cit.).

La scomparsa delle costanti della Geopolitica classica

La fine della Prima guerra mondiale ha prodotto cambiamenti Geopolitici sostanziali, come il ridimensionamento alle ambizioni tedesche di dominio imperiale, ma anche delle altre nazioni europee che in qualche modo erano state grandi potenze. A dimostrazione di come la Geopolitica fosse influenzata da fattori tanto geografici, quanto sociali e culturali, lo dimostrano i cambiamenti nei confini politici degli Stati sono stati accompagnati molto spesso a cambiamenti istituzionali. Basti pensare alla Germania che dopo aver visto finire la dinastia imperiale e, seppur molto ridimensionata dal trattato di Versailles, diventò la Repubblica di Weimar; agli Stati Uniti, con l’internazionalismo democratico del presidente Wilson, in controtendenza rispetto alle precedenti visioni Geopolitiche che erano rigorosamente isolazioniste, furono determinanti nella sconfitta degli Imperi centrali. Alla Gran Bretagna e la Francia, potenze alleate in Europa contro la Germania, ma avversarie nei tre secoli precedenti nella conquista delle colonie in tutti i continenti, seppur vincenti, uscirono dal conflitto notevolmente ridimensionate. Non meno significativi furono la fine dei grandi Imperi, come quello Austro- Ungarico, che si trasformò in una miriade di piccole repubbliche indipendenti divise secondo una base non etnica, cosa che poi darà luogo a forti tensioni sociali ed etniche; la riorganizzazione dell’unità Ottomana, divisa tra la componente turca, diventata poi una repubblica laica e secolarista, e quella araba, che ancora oggi non conosce una condizione minima di pace; come anche la fine della Russia zarista, trasformata in Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e la “vittoria mutilata” dell’Italia sono esempi di riorganizzazioni Geopolitiche a base non geografica. In Asia invece sicuramente l’emergere del Giappone e la fine dell’Impero Manciù e la nascita della Repubblica Cinese rientrano in un processo di riequilibrio culturale; il fragile equilibrio che ne derivò faceva presagire comunque quei cambiamenti che poi si sarebbero realizzati con l’avvento del fascismo e del nazismo in Europa, con le sue varianti nazionali e dell’imperialismo giapponese in Asia, e che poi portarono alla Seconda guerra mondiale.

Nel secondo dopoguerra, dal 1945 il poi, si cercava di non utilizzare il termine Geopolitica nei rapporti internazionali tra gli Stati, anche se, in realtà, di ciò si trattava. La guerra fredda, sotto la spinta delle ideologie, come quella social-comunista, dovuta alla vittoria dell’Unione Sovietica, nella sua estensione territoriale dei suoi confini sia verso Ovest, sia verso Est, pur pagando un prezzo enorme in termini di vite umane e di perdite economiche notevoli, e gli Stati Uniti, con i

loro ideali di libertà economica, con una economia sempre in crescita ed in espansione, polarizzarono a lungo i rapporti interni ed internazionali dei singoli Stati. L’URSS, in base al protocollo segreto Ribbentrop-Molotov del 1939, per una realtà politica risultò una potenza vincente, annettendosi le Repubbliche baltiche dell’ Estonia, della Lettonia e della Lituania, che entrarono a far parte della Federazione Sovietica. L’Ucraina riuscì a mantenere intatta quella parte della Bessarabia e della Bucovina che precedentemente erano territorio romeno, la Bielorussia si estese invece verso Ovest a danno della Polonia, che a sua volta si espanse nella stessa direzione a danno della Germania. Nella regione del Pacifico, l’URSS conquistò le isole Curili e Sahalin, precedentemente perdute durante la guerra del 1904-05 tra Giappone imperiale e Russia Zarista . In questo quadro gli Stati Uniti si poterono presentare come la potenza vincitrice e come l’unica, grazie alla conservazione delle proprie risorse umane ed industriali, in grado, sempre tutelando i suoi interessi, ad inglobare l’ Europa e parte dell’Asia nella sua sfera di influenza cioè nell’orbita del capitalismo liberale, ad eccezione di Francia ed Italia che mantennero una forte intonazione sociale, mentre i paesi dell’Europa orientale venivano controllati dai vari partiti comunisti locali legati a quello sovietico. Nel 1949 anche la Cina riusciva, dopo una lunga guerra civile, a diventare una Repubblica popolare, ostile a quella sovietica, a dimostrazione che nell’ambito Geopolitico, quando gli interessi nazionali, anziché convergere si scontrano, il collante ideologico e politico passa in secondo piano. Negli stessi anni, la Guerra fredda trovava il suo apice nella guerra di Corea (1950-53), che portò alla divisione tra la Corea del Nord e quella del Sud lungo il 38° parallelo.

Dopo il termine Geopolitica non viene più usato fino alla fine degli anni Settanta, quando, finita la guerra del Vietnam, ne inizierà un’altra a bassa intensità, che coinvolgerà la Cina popolare e lo stesso Vietnam socialista. Due potenze espressione della stessa ideologia, in questo caso quella comunista, arrivarono a risolvere controversie territoriali, in questo caso il controllo del fiume Mekong, tramite una guerra. Lo stesso termine guerra a bassa intensità verrà poi utilizzato per indicare la sanguinosa guerra tra Iraq e Iran (1980-88), per il controllo dello Shal-al-Abbat e il suo delta nel golfo Persico, e tra Iraq e Kuwait (guerra del Golfo del 1991). Nel frattempo, dopo la disfatta dell’Urss in Afghanistan (1979-1989), i maggiori cambiamenti si ebbero con la caduta del muro di Berlino che portò al crollo dei Paesi europei orientali a regime socialista legati al Patto di Varsavia, Paesi che subirono rivolgimenti sia geografici che politici. Tali cambiamenti ebbero il culmine drammatico con la crisi della ex Jugoslavia. A fronte di questi nuovi assetti in Europa, alcuni continenti, come l’Asia, iniziarono a conoscere uno straordinario progresso, mentre altri, come l’Africa, con le dovute eccezioni, registravano in qualche addirittura una regressione. Purtroppo la popolazione dei Paesi in via di sviluppo e sottosviluppati sta aumenta sempre notevolmente, così da tardare l’aumento del benessere e del miglioramento complessivo delle

condizioni di vita, riconfermando il presagio delle idee di Malthus che vedevano nello squilibrio dei beni offerti dalla terra e la crescita della popolazione mondiale una delle cause del non sviluppo.

Comunque le idee della Geopolitica classica, ancorché se importanti, vengono rimesse in discussione dalla nuova configurazione mondiale, dovuta a vari motivi, quali la crescita della democrazia negli Stati, che costringe la politica alla prudenza, cosa che invece nell’anteguerra non era considerata, in quanto veniva data per scontata la sottomissione incondizionata dei popoli; il ridimensionamento del determinismo geografico, dovuto ai progressi della scienza e della tecnica, che hanno in parte permesso la indipendenza del genere di vita e delle nuove culture dalle condizioni geografiche, svincolo che oggi sta portando a dei comportamenti omogenei in quasi tutte le parti del mondo; l’aumento della potenza degli arsenali di guerra (sia delle armi atomiche che razzi balistici), che riducono se non annullano l’influenza della estensione e della configurazione geografica, in funzione strategica e difensiva, di un territorio.

A tutto questo poi si è aggiunta recentemente una maggiore coscienza civica, che ha permesso di capire, come le guerre su larga scala, porterebbero, in virtù della potenza degli armamenti, ad una distruzione reciproca. I conflitti, adesso, sono prevalentemente locali e a bassa intensità; gli eserciti ipertecnologici dei Paesi più avanzati, dopo un iniziale intervento per risolvere i contenziosi politico-territoriali, lasciano poi il controllo delle risorse non più ai militari, che hanno finito il loro ruolo, se non in qualche rara eccezione, bensì a compagnie private pagate che ignorano ogni etica, per cui viene meno il ruolo strategico del territorio, e si ignora come i diritti di sfruttamento di una determinata risorsa in uno spazio definito non si conquistano più con la forza, ma vanno negoziati avendo presenti la necessità delle popolazioni che vivono in queste realtà solo “ipocritamente” democratiche.

 

di Giulio Tiradritti

 

 

Il rischio di implosione del Pakistan

Valutazione attuale:  / 0

Lo sviluppo in Pakistan di movimenti politici estremisti, di gruppi di guerriglieri armati e le forti contraddizioni che caratterizzano questo Paese sono da ricercarsi probabilmente nelle lotte interne e nella continua ricerca di un'identità nazionale che hanno contraddistinto la sua storia fin dalla nascita. Le contaminazioni straniere hanno fatto del Pakistan un contenitore di culture, dando origine ad un Islam frazionato. Nonostante la maggior parte della popolazione sia sunnita è un Paese fortemente pervaso di ideologia sufi e di una fede popolare con cui la politica ha sempre dovuto fare i conti. Fino al 14 luglio 1947 quella che ora è la Repubblica Islamica del Pakistan faceva parte dell'India britannica, ne costituiva per meglio dire i territori periferici, gli 'stati cuscinetto'. In queste aree, vista la maggior distanza dai centri amministrativi, si vennero a sviluppare i movimenti di rivolta verso l'induismo e qui le invasioni di popolazioni turche, arabe, afghane e persiane ebbero un carattere coloniale, determinando sia la diffusione che la particolarità dell'Islam che tutt'ora caratterizza il Paese, la popolazione preferì identificarsi con i colonizzatori stranieri piuttosto che con l'induismo, che rifiutavano in quanto 'sfruttatore, disumano e razzista'. La teoria delle due nazioni viene formulata per la prima volta dal poeta e filosofo Muhammad Iqbal nel 1930, periodo in cui il mondo arabo è pervaso da un forte fermento nazionalistico, un'ideologia basata sulla tesi che le nazioni arabe sono accomunate da una base linguistica, culturale e dal comune passato storico e che propone la separazione tra lo Stato e la religione e in alcuni casi la creazione di un solo Stato arabo (panarabismo).

Inizialmente il movimento si limita alla richiesta di una maggiore autonomia all'interno dell'Impero Ottomano e ad un uso maggiore della lingua araba in ambito istituzionale ma dopo il crollo dell'autorità ottomana diviene un forte mezzo per contrastare la colonizzazione europea. L'idea della creazione di uno Stato pakistano prende forma solo alcuni anni dopo, quando la Lega Musulmana si rende conto che in un'India a maggioranza indù la minoranza musulmana avrebbe avuto poche possibilità di essere rappresentata e tutelata. L'allora presidente della Lega, Muhammad 'Aly Jinnah spinto anche dalla credenza che solo lo Stato possa esprimere e proteggere l’identità dei popoli' e scontrandosi con la teoria pan-indiana portata avanti da Ghandi, annuncia la volontà di dar vita a uno Stato separato che avrebbe avuto una forma di governo democratica in cui la religione sarebbe stata relegata alla sola sfera privata, come da lui stesso pronunciato durante il discorso ufficiale: "Vedrete che nel corso del tempo gli indù cesseranno di essere indù e i musulmani di essere musulmani, non in senso religioso, perché quella è la sfera personale di ogni individuo, ma in senso politico, in quanto cittadini dello Stato". Queste affermazioni non trovano ovviamente il consenso dell'intera popolazione musulmana. Alla 'partition' si oppongono tutti gli ulama, che vi vedono il disfacimento della umma e considerano inoltre gli esponenti della Lega troppo 'occidentalizzati' per poter dare vita a un sistema che rispetti i precetti islamici. Particolarmente avverso alla divisione dei due Stati è Abu al Maududi, un neo-fondamentalista leader della Jama-at-i islamy (Lega Islamica, JI). Il pensiero neo-fondamentalista, che si rifà alla dottrina Wahhabita saudita, sostiene la teoria dell'unicità di Dio e prevede il totale rispetto della shari'a a cui vengono sottomessi tutti gli aspetti della vita del credente. È necessaria la ricostruzione di una comunità come quella che vigeva ai tempi di Muhammad e dei Califfi 'ben guidati'.

Il neo-fondamentalismo si discosta dalla dottrina classica per la riapertura all'uso dell'ijtihad, sostenendo che nel messaggio di Dio, una volta ripulito di tutti i 'cavilli medievali', si possono trovare le risposte di cui ha bisogno l'uomo moderno, senza cercarle quindi al di fuori della propria religione. È una via radicale di opposizione alla modernizzazione della vita sociale e politica che si adegui al modello occidentale, estraneo alla tradizione. Al Maududi accetta inoltre parzialmente il sistema democratico: Dio delega la propria sovranità al popolo, che a sua volta la delega a un capo supremo. Il modello di Stato voluto da al Maududi si può definire quindi come una 'teodemocrazia', cioè una 'limitata sovranità popolare sotto la sovranità di Dio' Il suo programma avrebbe potuto essere di forte contrasto ai nazionalisti, questi però non ha il tempo di presentarlo e di riscuotere abbastanza consensi a causa della repentina decisione della Gran Bretagna di concedere l'indipendenza all'India, viste le sempre maggiori tensioni all'interno del Paese e tra la Lega Musulmana e il Congresso Nazionale Indiano. La divisione dell'India porta così alla nascita del nuovo Stato ma non mette fine ai contrasti tra i due Paesi. Il Pakistan si trova diviso in una parte occidentale ed una orientale, separate dal Bengala indiano; ad aggravare ulteriormente la situazione c'è il problema del Kashmir, una regione a maggioranza musulmana il cui sovrano è però indù. La 'questione del Kashmir' sarà il motivo principale che determinerà la profonda inimicizia tra i due Stati e che li porterà in guerra già nel 1947.

Dopo la spartizione dell'India la Jama-at-i islamy sposta la sua sede in Pakistan e al Maududi si professa come uno dei massimi sostenitori della nascita del nuovo Stato, sostenendo che questo: 'è stato ottenuto esclusivamente con l'obbiettivo di diventare la patria dell'Islam'. Il suo programma comincia a realizzarsi dal 1956, anno in cui viene adottata la Costituzione e il Pakistan diventa una 'repubblica islamica'; da questo momento in poi i golpe militari e le dittature che segneranno i suoi governi porteranno il Paese sulla strada del fondamentalismo. La legge marziale viene proclamata già nel 1958 dal primo presidente Mirza Iskandar con l'intento di introdurre poi una nuova Costituzione che fosse più 'adeguata' al popolo pakistano, secondo lui inadatto alla democrazia. Il presidente viene però deposto con un colpo di stato dall'allora Capo di Stato Maggiore Muhammad Ayub Han, che cerca sia di reintrodurre la Costituzione sia di limitare l'influenza degli esponenti conservatori e fondamentalisti ma la pressione degli 'ulama è troppo forte. Il settore religioso prende sempre più piede, la Jama-at-i islamy appoggia e giustifica il jihad in Kashmir. La religione sta acquistando nuovamente un ruolo centrale nella politica pakistana. È per contrastare il regime di Ayub Han che nel 1968 'Ali Bhuttu fonda il Partito Popolare Pakistano (PPP), un partito laico dichiaratamente ‘socialista e islamico'. Bhuttu vince le elezioni nel 1971 e durante il suo governo introduce nel Paese notevoli innovazioni e una nuova Costituzione; è anche il primo presidente ad appoggiare la religione ‘popolare' tenendo conto della situazione della maggior parte della popolazione. L'esito però non sempre positivo delle sue riforme e la forte opposizione dei conservatori lo spingono a ridimensionare il proprio programma politico nella seconda metà degli anni '70, concedendo sempre maggiori favori al settore religioso.

La politica estera è segnata dall'inizio della storica amicizia con la Cina. Da tempo Bhuttu mira all'avvicinamento all'Impero e l'occasione gli si presenta in seguito allo scoppio del conflitto tra la Cina e l'India riguardante la definizione dei confini: approfittando di questa situazione stipula con la Cina un accordo in cui il Pakistan cede ai cinesi parte dei territori del Kashmir confinanti con l'Aksay Chin in cambio di una porzione di terreno sul Karakorum, infliggendo un nuovo colpo all'India. Il governo Bhuttu significa per il Pakistan anche l'inizio del programma nucleare militare. La decisione di dotarsi dell'atomica, la cui motivazione principale è la radicata rivalità nei confronti dell'India, viene presa in seguito della guerra indo-pakistana del '72. Il Presidente fonda la Pakistan Atomic Energy e dà ai sui scienziati tre anni di tempo per consegnargli la Bomba, sapendo di poter contare sugli aiuti di Cina, Corea del Nord, Arabia Saudita e Libia. La proliferazione nucleare si svilupperà negli anni seguenti, appoggiata da tutti i suoi successori e dalle potenze straniere. Nel 1977 un nuovo colpo di stato porta definitivamente il Pakistan ‘all'islamizzazione'.

Il comandante Zya-ul-Haq, braccio destro di Bhuttu, prende il comando servendosi dell'appoggio e della collaborazione della Jama-at-i islamy (di cui è un simpatizzante). Il programma di islamizzazione di Zya ha inizio da subito con l'epurazione degli organi statali, soprattutto dell'esercito e dei Servizi Segreti (ISI) e l'estensione della legge marziale; sostituisce i governatori delle province con uomini a lui fedeli in modo da avere il pieno controllo di tutte le aree pakistane, anche delle zone di confine e poter facilmente reprimere le insurrezioni derivate dallo scarso consenso delle masse al suo governo, dovute soprattutto alla durezza delle pene adottate. Questo risentimento popolare, unito alla convinzione che Zya se ne serva solo per accrescere e incentrare il suo potere, gli oppone la dirigenza della Jama-at, principalmente del ramo che era venuto a formarsi in Arabia Saudita, convinto che Zya screditi in questo modo il partito. Inoltre i tentativi del governo di trovare maggiori consensi nella popolazione lo spingono ad appoggiare anche l'islam ‘popolare', a cui la Jama-at è ovviamente avversa per timore di una contaminazione della sua purezza ideologica. Deve invece appoggiare i tentativi di opposizione di Zya al PPP (culminati con l'impiccagione di Bhuttu nel 1979), messi in atto attraverso dei tentativi di riunificazione della Lega Musulmana e la stretta di alleanze con i vari partiti islamici e con la Jama-at stessa.

La legge sharaitica entra in vigore ufficialmente il 10 febbraio 1979. Per evitare una rivolta della popolazione, che aveva accolto con gioia la Costituzione introdotta da Bhuttu e considerata come definitiva, Zya non la sostituisce ma la amplia continuamente di nuove clausole 'islamiche'. Porta inoltre avanti la riforma che tocca i settori dell'istruzione, con l'obbligo dello studio dell'islamistica almeno fino alla maturità; della giustizia, con la creazione di un ‘tribunale federale sharaitico' e il settore della finanza, dove Zya reintroduce la zakat e l'ushr. Il governo cerca nell'Islam un fattore di coesione nazionale ma la centralizzazione del potere, che non rispecchia tutti i gruppi etnici presenti, e la durezza con cui lo legittima aumenta le tensioni etniche e regionali nel Paese. La volontà poi di fare del Pakistan un centro di 'protezione dell'ideologia islamica' e di aumentarne l'importanza strategica e il prestigio mondiale ha influito anche sulle scelte di Zya in politica estera, soprattutto per quanto riguarda il ruolo che il Paese avrà nella campagna anti-sovietica in Afghanistan negli anni '80. Dopo l'invasione dell'U.R.S.S. gli U.S.A. firmano degli accordi per garantire ai mujahiddyn sostegno economico e militare, finanziato principalmente con il commercio di oppio proveniente dall'Afghanistan. Il Pakistan sarà la base di queste operazioni, dove vengono costruiti campi di addestramento e di reclutamento, l'ISI (i servizi segreti pakistani) il mediatore. Anche l'Arabia Saudita, interessata da sempre a espandere il proprio potere ideologico e politico, si schiera con i guerriglieri, il MAK di Osama bin Laden ne è il principale finanziatore, invia ai mujahiddyn armi, denaro e uomini.

I profughi afghani che attraversano il confine pakistano vengono accolti nelle madrasa, le scuole coraniche, che si sono moltiplicate durante il governo Zya: nel 1947 erano 137, nel 1988 sono diventate ormai 3.000. I cambi della guardia alla guida del Pakistan non cambiano le cose. Zya è morto in un misterioso incidente aereo nell'88, le elezioni successive vengono vinte, per la prima volta in modo democratico, da Benazir Bhuttu che aveva preso la guida del PPP dopo la morte del padre. Sposata ad Asif Zardary copre la carica di Primo Ministro da 1988 al 1990 e dal 1993 al 1996, alternando il proprio governo a quello di Nawaz Sharyf (fino al 1999). I continui cambi della guardia sono dovuti al fatto che puntualmente il Presidente della Repubblica dimette i ministri accusandoli di corruzione, opinione peraltro condivisa dalla maggior parte della popolazione visto che Zardari usa ormai il suo nome per ottenere favori e tangenti, trasformando il PPP in 'una macchina per far soldi'.

Dopo la caduta della Repubblica Democratica Afghana le lotte tra le fazioni di mujahiddyn hanno fatto piombare il Paese in una guerra civile alimentata dal narcotraffico e dalla mafia dei trasporti. Il Pakistan, gli U.S.A. e l'Arabia Saudita sono interessati a ripristinare l'ordine perché la precarietà che ora caratterizza l'Afghanistan intralcia i programmi di sfruttamento delle risorse di gas naturali e petrolio del Mar Caspio, che devono arrivare nel Golfo Persico attraversando l'Afghanistan. Il Pakistan inoltre vuole creare un governo afghano sottomesso a Islamabad, cerca profondità strategica e protezione in caso di un attacco indiano. Bisogna trovare un modo per ristabilire l'ordine. L'ISI pensa allora di ‘utilizzare' tutti quei profughi che sono rifugiati nelle madrasa lungo il confine pakistano. Con il sostegno economico di Washington e dei sauditi all'insegnamento religioso dei mullah si affianca l'addestramento militare. Nascono così i taliban, gli ‘studenti'. Più legati alle antiche ideologie pashtun che ai principi coranici, viene fatto loro credere di essere il fondamento per la creazione di una vera società musulmana. La loro ascesa è rapida, in un Paese spossato dalla guerra i taliban si presentano come i portatori dell'ordine, i combattenti in nome di Dio.

Fondamentali sono il sostegno economico garantito dall'ISI che, oltre a essere il tramite per i finanziamenti provenienti dagli stati alleati, offre loro denaro per transitare attraverso i territori che controllano e accordi sui guadagni derivanti dal mercato nero e dal futuro gasdotto; e il sostegno delle tribù pashtun, componente principale dei taliban, che essendo stanziate lungo il confine favoriscono i passaggi e le comunicazioni tra l'Afghanistan e il Pakistan. Quando nel 1893 si stabilì la linea Durand, i 2640 km di confine che separano i due Stati, non si tenne conto delle tribù che abitavano quell'area, che vennero in questo modo separate tra Pakistan e Afghanistan. Molto più legati a vincoli di appartenenza etnici che nazionali i pashtun non si sentono appartenenti a nessuno dei due Stati ma al Pashtunistan, tanto da non riconoscere la legittimità del confine. La presa di potere dei taliban restituirebbe poi all'etnia un ruolo di primo piano nella politica nazionale, dopo anni di governo tagiki.

Nel 1996 i guerriglieri, guidati dal mullah 'Omar, danno vita all'Emirato Islamico Afghano avendo ormai il pieno controllo sulla quasi totalità del Paese, ad eccezione dei territori settentrionali nelle mani dell'Alleanza del Nord. Questa, alla cui guida c'è Ahmad Shah Massud, si era formata dopo l'unione di diversi partiti coalizzati per opporsi al regime taliban e si era ritirata, dopo la presa di Khabul, nella valle del Panjshir. Nonostante controlli solo il 10% del Paese la coalizione è riconosciuta dalla maggior parte dell'opinione pubblica mondiale come il vero governo afghano. I taliban impongono un regime di stretta osservanza della legge sharaitica, istituiscono la polizia religiosa e mettono al bando tutte le forme di spettacolo e di gioco, compreso il volo degli aquiloni. Prescrivono leggi sul codice di abbigliamento e assolute restrizioni alla vita delle donne e in seguito alle pressioni dell'agenzia antidroga dell'ONU dichiarano illegale la coltivazione dei papaveri da oppio, facendo schizzare alle stelle il prezzo della droga. Due anni dopo l'insediamento del regime salta l'accordo con gli Stati Uniti per la costruzione del gasdotto; ora il progetto, gestito da una compagnia petrolifera saudita, riguarda Afghanistan, Pakistan e Turkmenistan. In questo periodo la situazione del Pakistan è disastrosa, l'appoggio al regime e le offensive in Kashmir gli sono costate l'isolamento sulla scena politica oltre che un notevole impegno economico; l'interno è segnato da conflitti e lotte per il potere, le istituzioni corrotte, l'economia in crisi.

Il generale Musharraf, convinto che solo la forza militare possa salvare il Paese, il 12 ottobre 1999 prende il potere in seguito ad un colpo di Stato dichiarando le sue intenzioni di riformare e depurare le istituzioni, sviluppare l'economia, migliorare l'istruzione. I militari ora al potere sono però gli stessi che gli anni prima avevano condotto le operazioni in Kashmir e Afghanistan, rinnegare questa politica porterebbe notevoli rotture interne, soprattutto a livello della Jama-at, oltre che la perdita di potere politico. E questo è un freno alle riforme previste dal generale. Il mancato accordo per il gasdotto ha incrinato i rapporti con gli Stati Uniti che tra il 1999 e il 2000 si schierano contro il regime taliban accusandolo di terrorismo. L'alternativa al pagamento delle sanzioni è, per l'Afghanistan, la consegna di Osama bin Laden. Richiesta che non viene accettata.

Bin Laden nel 1996 aveva pubblicamente lanciato il jihad contro gli Stati Uniti, rei di aver occupato il territorio sacro saudita. Durante la Guerra del Golfo, infatti, la dinastia regnante, preoccupata di un possibile attacco di Saddam Husseyn che aveva già invaso il Kuwait, aveva concesso agli U.S.A. di costruire delle basi militari sul proprio territorio. Questa decisione venne fortemente criticata da Bin Laden e gli costò l'espulsione dal Paese. Si rifugiò allora prima in Sudan e successivamente di nuovo in Afghanistan, dove si strinsero i rapporti tra al-Qaeda e il mullah 'Omar. Negli anni precedenti al-Qaeda aveva colpito diversi obbiettivi americani in tutto il mondo ma gli attacchi terroristici che l'11 settembre 2001 sconvolgeranno l'America modificheranno le alleanze e i rapporti tra gli Stati coinvolti. L'11 settembre 2001 al-Qaeda attacca gli Stati Uniti colpendo obbiettivi civili e militari. Tre voli vengono dirottati contro le Torri Gemelle e il Pentagono, l'aereo diretto contro la Casa Bianca precipita invece in Pennsylvania. Il presidente George W. Bush dichiara allora di voler impedire lo sviluppo di altre cellule jihadiste e per questo tutti gli Stati che ospiteranno terroristi saranno puniti con sanzioni o con invasioni militari.

Gli attentati vennero condannati da tutti gli Stati ad accezione dell'Iraq, a detta del ‘Dr. Fadl' (guida del jihad egiziano) anche i taliban sarebbero stati contrari agli attacchi per il modo in cui questi vennero eseguiti. Lo jihad è prima di tutto uno 'sforzo' interiore sul sentiero di Dio. La lotta armata serve solo come autodifesa e in ogni caso implica delle regole: le ostilità devono essere precedute da un chiaro invito alla conversione, non va attaccato o ucciso chi non ti ha nuociuto, non bisogna infliggere al nemico più danni di quanti non siano necessari, non si uccidono donne, bambini e anziani, vanno evitate tutte le forme di crudeltà (torture, sequestri, maltrattamenti) e di danneggiamento. Dopo l'11 settembre Bush firma il Patriot Act e lancia un ultimatum ai taliban, avrebbero dovuto consegnare agli Stati Uniti Bin Laden e i membri di al-Qaeda, chiudere i campi di addestramento e liberare tutti i prigionieri stranieri oltre alla richiesta fatta all'ONU di imporre delle sanzioni all'Afghanistan, sanzioni che avranno il risultato di mettere in ginocchio una popolazione già stremata che viveva ormai solo di aiuti esteri. All'ennesimo rifiuto, il 7 ottobre 2001, gli U.S.A. e la Gran Bretagna danno inizio a quella che viene denominata 'operazione Enduring Freedom', attaccano l'Afghanistan con l'intenzione di rovesciare il regime.

L'appoggio ai taliban viene a mancare anche da parte dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, solo il Pakistan continua a sostenerli finché gli Stati Uniti impongono un aut aut: o con loro o contro di loro. Musharraf non ha scelta, si schiera dalla parte degli americani soprattutto per motivi di convenienza, avrebbe avuto un supporto militare ed economico da reinvestire nel nucleare e nella lotta all'India. Teme inoltre di inimicarsi Washington che avrebbe a quel punto supportato l'India e teme anche che lo stesso Pakistan diventi oggetto della campagna antiterroristica. Bush punta allora tutto su Islamabad, ritenendo l'alleanza del Pakistan fondamentale nella lotta al terrorismo tanto quanto lo era stata per la repressione sovietica in Afghanistan. Musharraf risponde interrompendo qualsiasi tipo di finanziamento a soggetti sospettati di avere rapporti con al-Qaeda.

L'intervento americano, unito ai primi segni di conflitti all'interno del regime, permettono all'Alleanza del Nord di riconquistare velocemente terreno, a dicembre riprende il controllo di Kabul determinando la ritirata dei taliban. Gli alleati guidano la ricostruzione dello Stato ponendo alla sua guida Hamid Karzay ma la popolazione civile non condivide l'azione americana, lotta contro i fondamentalisti appoggiando altri fondamentalisti, l'alleanza del Nord viene infatti più volte denunciata da diverse associazioni perché non rispetta i fondamentali diritti umani. Dopo l'intervento americano i militanti di al-Qaeda e i taliban si ritirano dai loro villaggi per rifugiarsi nella aree tribali a maggioranza pashtun al confine tra Pakistan e Afghanistan denominate FATA (Federally Administered Tribal Areas) con lo scopo di riorganizzarsi e riarmarsi.

FATA è tra le zone più povere e più 'calde' del Paese, una regione semi-autonoma di fatto amministrata dal Governo Centrale ma praticamente gestita dalle tribù pashtun da quando, nei primi anni '50, il governo ritirò l'esercito; regione dove inoltre vige ancora la legislazione adottata durante il periodo coloniale, codificata in una struttura denominata FCR (Regole dei Crimini di Frontiera) e dove la giurisdizione si rifà al codice tribale pashtun basato sull'onore, sull'ospitalità e sul diritto di vendetta. Nonostante la quasi totalità della popolazione di FATA sia simpatizzante di al-Qaeda Musharraf non si può permettere di rallentare l'operazione antiterrorismo per timore di inimicarsi gli Stati Uniti, dà quindi inizio in quest'area all'operazione ‘al-Mizan' che ha anche lo scopo di riaffermare la presenza dello Stato in zone abbandonate ormai da decenni. La manovra vede il dispiegamento sul territorio di 85.000 truppe, tra le quali anche i Corpi di Frontiera, le forze militari locali, la cui presenza non è però così concreta, sia perché fortemente legate alla popolazione, sia perché poco armate e motivate da Islamabad e Washington che non le considerano capaci. Ulteriori problemi derivano dal fatto che non si tiene conto della complessità geografica del territorio.

Il terreno della zona di FATA infatti è aspro e secco ed è caratterizzato da fratture e avvallamenti, questa conformazione viene sfruttata dai militanti che si insediano nei bacini, dove posso trovare ‘ospitalità' da 12 a centinaia di persone. Sono insediamenti isolati, le vie di comunicazione tra di essi costituite da sentieri e strade percorribili solo a soma o con piccoli veicoli motorizzati, spesso inoltre sono strade scavate nella roccia e conosciute solo dai locali. L'isolamento dei villaggi e la difficoltà delle comunicazioni rende difficile per l'esercito controllare gli spostamenti dei taliban, inoltre i legami di sangue tra i clan impediscono agli stranieri di entrare ed operare in queste zone senza essere scoperti. L'operazione dà si come risultato la cattura di circa 700 esponenti di al-Qaeda consegnati poi agli U.S.A. e la dispersione dei militanti all'interno dell'area, cosa che rende più facile la loro cattura vista la difficoltà di comunicazione tra i membri, ma causa anche il loro ritiro in nord e sud Waziristan, dove la popolazione è fortemente pro-taliban. Nel meeting di Camp David del 2003 Bush dichiara che, grazie all'aiuto del presidente Musharraf, i taliban sono stati sconfitti. L'attenzione degli Stati Uniti era in realtà sempre stata rivolta maggiormente alla cattura dei membri di al-Qaeda che ai taliban, ritenuti un problema minore per la sicurezza; ora c'era poi per gli U.S.A. anche il discorso Iraq.

Il Governo pakistano sta però facendo il doppio gioco, se tutte le massime cariche sono concordi nel ritenere che ‘la straniera' al-Qaeda deve essere eliminata da FATA diverso è il parere riguardante i ṭâlibân. Musharraf si trova improvvisamente a dover andare contro a quel movimento che lui stesso aveva creato, inoltre combattere i taliban significa inimicarsi i pashtun, una chiave fondamentale per la politica estera pakistana. La disattenzione degli Stati Uniti durante questi anni ha permesso ai taliban di riorganizzarsi e riarmarsi. Complice della loro capacità di rigenerazione anche il fatto che, nonostante l'ISI e la NATO siano convinte che la roccaforte del movimento si trovi a Quetta, il Pakistan ha sempre volutamente evitato di fermare i leader ma ha arrestato i semplici combattenti; tutto ciò aggravato dalla simpatia che l'ISI, organo non governativo e che quindi può agire di propria iniziativa, ha per gli estremisti e dal fatto che questi si siano ritirati in zone che non sono sottomesse alle leggi governative ma al giudizio del Jirga tribale.

La situazione delle zone di confine viene aggravata poi dalla nuova presenza dei militanti stranieri. Dal 2006 si ha in Pakistan, come in Somalia, Yemen e Iraq, un flusso di aspiranti mujahiddyn utilizzati per agire in loco oppure nella loro terra d'origine. Sono convertiti o occidentali di origine asiatica provenienti principalmente dalla Germania ma anche da Inghilterra, Stati Uniti, Australia e in maniera minore Austria, che si spostano qui per essere addestrati. Il loro tragitto solitamente tocca prima la Turchia, poi l'Iran da dove raggiungono il Beluchistan, aiutati da un mediatore che può fornire loro i documenti, finanziare il viaggio ed accoglierli al loro arrivo seguendoli poi nei primi mesi di addestramento. Il training prevede anche la preparazione all'attacco suicida che è però solo l'ultima parte del piano, in quanto lo scopo principale di un attacco, che di solito avviene in alberghi o luoghi pubblici, è la propaganda, la presa di ostaggi serve a prolungare l'assedio.

Particolarmente attiva è la cellula tedesca che si è riunita in un gruppo chiamato 'Talebani Tedeschi' ed ha stretto poi rapporti con i neo-fondamentalisti uzbeki; i loro attacchi sono stati diffusi via web come azione propagandistica. Lato positivo di questa nuova tendenza è la possibilità di poter infiltrare le organizzazioni vista l'apertura alla collaborazione degli occidentali. La primavera afghana del 2006 è segnata da una ripresa dell'azione taliban, coincidente con la decisione del ritiro da parte degli U.S.A. di buona parte delle truppe. Tutto questo non fa che aumentare l'insoddisfazione degli Stati Uniti e dell'Afghanistan che accusano Islamabad di non voler veramente sradicare il terrorismo. Vero è infatti che il nemico numero uno del Pakistan non sono gli integralisti ma è l'India.

Nonostante i tentativi di Musharraf di far riprendere l'economia, di attuare riforme e di depurare l'ISI dagli elementi più corrotti la sua popolarità comincia a calare. Nelle aree tribali il fondamentalismo è in crescita ed esplodono gli scontri in Waziristan e soprattutto in Beluchistan, una regione fondamentale per la politica pakistana. Il colpo di grazia al Governo Musharraf viene dato dalla vicenda della Moschea Rossa. Da mesi il centro di Islamabad è messo a soqquadro da gruppi di studenti della Lal Masjid, principalmente da ragazze, che compiono retate rivolte a tutto ciò che è troppo occidentale, in segno di protesta contro la demolizione di un'antica moschea cittadina. I due maulana della Lal Masjid minacciano di lanciare gli studenti in attacchi suicidi, il tutto probabilmente con la coordinazione e il supporto dell'ISI. L'esercito riesce con la forza ad entrare nella moschea dopo l'uccisione di uno dei due maulana e l'arresto del secondo ma all'interno non c'è traccia di quello che Musharraf aveva previsto, niente estremisti, niente arsenale. La conta delle vittime arriva però a 500.

Il Paese gli si rivolta contro spingendolo a dichiarare lo Stato di Emergenza, rigettato dalla Corte Suprema. A questo punto gli Stati Uniti, preoccupati per la situazione del Paese, spingono affinché si crei un governo nel quale il potere venga diviso tra la Bhuttu e l'attuale Presidente. Musharraf concede alla leader del PPP la possibilità di una terza candidatura e l'immunità parlamentare in cambio di appoggio politico. C'è anche da dire che il generale ha bisogno di questa alleanza, ormai è al suo terzo mandato e non potrebbe ricandidarsi, inoltre la legge vieta che un Presidente sia anche capo dell'esercito, vincolo che lo costringe a cedere la carica al generale Ashfaq Kayani. Benazir Bhuttu rientra dall'esilio per prepararsi alle elezioni del 2008 ma dopo un comizio tenuto a Rawalpindi, il 27 dicembre 2007, viene uccisa in un attentato. I suoi assassini non saranno mai scoperti, alcuni sospettano l'ISI (e il Governo) altri Zardary, c'è di fatto che venne messa in atto una cospirazione per impedire di trovare i veri colpevoli.

Alle elezioni in partito di Musharraf subisce una netta sconfitta a favore del PPP e del partito di Nawaz Sharyf a cui è stato permesso di rientrare dall'esilio. Il Presidente dà le dimissioni il 18 agosto 2008, a guidare il Paese da allora sarà il vedovo Bhuttu, un uomo indagato per un paio di omicidi e che durante la sua carriera è stato arrestato in seguito a denunce per corruzione, tangenti, traffico di droga, riciclaggio e ricatto. Insomma, come sostenuto da Fatima Bhuttu, ‘in Pakistan le cose non cambiano mai, il potere passa di mano in mano ma tutto rimane come prima'. Le politiche passate, incentrate al militarismo e alle ideologie religiose, hanno fatto del Pakistan uno Stato debole. Il PIL è il più basso tra quelli dei Paesi che possiedono il nucleare, c'è un forte tasso di disoccupazione e di analfabetismo considerato che il governo destina all'istruzione il 2% del prodotto interno lordo mentre le madrasa, secondo una stima del 2003, sono 10.430.

Nonostante il nuovo comandante delle Forze Armate piaccia agli americani l'ambiente è troppo intriso di radicalismo e l'ISI corrotta perché le cose cambino radicalmente. A dispetto del miliardo di dollari che annualmente, dal 2001, gli U.S.A. versano nelle casse di Islamabad, nel 2009 il Governo ha consegnato nelle mani dei taliban la valle di Swat, concedendo l'instaurazione della shari'a in cambio di un cessate il fuoco, durato il tempo degli accordi. La conferma che il leader di al-Qaeda si nascondeva ad Abbottabad, vicino ad Islamabad, è solo la conferma di quanto il Pakistan sia impegnato nella lotta al terrorismo. Il Paese si trova ora, come gli Stati Uniti e la stessa Cina, colpito da quell'organismo che lui stesso ha creato ma che ormai è fuori controllo. I terroristi colpiscono sempre più i centri urbani rispetto alle zone tribali, centri densamente abitati dove si fa forte anche la tensione tra i diversi gruppi etnici e religiosi che li abitano. Ed è forse di questo che la CIA dovrebbe preoccuparsi, prima che la situazione precipiti e le oltre 200 atomiche finiscano nelle mani sbagliate, anche se il governo Pakistano rassicura: sono protette da uomini di 'fiducia'.

 

di Elisa Stabiner (studentessa del Master in Reporting di Guerra, Intelligence e Sistemi Criminali dell'Univ. Pop. di Arezzo)

 

Belgrado e le nuove sfide per il 2020

Valutazione attuale:  / 1

Gli incredibili orari delle compagnie aeree low cost mi impongono di atterrare a Belgrado alle prime ore dell’8 gennaio, quando è appena trascorsa la giornata del Natale ortodosso.

Si avverte subito la sobrietà con la quale la confessione religiosa di maggioranza nel paese celebra questa festività: non c’è alcun addobbo sfarzoso, qualche luminaria fa capolino sulle strade principali, qualche albero spunta qua e là, nulla delle luci e dei colori sfavillanti con le quali le capitali europee cattoliche e protestanti si mostrano nei giorni della natività, anche in tempi nei quali i venti della crisi economica e sociale si abbattono sul vecchio continente.

Il cielo plumbeo, il clima rigido anche se non eccessivamente freddo, con della pioggia mista a qualche timido fiocco di neve, le saracinesche abbassate dei negozi, il traffico scorrevole, fanno avvertire la sensazione di una metropoli grigia ed assonnata.

Il giorno successivo, quando tutto riapre, i belgradesi, che hanno trascorso il breve periodo di ferie fuori, rientrano e le automobili tornano ad intasare le strade, la metropoli riprende il suo ritmo e la sua routine,si riaccendono le luci delle vetrine dei negozi e dei supermercati, Belgrado sembra piombare in una dimensione totalmente diversa, quella di una città animata e coloratissima, pulsante di vita e di passione.

D’altra parte, se gli stravolgimenti politici ed economici che hanno travolto i paesi dell’est europeo a partire dagli anni 80 e che hanno trovato il loro culmine nella caduta del muro di Berlino, hanno ridisegnato totalmente il volto di molte delle loro capitali, Belgrado è stata, sia negli anni del titoismo che in quelli immediatamente precedenti le guerre balcaniche, una città totalmente priva di appeal, completamente tagliata fuori dai flussi turistici internazionali, che invece si riversavano massicciamente su Praga, Budapest ed anche Mosca e San Pietroburgo.Una città che non suscitava nessun interesse neppure tra i forzati visitatori,che dovevano soggiornarvi necessariamente per affari o per altre ragioni.

La Jugoslavia era identificata con le coste della Croazia, le terme e le grotte della Slovenia, il fascino prepotente di Dubrovnic, e, dalla metà degli anni 80 ,il culto mariano di Medjugorie, che ha fatto affluire sulla cittadina bosniaca un flusso ininterrotto di pellegrini. Schiere di cacciatori italiani ed europei erano inoltre attratti dalle numerose ed estese foreste ,la cui ricchezza di selvaggina consentiva di tornare a casa con carnieri stracolmi di prede abbattute. Ben pochi invece consideravano, né tantomeno amavano Belgrado. Certo, qualche visitatore meno convenzionale, più attento e più attratto da mete al di fuori del turismo di massa, ne avvertiva un fascino discreto ma ammaliante, un atmosfera picaresca e sanguigna che solo i film di Kusturica hanno saputo rappresentare con grande efficacia.

Dopo le guerre che hanno portato alla disgregazione della Jugoslavia, il conflitto, ancora non del tutto risolto con la popolazione albanese del Kosovo, culminata con i raid aerei del 1999, che hanno posto Belgrado al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, la capitale della Serbia ha voluto ridisegnarsi, rimettersi in gioco, lottare per ricostruire il futuro . Ed in questo sforzo ha trovato, quale componente fondamentale, la classe giovanile. Sono infatti i giovani la forza più vitale ed entusiasta che ha dato impulso alla trasformazione di Belgrado in una delle capitali europee che stanno conquistando un numero sempre crescente di visitatori, un glamour che prima neppure si sognava.

Belgrado dunque, città di giovani, i veri protagonisti della sua rinascita. Giovani che ne richiamano altri, non solo dalle altre città e paesi della Serbia ma anche dagli altri Stati nati dalla dissoluzione della ex Jugoslavia,giovani che provengono da Sarajevo come da Zagabria, da Pola come da Portorose, oppure da piccoli paesi e villaggi sperduti, vengono qui a trascorrere un fine settimana, una giornata o magari il loro intero periodo di vacanza. E ad accoglierli sono una grande quantità di discoteche, disco bar, taverne che servono le abbondanti grigliate di carne e le zuppe, che rappresentano i piatti più comuni della cucina locale, focaccerie che vendono ottimi panini, i vari Mc Donald’s, qui meglio arredati e confortevoli che altrove, ed anche locali gay e lesbian friendly, che testimoniano il desiderio di scrollarsi di dosso la mentalità poco aperta e socievole delle decadi passate. E tanti ostelli a prezzi economici gestiti a loro volta quasi sempre da ragazzi gentilissimi e sempre pronti a fornire suggerimenti su quanto la città offre a livello di spettacoli e di feste alla moda.

Una gioventù festosa senza essere chiassosa,di bell’aspetto senza dare nell’occhio, elegante e mai trasandata, senza bisogno di indossare abiti firmati e costosi, considerato che il prezzo di un paio di scarpe e di un abito elegante possono equivalere ad un salario mensile.

E che questa gioventù rappresenti la forza propulsiva di una Belgrado proiettata verso il futuro,vvlo dimostra la candidatura della città a capitale europea della cultura nell’anno 2020. Candidatura alla quale si crede e per la quale si sta lavorando alacremente ed alla quale hanno già offerto il loro appoggio città partner, come Atene, Corfù, Perugia, Vilnius ed altre città delle repubbliche della ex Jugoslavia, come Banja Luka, Liubijana, Sarajevo, Skopije e che il sindaco Dragan Dilan ha illustrato in un blog appositamente creato per l’iniziativa.

La sfida che si presenta pone la cultura e l’educazione al centro di un futuro che possa riscattare le tante, troppe tragedie che la storia ha riservato a questa città, oggetto di conflitti e devastazioni quasi sempre decisi da altri e sempre in contrasto con gli interessi della popolazione. E che hanno visto il loro più recente capitolo nei bombardamenti della Nato del 1999, che la città ha voluto ricordare lasciando tre palazzi, due dei quali sulla centralissima Knesa Milesa, una strada dove sono presenti molte ambasciate, tra le quali quella statunitense, ed una alle spalle della bellissima cattedrale ortodossa dedicata a San Michele, nello stesso stato nei quali si sono trovati dopo essere stati bombardati,con una stele che porta una scritta “perché” emblematica della atroce sofferenza provocati dai terribili raid aerei di quell’anno, vissuti dalla popolazione senza che la stessa avesse alcuna colpa se non quella di avere un governo che allora si mostrò ottuso ed arrogante ed una serie di stati che non hanno trovato di meglio che sfoggiare la loro forza dovuta alla superiorità numerica ed ai mezzi che avevano.

Per i visitatori questi palazzi rappresentano un autentico pugno nell’occhio, un grido di dolore che attraversa le coscienze e che difficilmente potrà essere dimenticato una volta rientrati a casa .

Anche la creatività è una componente essenziale delle nuove generazioni di Belgrado.

A Skadarljia, stradina assai suggestiva, denominata “la Montmartre di Belgrado”, tante piccole gallerie e botteghe d’arte testimoniano un talento ed una sensibilità artistica sorprendenti.

E poi, una nuova classe imprenditoriale dinamica e intraprendente, che sta crescendo anche grazie agli investimenti stranieri che stanno affluendo nel paese ed alla ricostruzione seguita ai conflitti degli anni 90.

Ma accanto a questa Belgrado giovane e sfavillante di luci e di colori, ce n’è un’altra, difficilmente percettibile, che vive e si alimenta di traffici loschi ed illeciti.

Traffici di droga, di armi, di prostituzione. Per la droga la capitale serba rappresenta un crocevia, un punto strategico fondamentale, l’approdo intermedio di un tragitto che parte dai paesi produttori dell’America Latina e del Sud Est Asiatico e si conclude nei porti ed aeroporti di città italiane ed europee.

Anche per il traffico di armi Belgrado rappresenta uno snodo importante, dato che queste servono per i vari conflitti che covano in tutti i paesi dell’area balcanica, paesi che si proiettano verso il futuro sperando in una pace interminabile ma che fanno ancora i conti con incognite e tensioni interne che potrebbero riesplodere (tra l’altro la questione della popolazione kosovara, non è ancora risolta,sebbene il nuovo stato del Kosovo sia stato riconosciuto da altri stati della Comunità internazionale ed il premier serbo Pavic abbia offerto segnali di dialogo e di disgelo che era atteso da anni tra due etnie, la serba e la kosovare,sempre sull’orlo di una guerra e di una tragedia.)

Il giro di prostituzione ha avuto il suo apice attraverso un passaparola tanto discreto quanto efficace in base al quale le ragazze di Belgrado sono bellissime, e questo naturalmente non poteva non scatenare gli appetiti di bande organizzate che gestiscono un giro rilevante di denaro legato allo sfruttamento della prostituzione, mentre i visitatori che non sono in cerca di sesso facile ma mercenario, seppure a buon mercato, sperano di incontrare e conquistare donne che sono fuori da giri di prostituzione ed offrono il loro servizio gratuitamente,magari con un regalino che serva per dare ossigeno ad un salario medio che qui in Serbia è ancora ben al di sotto degli standard delle grandi nazioni europee occidentali.

Ed i personaggi che muovono le fila di questi traffici che vedono sempre confluire danaro nelle tasche di soggetti assai poco raccomandabili, si possono riconoscere nei pochi alberghi di lusso, nei casinò, nei clubs esclusivi, nei ristoranti di stile occidentale o nelle taverne meglio organizzate, dove i prezzi sono ben al disopra della portata della gente comune.

Sono personaggi che anche quando vestono abiti firmati dalle griffe più prestigiose, trasmettono una sensazione di cafoneria, declino, cattivo gusto. Sono ubriachi fradici, secondo gli stereotipi dei miliardari arricchiti della Russia e dei paesi dell’est europeo. Si muovono in maniera rozza ed inelegante. Così lontani dalla sobrietà dignitosa dei belgradesi.

Mancano alcuni mesi alle elezioni legislative della prossima primavera e non ci sono ancora nelle strade, manifesti che mostrano candidati e partiti politici. Se ne vede solo uno ,che è quello di un candidato che, assieme al suo volto, rende ben visibile un simbolo dell’Unione Europea dove si presenta una croce di sbarramento che è chiaro segno di diniego. E’ un segnale questo che, non sono solo alcuni paesi europei a trovare prematuro l’ingresso della Serbia dell’Unione Europea, ma vi è anche una parte della pubblica italiana che non vuole o semplicemente non è interessata a questo ingresso. Questa è semplicemente una ipotesi, che si vedrà quando a seguito delle elezioni della prossima primavera ci saranno da ridisegnare gli equilibri politici interni e da rivedere le situazione con il neostato kossovaro.

 

 

di Antonello Macchiaroli

Iran – Usa, la crisi ad una svolta decisiva?

Valutazione attuale:  / 0

È andato in scena nelle ultime settimane l’ennesimo scontro tra l’Iran e gli Stati Uniti, con il Paese degli Ayatollah che torna a mostrare i muscoli e a far aleggiare ancora una volta (almeno nelle minacce) lo spettro nucleare sul mondo; una serie di avvenimenti hanno fornito nuovi tasselli a quel puzzle che oggi compone le difficili relazioni tra l’Iran di Ahmadinejad da una parte e gli Usa del presidente Obama dall’altra. Dapprima la minaccia, arrivata per bocca del vicepresidente iraniano Mohamed Reza Rahimi, di chiudere lo stretto di Hormuz, snodo cruciale per il commercio del petrolio; immediata la replica da parte degli Stati Uniti, con la promessa di pesanti sanzioni qualora questo fosse avvenuto, a cui hanno fatto seguito una serie di esercitazioni militari durante le quali l’Iran ha testato anche diversi missili a lunga gittata, infine l’aperta sfida degli Usa che con una loro portaerei attraversano lo Stretto. Sembrano scene di un film già visto, con le due potenze che battibeccano su questioni ormai note, dando fiato ad un dibattito sempre più nebuloso sulla reale capacità dell’Iran di dotarsi di un arsenale atomico; ma la “questione iraniana” tiene banco ormai da anni e, dopo la caduta di Saddam Hussein e di Gheddafi, dopo l’intervento in Afghanistan, quella dell’Iran appare essere oggi una delle situazioni più pericolose della polveriera mediorientale, una situazione che urge affrontare con risolutezza. È evidente che gli Usa non ci stanno più a giocare al gatto col topo con l’ex sindaco di Teheran e il suo regime e magari attendono l’occasione giusta per poter intervenire in modo deciso ed efficace. Ma le schermaglie delle ultime settimane non sono altro che un pretesto per ognuna delle controparti per “demonizzare l’avversario”, in un gioco che sta diventando sempre più pericoloso, che sembra sempre più avviato ad una svolta non si sa quanto decisiva ma probabilmente drammatica.

Ma andiamo per ordine: i rapporti tra i due Paesi negli ultimi decenni non sono mai stati idilliaci, neanche durante la presidenza del riformista Khatami, ma sicuramente sono precipitati verso il basso con la salita al potere nel 2005 di Mahmud Ahmadinejad, conservatore nazionalista e convinto sostenitore dei piani di riarmo dell’Iran. Proprio questo è il punto dolente della politica del premier iraniano: egli sostiene convintamente la corsa agli armamenti del proprio Paese, non mancando occasione per fare proclami e sbandierare al mondo i progressi raggiunti in campo atomico; da qui il dilemma da parte dell’Occidente: l’Iran è davvero in grado di costruire armamenti atomici o si tratta di un bluff? Analizzando la situazione, compresi gli ultimi episodi e la presunta minaccia atomica, da una diversa angolazione, vengono fuori conclusioni in parte dissimili da quelle diffuse presso l’opinione pubblica.

LA MINACCIA NUCLEARE. Gli ultimi dati contenuti in un rapporto dell’International Atomic Energy Agency (IAEA), in buona parte condivisi dagli esperti di geopolitica, gettano parzialmente acqua sul fuoco in merito alla presunta capacità dell’Iran di dotarsi di bombe atomiche: secondo l’Agenzia infatti Teheran dal 1998 al 2003 avrebbe lavorato alla costruzione di armi atomiche con un programma di arricchimento dell’uranio al 20%, non sufficiente per produrre materiale bombabile ma comunque contrario a quanto previsto dall’Onu; la IAEA però non propone dati certi riguardo alla reale intenzione dell’Iran di produrre armi nucleari, ipotesi suffragata dal riscontro di alcuni programmi di ricerca che potrebbero essere complementari alla realizzazione di armi nucleari. L’Agenzia delle Nazioni Unite insomma rileva che effettivamente una corsa agli armamenti c’è stata, ma questa ha subìto forti rallentamenti a partire dal 2003 e ad oggi la produzione nucleare iraniana è ad un livello rudimentale, mentre viaggia più spedita l’industria missilistica. Alla luce di tale scenario, come si collocano le esercitazioni militari iraniane delle ultime settimane e i test di missili antiaereo e antinave? Una prova di forza secondo gli esperti, una esibizione da parte di Teheran che celerebbe una sostanziale incapacità di sostenere un’eventuale nuovo conflitto nell’area, e una risposta agli Usa che, dopo la provocazione sulla paventata chiusura dello stretto di Hormuz, hanno esplicitamente minacciato nuove sanzioni.

LA CHIUSURA DELLO STRETTO DI HORMUZ. “Più facile di bere un bicchier d'acqua”: queste le parole con le quali il vicepresidente iraniano Rahimi lo scorso 28 dicembre dichiarava al mondo di essere pronto a chiudere lo stretto di Hormuz, un punto di passaggio obbligato e di grande importanza strategica per buona parte del greggio che alimenta il commercio mondiale. Gli Stati Uniti a tale minaccia hanno mostrato i muscoli e lo stesso Obama ha “consigliato” all’Ayatollah Khamenei di non oltrepassare tale “linea rossa”, dando ad intendere che qualora ciò fosse successo, la risposta statunitense sarebbe stata certa; insomma a tal punto un intervento armato contro Teheran non sarebbe stato più procrastinabile, secondo la Casa Bianca. Ma la sortita iraniana e la relativa reazione americana sembrano alquanto pretestuose se si va appena oltre le dichiarazioni: è risaputo che la politica di sanzioni adottata da Washington nei confronti dell’Iran ha provocato grave pregiudizio all’economia dello stato mediorientale e Teheran non manca occasione per mostrare i muscoli allo storico avversario, sperando di portarlo a più miti consigli. Ma quello che sembra meno probabile ad oggi è proprio la paventata chiusura dello Stretto, almeno per due principali motivazioni: la prima è da ricercare nei drammatici effetti che tale misura comporterebbe per le esportazioni iraniane; insomma i danni maggiori li subirebbe proprio l’Iran, mettendo in atto un vero e proprio suicidio economico. La seconda ragione è legata alle dichiarazioni della Casa Bianca che risponderebbe alla chiusura dello stretto con un conflitto: le indiscrezioni trapelate da ambienti vicini ai palazzi del potere di Teheran parlano di una consapevolezza diffusa dell’establishment iraniano di non essere in grado di sostenere un eventuale conflitto nell’area del Golfo Persico e questo potrebbe fare il gioco di quanti da parte Usa sostengano che sia giunto il momento di intervenire.

LE ESERCITAZIONI MILITARI IRANIANE. Una esibizione muscolare, come l’hanno definita gli esperti: insomma l’Iran sarebbe consapevole di non poter sostenere una guerra ma dopo le dichiarazioni di Obama fa sfoggio della propria potenza balistica per mettere in guardia il nemico statunitense, che intanto stazionava al largo dell’Oman con una propria portaerei….

L’UCCISIONE DELLO SCIENZIATO. Non ha contribuito a rasserenare lo scenario l’agguato a Mostafa Ahmadi Roshan, scienziato nucleare iraniano, ucciso nella capitale l’11 gennaio, episodio per il quale il regime iraniano ha apertamente accusato i servizi segreti Usa e quelli israeliano, dando sempre maggiore energia al sentimento anti-statunitense e anti-israeliano nel Paese.

LE “RAGIONI” DI AHMADINEJAD E QUELLE DI OBAMA. Se dalle posizioni contrapposte dei due leader possono trovarsi due punti in comune che giustifichino le loro scelte diplomatiche, questi sono il mantenimento del consenso interno e di quello internazionale. Per capire meglio cosa spinge Ahmadinejad a cercare costantemente lo scontro, è necessario dare un’occhiata alla situazione interna dell’Iran: parlando dei tempi recenti e partendo dalla Rivoluzione Islamica del 1979 che designò Khomeini quale guida suprema il Paese, legato a stretto filo ai dettami religiosi, ha conosciuto periodi di sostanziale chiusura verso l’esterno che non ne hanno favorito lo sviluppo economico, sociale e culturale, unitamente ad altre situazioni contingenti come il conflitto con l’Irak durato otto anni; una maggiore presa di coscienza da parte della popolazione, unita alla promessa di dare risposte alle esigenze dei giovani, consentirono nel 1997 un’ampia vittoria elettorale a Mohammad Khatami. Ma seppure bene accettata da quella parte non trascurabile di popolazione disposta ad aprirsi e modernizzarsi, la politica riformatrice di Khatami era palesemente invisa al clero conservatore, che detiene un potere ben maggiore di quello delle istituzioni elette dal popolo, e che non vedeva ovviamente di buon occhio il pericolo di una leggera ma palpabile “occidentalizzazione”; e così con appoggi più o meno diretti e più o meno legali ottenuti anche dal potere religioso e un programma elettorale mirabolante nel 2005 il Sindaco di Teheran si impose alle elezioni presidenziali. Ahmadinejad, laico ma fortemente conservatore, conquistò l’elettorato con la sua immagine di islamico puro e di persona semplice, garantì attenzione alle classi meno agiate, promise una redistribuzione della ricchezza; allo stesso tempo l’ingegnere di Aradan fece fortemente leva sul sentimento nazionalista, promettendo vita dura ai “nemici dell’Islam e dell’Iran” e la proiezione della propria nazione tra le grandi potenze, anche tramite un rinnovato programma nucleare. Una campagna elettorale insomma dai toni fortemente populistici che conquistò facilmente una popolazione che da una parte era alle prese con una forte incidenza della povertà e dall’altra cominciava tiepidamente a guardare ad altri modelli al di fuori dai propri confini. Ma ben presto si è visto che le promesse di Ahmadinejad hanno faticato a trovare applicazione: le sanzioni internazionali, unite a misure del governo palesemente inefficaci e a pesanti sperperi di fondi destinati alle classi povere (dati diffusi dalla stampa riformista parla di una distrazione di circa 140 miliardi di dollari), hanno contribuito ad affossare l’economia già critica del Paese, creando terreno fertile per la contestazione, nonostante la forte repressione. Le crepe che periodicamente rischiano di compromettere la stabilità del sistema non giovano al Presidente e al clero conservatore e il collante usato dal leader iraniano per tenere insieme i pezzi è quello dell’incitamento del proprio popolo a difendersi dai “nemici”, causa dei mali dell’Iran, in primis gli Stati Uniti, Israele e le Nazioni Unite; da qui il periodico agitarsi dello spauracchio nucleare, al fine di tentare di indurre il resto del mondo a più miti consigli e a rivedere il sistema sanzionatorio contro uno stato con un’economia in ginocchio. La situazione interna che Ahmadinejad si trova ad affrontare è quella quindi di un Paese con immense risorse petrolifere che non possono essere sfruttate come si deve a causa dell’embargo, di una popolazione sempre più povera e di una contestazione latente ma potenzialmente pericolosa; se da una parte governa una nazione ancorata profondamente allo stile di vita dettato dall’Islam, dall’altra non mancano esempi di intolleranza e di apertura verso usi e costumi diversi e richieste di maggiori libertà. È un segnale che passa in trasparenza analizzando solo alcune delle notizie delle ultime settimane: un cittadino canadese, autore di un software utile per caricare le foto sul Web, è stato condannato a morte perché il programma è stato utilizzato da centinaia di utenti per postare foto “indecenti”; notizia certamente raccapricciante, ma passa anche il messaggio che sono tante le persone che sfidano i secolari precetti islamici, forse ormai obsoleti anche nel conservatore Iran, per passarsi immagini “impure” per l’Islam ma magari assolutamente innocenti secondo altri canoni. E ancora: nell’ultimo periodo si stanno facendo sempre più serrati i controlli nei negozi del Paese per evitare che si vendano Barbie: si, la storica bambola della Mattel in Iran è fuorilegge, ma da tempo è nato un mercato nascosto e parallelo allo scopo di soddisfare le crescenti e pressanti richieste della bionda di plastica americana, ormai nei sogni di tante bambine iraniane in barba a quanto stabilito dall’establishment religioso.

Le ultime prove di forza di queste settimane quindi rientrano nell’ambito della strategia usata da Ahmadinejad per tenere stretto il consenso e, facendo leva sul sentimento nazionalista, di dirottare l’attenzione al di fuori dell’Iran, al di sopra dei gravi problemi del Paese e delle promesse non mantenute.

E la risposta degli Usa? Come si colloca? La situazione interna di Obama ha tante affinità con quella del suo “nemico” facendo le dovute contestualizzazioni: l’elezione del presidente afro-americano nel 2008 ha portato una ventata di speranza negli Usa e nel mondo intero, portando addirittura Obama ad essere insignito di un Nobel per la Pace più “sull’onore” che sui fatti; l’inquilino della Casa Bianca si è trovato però ad affrontare situazioni molto dure nel corso del suo mandato, non ultimo il rischio default sventato artificiosamente in extremis lo scorso agosto e si trova ora ad affrontare le elezioni presidenziali con tanti problemi irrisolti sul groppone, con una nazione che non gode di buona salute e con un grado di popolarità sicuramente buono ma che potrebbe non bastare per garantire ad Obama un altro mandato a Washington. A queste situazioni va aggiunta la continua minaccia iraniana che non fa dormire sonni tranquilli alla maggior parte del popolo americano e che richiede quindi un intervento deciso di un Presidente che vuole essere attento alle richieste dei propri connazionali; di certo per Obama sarebbe un sogno quello di liberarsi per sempre di una spina nel fianco come quella costituita dalla questione iraniana, ma gli americani accetterebbero a cuor leggero un altro massiccio intervento armato nella zona del Golfo Persico? Dopo l’ultimo conflitto in Irak, che non è stato una passeggiata per la US Army e che a tratti è stato drammaticamente accostato al Vietnam, ci vogliono ragioni molto forti per giustificare l’impegno in prima linea in una nuova guerra; e poi, l’impelagarsi in una nuova, difficile situazione bellica a pochi mesi dalle elezioni, potrebbe realmente giovare all’inquilino della Casa Bianca?

I POSSIBILI SCENARI. Sicuramente le scadenze elettorali ormai prossime negli USA consigliano prudenza prima di prendere qualsiasi decisione che vada oltre i limiti già varcati nei confronti dell’Iran e cioè qualsiasi cosa vada al di là di minacce di nuove sanzioni o di effettive applicazioni di queste. Ma gli avvenimenti di queste ultime settimane, sembrano andare in controtendenza e portare a ben altri scenari.

Prima ipotesi: Obama ostenta prudenza e non farà passi avventati che possano pregiudicare la sua corsa verso la riconferma alla presidenza; il presidente americano potrebbe avere la certezza che l’Iran non ha, almeno nel futuro prossimo e sulla scorta di quanto dichiarato dal rapporto IAEA, possibilità di creare armi nucleari, per cui non rappresenta un pericolo imminente. Una indiretta conferma potrebbe leggersi nelle parole pronunciate dal leader iraniano durante una visita a Quito, in Ecuador: “Il nucleare è una scusa politica. Tutti sanno che l’Iran non cerca di fabbricare bombe atomiche, il problema posto dall’Iran non è il suo programma nucleare, ma è posto dal suo progresso e dalla sua indipendenza. L’Occidente” ha concluso il presidente Ahmadinejad, rincarando la dose contribuendo a surriscaldare gli animi “ha deciso di fare maggiori pressioni su di noi; insultano il nostro paese e il nostro popolo. È chiaro che il popolo iraniano resisterà”. Il capo dello Stato iraniano sembra quasi ribellarsi a delle pressioni costanti sul proprio Paese e si difende dicendo che non c’è un programma nucleare di tipo bellico, ma semplicemente orientato al progresso; e molti dati rafforzano quanto detto da Ahmadinejad: il rapporto IAEA esclude che Teheran sia in grado di dotarsi di arsenali nucleari e allo stesso tempo i dati sulla ricerca scientifica iraniana danno un’immagine sorprendente, con una serie di successi in campo medico, chirurgico, biotecnologico, robotico, frutto dell’impennata avuta dall’attività di ricerca degli ultimi anni.

Seconda ipotesi: Amadinejad ritiene ormai maturi i tempi, ha innescato negli ultimi tempi una serie di manovre di provocazione (vedi le esercitazioni militari delle ultime settimane) ed è pronto ad opporsi ad eventuali attacchi degli Stati Uniti. È l’ipotesi più remota e surreale: sembra che Teheran abbia la consapevolezza di non reggere ad un eventuale conflitto e quindi non si esporrebbe ad un rischio così elevato; tuttavia dopo la caduta di tanti leader dei Paesi islamici negli ultimi tempi, il presidente iraniano potrebbe aver la lusinga di proporsi come leader politico carismatico dell’area mediorientale, facendo proseliti anche presso tutti quei Paesi a maggioranza islamica vicini alle posizioni iraniane che accetterebbero di schierarsi accanto a Teheran qualora venisse attaccato. Uno scenario comunque più fantasioso che altro, considerando che il rischio di soccombere con conseguenze pesanti sarebbe molto elevato ed è un rischio ben conosciuto e ponderato anche da parte degli inquieti governanti iraniani.

Terza ipotesi: gli Stati Uniti hanno ormai la piena consapevolezza del potenziale offensivo e difensivo iraniano, aspettano solo l’occasione giusta per attaccare e destituire il fastidioso capo del Paese degli Ayatollah. È una ipotesi che può sembrare a tratti inverosimile, sicuramente dai risvolti drammatici, ma comunque suffragata da diversi dati di fatto: il rapporto IAEA potrebbe aver fornito l’ennesima prova agli Usa circa la scarsa consistenza del piano di riarmo nucleare dell’Iran, così come l’incapacità del Paese di sostenere adeguatamente un intervento armato nell’area. Tolti i dubbi sulla reale capacità militare e balistica dell’Iran, la decisione di attaccare una volta per tutte potrebbe essere molto più rapida da prendere, mancherebbe però la motivazione forte che possa giustificare agli occhi degli americani un impegno così gravoso; se tale situazione fosse effettivamente ben oltre lo stato di pura ipotesi di fantasia e ammesso che Obama sia deciso ad accollarsi un rischio così grande, allora risulterebbero maggiormente comprensibili anche alcune manovre apparse a prima vista azzardate da parte degli americani. Dopo la minaccia di chiusura dello Stretto di Hormuz e le esercitazioni militari iraniane, gli Usa hanno risposto con veemenza, prima di tutto con la minaccia di nuove sanzioni, in aggiunta a quelle che hanno già messo in ginocchio l’economia iraniana; da parte di Teheran non c’è stato tuttavia un ammorbidimento dei toni e, anzi, a conclusione della simulazione missilistica nello Stretto di Hormuz, il Comandante delle Forze Armate iraniane, Ataollah Salehi, ha sostanzialmente invitato gli Usa a non avvicinarsi al Golfo Persico con la propria portaerei che in quei giorni navigava nel Golfo dell’Oman, e soprattutto di non farselo ripetere due volte! Gli Stati Uniti tuttavia non solo non hanno raccolto il “gentile” invito, ma anzi ne hanno approfittato per stuzzicare ancor di più la reazione dell’Iran: la portaerei Usa non ha battuto in ritirata ma, anzi, lo scorso 22 gennaio ha attraversato lo Stretto di Hormuz, scortata da navi da guerra britanniche e francesi, in aperta sfida con le minacce iraniane. Una forzatura che potrebbe apparire inopportuna e fuori luogo, atta solo ad inasprire ulteriormente tensioni già al livello di guardia; in realtà si è trattato di una prova del fuoco: se l’Iran avesse osato reagire la situazione sarebbe innegabilmente precipitata e l’ipotesi di un intervento armato massiccio e repentino avrebbe preso immediatamente quota. Ma per ora la situazione resta immutata, l’Iran non ha minimamente reagito al passaggio della portaerei e gli Usa sono, sotto un certo punto di vista, rimasti a bocca asciutta; si, perché al di là dell’Atlantico sembra che più di qualche personaggio influente non veda l’ora che dal Medioriente arrivi un passo falso che dia un via libera alle operazioni belliche, prova ne sia che la portaerei e le navi da guerra a stelle e strisce non si sono mosse dalle acque del Golfo Persico, quasi a sfidare a muso duro i nervi del regime iraniano in attesa di una reazione. Sembra di rivivere scene già viste in passato: nel 1940, in piena Seconda Guerra Mondiale, il Giappone occupò l’Indocina, manovra ostile agli Stati Uniti che avevano il controllo delle Filippine, in quanto temevano di perdere la propria supremazia sull’area, considerando anche che nessuna potenza in Asia poteva opporsi efficacemente al Giappone. Le contromosse statunitensi presero forma con l’embargo verso il Giappone e con il mantenimento di un forte dispiegamento di forze alla base militare delle Hawaii a fini deterrenti; l’economia giapponese arrivò sull’orlo del collasso, il governo del Sol Levante decise per la via diplomatica, preparando in parallelo un piano di attacco contro le basi statunitensi nell’area del Pacifico. Roosevelt sapeva bene che la stragrande maggioranza degli americani non era favorevole alla partecipazione al conflitto, ma in qualche modo era necessario agire in fretta (come oggi d’altronde…) per evitare di dover fare i conti con una egemonia mondiale composta dalle forze dell’Asse; Washington quindi rifiutò sdegnosamente qualsiasi proposta di accordo diplomatico proveniente da Tokio, portando il Giappone all’esasperazione, in una situazione che sembra avere numerosi paralleli con quella attuale tra l’Iran e gli Usa. Il resto è storia tristemente nota: gli Stati Uniti si opposero al Giappone con aria di sfida, la diplomazia, passo che oggi sembra mancare, non ebbe successo e all’alba del 7 dicembre 1941, dalle portaerei giapponesi si alzarono 350 aerei carichi di bombe diretti verso la base americana di Pearl Harbor.

di Michele Moffa

Arance amare

Valutazione attuale:  / 0

“Venti, sessanta, cento anni … la vita

 

a che serve se sbagliamo direzione.

 

Se vivere significa essere chiusi

 

nell’egoismo, pensare solo a sé stessi

 

non alzare lo sguardo oltre i confini

 

del proprio essere.

 

Ciò che importa, è oltrepassare

 

le frontiere, per incontrarsi

 

… in quelle terre di nessuno

 

Per affermare la dignità, la giustizia

 

e non dimenticare che tutti,

 

ognuno con le proprie possibilità

 

anche pagando

 

in prima persona, siamo i costruttori

 

di un mondo nuovo”

 

(Giuseppe Puglisi)

 

 

 

 

 

Il 7 gennaio 2010 nella città di Rosarno (in provincia di Reggio Calabria) si verifica un evento di tale importanza da segnare indelebilmente la storia dell’immigrazione italiana. Gli immigrati irregolari impiegati nella raccolta delle arance nei campi intorno alla città, dopo aver subito costanti abusi e vessazioni da parte dei datori di lavoro, si ribellano apertamente e drasticamente allo sfruttamento lavorativo e alle condizioni di vita precarie ed indegne in versano durante il periodo del lavoro stagionale.

 

Secondo le stime ufficiali a Rosarno sono presenti 1600 braccianti tutti di nazionalità italiana con l’eccezione di 36 persone ma la verità drammatica che viene alla luce all’indomani della rivolta del 7 gennaio è alquanto differente: i lavoratori sono infatti 1200 e per la maggior parte provenienti dal continente africano (Donadio, 2010). Essi vengono rigorosamente retribuiti in nero e dispongono nella migliore delle ipotesi di circa trenta euro al giorno per vivere. Un cifra che altrove non gli consentirebbe neppure di sopravvivere e che in una delle aree più povere d’Italia garantisce loro la sola facoltà di nutrirsi quotidianamente e neppure in maniera adeguata.

 

Nonostante gli immigrati lavorino da anni nelle campagne di Rosarno non è stato loro concesso di divenire parte integrante del tessuto sociale della città. Anzi nel momento in cui essi hanno tentato di rivendicare i propri diritti la popolazione si è mostrata ostile nei loro riguardi. A seguito delle proteste del 7 gennaio infatti gli autoctoni hanno inaugurato una vera e propria “caccia allo straniero”, iniziando a perseguitarli nei campi e ciò è accaduto nonostante l’intervento delle forze di pubblica sicurezza (Mora, 2010). In tal senso può affermarsi con Donadio che “la rivolta degli immigrati va dritta al cuore della difficile trasformazione dell’Italia da Paese di emigranti a Paese di immigrati”, un processo ancora lungi dal concretizzare la possibilità di un’inclusione degli stranieri nella società ad opera dei cittadini del Bel Paese.

 

Il clima instauratosi a Rosarno a partire dalla prima decade del gennaio 2010 diviene sempre più incandescente e gli immigrati vengono costretti ad abbandonare la città per non cadere vittime delle violenza perpetrate ai loro danni da alcuni dei residenti. La mancanza di tolleranza e comprensione degli autoctoni circa le loro rivendicazioni è rivelatrice di una mentalità che tende a considerare lo sfruttamento lavorativo dello straniero come un dato naturale e irrinunciabile della configurazione del mercato agricolo. In base a questa logica se l’immigrato si ribella a tali circostanze – non rileva minimamente il fatto che egli chieda solo ed esclusivamente il rispetto dei propri diritti in quanto uomo – egli deve essere allontanato. Ed infatti a seguito della cosiddetta “rivolta delle arance” i clandestini sono stati trasferiti in altre regioni italiane tramite autobus messi a disposizione dalle forze dell’ordine. Alcuni hanno scelto di andar via in treno, dopo aver regolarmente acquistato il biglietto. Forse non avevano una meta ma a Rosarno non gli era più concesso di restare.

 

 

 

E’ una tiepida giornata di febbraio. Incontro alcuni immigrati di Rosarno in uno degli edifici occupati da “Action”, situato in Via Antonio Tempesta a Roma, luogo in cui gli stranieri possono beneficiare dell’esistenza di uno sportello preposto a fornire loro assistenza nelle pratiche per la richiesta del permesso di soggiorno. Ci accoglie Luciana, che da tempo lavora per fornire aiuto e sostegno a persone straniere in difficoltà e vengo da lei introdotta in una stanza umile ma ben pulita ed ordinata. In un angolo siedono gli immigrati rispettosi del proprio turno e di un ossequioso silenzio mentre sulle pareti gridano allo sdegno gli articoli di giornale stampati a seguito degli eventi del 7 gennaio. Mi avvicino e chiedo di poter parlare con loro. Non si negano, devono attendere ancora diversi minuti prima di sottoporre la propria pratica a Luciana.

 

Il primo a presentarsi è Samuel. Ha venticinque anni e proviene dal Ghana. E’ fuggito dal suo Paese per sottrarsi alle persecuzioni religiose dei Musulmani. Egli, infatti professa la religione cristiana. Si trova in Italia da tre anni e dal momento del suo arrivo non ha più visto sua moglie e i suoi due figli. Prima di giungere in Italia è stato tenuto in carcere dalle autorità libiche ed ha dovuto pagare 900 dinari (circa 600 euro) per potersi sottrarre alla prigionia. Dice di aver lavorato a Rosarno e di aver provato molta rabbia per ciò che gli è accaduto: “ I feel angry because I am not an Italian citizen and so I cannot react against exploitation and abuses”. Pensa che chi non è cittadino italiano non possa ribellarsi alla mancata tutela di diritti perché in tal caso è costretto poi ad abbandonare il Paese. E aggiunge che i Rosarnesi non consideravano lui e gli altri stranieri loro pari. Afferma che gli abitanti di Rosarno credevano che fosse giusto il modo in cui venivano trattati, ma sottolinea che di certo loro non avrebbero lavorato per la paga di un euro a cassetta di arance raccolte. Non è stato mai vittima di violenza da parte degli italiani ma ritiene che alcuni di loro siano cattivi, anche se non ha mai pensato di usare violenza contro di loro. Adesso ha paura di essere denunciato perché non possiede i documenti ed inoltre vorrebbe trovare un lavoro il prima possibile per poter mandare del denaro alla sua famiglia. Tornerebbe a casa se le persecuzioni religiose terminassero e se avesse la possibilità di lavorare e guadagnarsi da vivere. Sorride dicendomi che anche se adesso sente paura, dolore e tristezza, Dio provvederà a dargli la serenità.

 

Si avvicina Daoda ha vent’anni ed un bel sorriso ed è approdato in Italia nel 2009 dopo essersi imbarcato dalle coste libiche con un “biglietto” di sola andata costato 1000 dollari. E’ arrivato in Sicilia e poi è stato trasferito a Roma, dove ha presentato domanda di asilo, alla quale però è stata data una risposta di diniego. Dice che nel suo paese, la Costa d’Avorio, i ribelli combattono contro il governo e la situazione è talmente grave che la vita è diventata impossibile. Per questo è venuto in Italia dove è finito a lavorare a Rosarno. Mi racconta che non lavorava tutti i giorni ma solo dai due ai quattro giorni a settimana. Arrivava sul posto di lavoro su un furgone guidato dal datore di lavoro e una volta terminato il suo compito rientrava nel suo alloggio, una tenda che condivideva con altre nove africani, montata alla periferia della città. I suoi amici si lamentavano spesso perché subivano molti maltrattamenti e le persone del posto non erano gentili. I ragazzi della città tiravano loro le pietre e gli adulti erano ostili. Sostiene che la sua ribellione e quella degli altri lavoratori non voleva essere un atto di violenza affermando - è l’unico degli immigrati che comprende e parla l’italiano - “volevamo solo far vedere al governo che eravamo maltrattati, la violenza non porta a nulla!”. Dice di aver lasciato Rosarno subito dopo gli scontri, ma di non essere salito sugli autobus della polizia per mancanza di fiducia nei confronti delle forze dell’ordine. Così ha raggiunto Roma in treno e una volta nella capitale, proprio quando lo sconforto stava prendendo il sopravvento, ha incontrato una donna che si è gli ha fornito una prima assistenza e lo ha indirizzato all’ospedale di San Giacomo. “E’ stata una fortuna incontrarla – e sottolinea - non solo perché si è presa cura di me ma anche perché dopo i fatti di Rosarno pensavo che tutti gli italiani sono cattivi perchè non solo ho dovuto di dormire per settimane in una tenda dentro un capannone abbandonato, senza ricevere solidarietà dagli abitanti della città, ma ho dovuto anche essere maltrattato quando ho chiesto i miei diritti”. Secondo Daoda l’Italia non è un Paese civile. Ha scelto di venire qui perché è lo Stato europeo più semplice da raggiungere partendo dalla Libia. Credeva che, dal momento che in Africa aveva avuto modo di visionare immagini del Vecchio Continente in cui questo veniva presentato come benestante ed opulente, in Italia sarebbe vissuto decentemente. E invece una volta arrivato ha compreso immediatamente che agli stranieri è riservato un destino differente. Sta ricominciando a credere nel fatto che tra gli italiani ci siano persone di cuore grazie ai volontari di Action che si sono sin da subito preoccupati di fornirgli cibo, coperte, scarpe e vestiti. Daoda è il ragazzo maggiormente integrato tra quelli presenti in loco e con cui ho modo di parlare. Conosce bene la lingua italiana tanto che sentirlo parlare in maniera a tal punto corretta mi sorprende piacevolmente. E’ affabile e scherzoso nonostante questa terra gli abbia finora riservato tanto dolore. Alla fine della nostra conversazione mi dice che desidererebbe tornare nel suo Paese e che avverte molto la mancanza della sua famiglia. A Roma ha trovato degli amici che gli consentono di sentirsi meno solo ma il suo pensiero vola spesso verso casa. Grazie ad internet riesce a tenersi in contatto con delle persone rimaste nel suo luogo natio in Costa D’Avorio ma un computer non può mai sostituire uno sguardo o un abbraccio di una persona cara. Ci scambiamo i numeri di telefono e promette di venirmi a trovare presto, intanto si siede accanto a me per assistere alle successive conversazioni.

 

Nomoko mantiene gli occhi bassi, sembra arduo riuscire ad aprire una breccia nel muro della sua timidezza. Quando decide di avvicinarsi e raccontarmi la sua storia mantiene la voce bassa e continua a guardare per terra, poi pian piano si tranquillizza e nelle poche volte in cui mi guarda negli occhi mi trafigge come una lama. Ha uno sguardo sofferente, è l’unico tra gli altri lavoratori di Rosarno a non regalarmi un sorriso. Nomoko è originario del Sudan e proviene esattamente dalla regione del Darfur tragicamente nota come una delle zone più calde del Pianeta. Il Sudan meridionale è infatti dilaniato da un conflitto sanguinario ed estenuante che ha causato e continua a causare milioni di morti tanto da indurre gli osservatori internazionali a parlare di un vero e proprio genocidio. Ha ventisei anni ed ha attraversato il deserto per raggiungere la Libia, un viaggio costatogli ben 800 dollari e che non avrebbe mai potuto affrontare senza il sostegno economico dei genitori. Loro volevano che partisse per non vederlo cadere vittima della guerra. In Darfur, dice, si combatte perché il governo non vuole gli Arabi e i bianchi si oppongono ai neri. Afferma che lo stato di guerra nel suo Paese è una condizione permanente tanto che ha dovuto adeguarsi ed abituarsi a vivere in un tale contesto dal momento della nascita. Il conflitto ha dimensioni così vaste ed è pervasivo a tal punto da colpire indistintamente tutta la popolazione cosicchè anch’egli sarebbe potuto andare incontro alla morte se avesse deciso di restare. Quando è arrivato in Italia nel luglio del 2009 grazie a dei contatti con suoi connazionali presenti in Calabria è giunto a Rosarno, luogo in cui ha trovato impiego nel lavoro di raccolta nei campi. Afferma che per recarsi sul posto di lavoro i caporali caricavano lui e gli altri stranieri su dei furgoni e per il trasposto esigevano un corrispettivo. Lavorava dalle sette e trenta alle sedici e trenta e durante quelle ore non gli erano concesse pause, per questo durante la raccolta quando non era osservato mangiava le arance. I datori di lavoro erano brutali e un giorno nel frangente di una lite scoppiata tra due caporali ha assistito ad una scena di violenza nei confronti di un altro immigrato che è stato gratuitamente picchiato ad una gamba da uno dei due mentre era chinato per raccogliere i frutti. Al termine del suo lavoro stremato ritornava nel posto in cui trascorreva il resto della sua giornata, una fabbrica dismessa che condivideva con circa cinquecento stranieri. Mi dice che quando è arrivato in Italia non si aspettava di vivere così, ammassato con altre centinaia di uomini in un capannone, senza acqua potabile, senza riscaldamento, costretto a rifornirsi di acqua da un pozzo, a lavarsi con acqua fredda e ad utilizzare il gas per scaldare quella utilizzata per cucinare. E poi è esplosa la rivolta nel gennaio del 2010. Secondo la sua opinione il governo italiano sapeva delle condizioni in cui gli immigrati erano costretti a lavorare ma è rimasto in silenzio. Al momento della ribellione ricorda che la gente di Rosarno si è mostrata fortemente intollerante e che molti affermavano che non era affatto giusto che “noi animali ci ribellassimo” e aggiunge: “cosa avremo dovuto fare? Eravamo sfruttati, lavoravamo come schiavi e non avevamo né elettricità né acqua potabile. Come potevamo vivere con venticinque euro al giorno? Ci hanno anche sparato addosso, hanno sparato ad un mio amico. Non ci credevo, per me gli italiani sono esseri umani!”. Nomoko crede che l’appartenenza al genere umano di per sé non giustifichi simili comportamenti e che gli uomini debbano rispettarsi già solo per il fatto di essere tali, senza distinzioni di alcun genere. Eppure a Rosarno è stato bastonato – mi mostra le cicatrici sul braccio e sulla gamba destra – e non si è nemmeno recato in ospedale per paura di essere segnalato e rispedito a casa e lui non vuole tornare a casa. Teme di essere rimpatriato e desidera continuare a restare in Italia per lavorare con onestà e mantenendo la sua dignità di persona. Ha inoltrato una domanda di asilo quando è arrivato nel Paese ma non gli è stata accettata - forse qualcosa è andato storto durante il colloquio – è adesso spera che il governo faccia qualcosa per lui perché “ogni posto del mondo è meglio del Darfur, anche Rosarno”. Mi coglie alla sprovvista quando afferma che ha fiducia nello Stato italiano e che non tutti qui sono razzisti, c’è anche qualche anima buona. Nomoko guarda con fiducia al futuro anche se sa che non è facile. Se guarda indietro rivede l’imbarcazione di fortuna che lo ha condotto in Italia, e gli sovviene l’immagine nitida di quattro persone sofferenti nella barca. “La Croce Rossa italiana ci ha salvati altrimenti saremmo finiti in mare, da allora pensavo che la mia vita sarebbe solo potuta migliorare. Se Dio ha deciso di farmi sopravvivere devo andare avanti e sperare in un futuro migliore in cui cercare di stare bene e di costruire una famiglia tutta mia, magari con una donna italiana”. Ed è a questo punto che gli si illuminano gli occhi e mi rivolge finalmente un sorriso. Gli chiedo cosa direbbe se avesse la possibilità di rivolgere un pensiero al popolo italiano e afferma: “non ho mai pensato, neanche nei momenti più difficili trascorsi a Rosarno di fare del male ad un italiano” poi mi saluta, è arrivato il suo turno.

 

Si è creato un bel clima, Daoda chiacchiera in maniera spensierata, mangiamo della cioccolata insieme ed insieme ascoltiamo un’altra storia, l’ultima, quella di Alì, 25 anni, anch’egli arrivato in Italia dalla Libia. Ha dovuto seguire la rotta libica perché i canali di accesso all’Europa dal Marocco sono bloccati e così è sbarcato in Italia nel 2008. E’ originario del Burkina Faso dove ha lasciato una moglie ed un bambino e ciò lo preoccupa molto perché nel Paese è in corso un conflitto dovuto a motivazioni di natura politica. Daoda mi fa da interprete e così apprendo che Alì è finito a lavorare a Rosarno dopo essere stato contattato telefonicamente da alcuni suoi connazionali che si trovavano già sul posto. Al pari degli altri era sfruttato dai caporali e retribuito dai 23 ai 25 euro al giorno. Quando i lavoratori immigrati sono insorti lui ha scelto di unirsi alla protesta ed ha reagito agli affronti della popolazione ma a causa di ciò è stato bloccato da alcuni residenti e picchiato. “Gli italiani sono razzisti e il governo non è buono – afferma- ci hanno imposto di vivere come bestie in una fabbrica – diversa da quella in cui si trovava Nomoko -dovevamo cucinare e riscaldare l’acqua con una bombola a gas che tenevamo nella tenda in cui dormivamo correndo un grave rischio per le nostre vite. Sono scappato da Rosarno in treno ed ora mi trovo a Foggia dove vivo alla giornata, ma ho bisogno di lavorare per mandare del denaro alla mia famiglia. Con la raccolta delle arance riuscivo a mettere da parte dalle cinquanta alle sessanta euro al mese da inviare a mia moglie, ma con questa cifra lei non riusciva a sopravvivere”. Alì ricorda che la popolazione di Rosarno era cattiva e che gli stranieri venivano aiutati solo dalla Croce Rossa che forniva loro cibo e coperte. Anche a Foggia adesso riceve aiuto dalla Caritas. Non vuole ritornare nel suo Paese perché ritiene che in Italia si possa nonostante tutto vivere meglio e spera di riuscire a ricongiungersi un giorno il suo bambino e la sua compagna. Vorrebbe vivere qui con loro e lavorare in condizioni di parità rispetto ai cittadini italiani.

 

L’incontro con gli immigrati di Rosarno ha termine. Ci salutiamo con un abbraccio e scattiamo delle foto. Daoda mi promette che ci sentiremo e che ci rivedremo.

 

Mentre affronto il viaggio in treno per tornare a casa penso che non dimenticherò mai gli occhi Nomoko e l’espressione del suo volto quando pieno di speranza mi ha parlato del suo futuro. Le persone con cui ho parlato hanno una caratteristica in comune, non provano rancore. Hanno si provato molta rabbia in quei primi giorni gennaio ma nella loro concezione l’appartenenza al genere umano reca con sè il perdono delle ingiustizie subite dai propri simili ed essi hanno perdonato. Chiedono una possibilità al nostro Paese, non vogliono delinquere ma lavorare per il proprio benessere e quello delle proprie famiglie. E naturalmente il loro impiego è salutare anche per l’economia del nostro Paese. Non bisogna dimenticare che gli stranieri vengono occupati in settori nei quali la manodopera italiana è carente e che senza il loro lavoro la sopravvivenza delle attività legate ai settori medesimi (soprattutto l’edilizia e l’agricoltura) sarebbe seriamente compromessa. Tuttavia nel sistema occupazionale italiano gli immigrati (irregolari e non) continuano a subire discriminazioni e vengono pagati fino al trenta per cento in meno degli italiani.

 

Il caso di Rosarno dimostra che gli immigrati non sono più disposti a consentire che i loro diritti vengano calpestati. La loro presa consapevolezza rispetto a ciò che è dovuto ad un onesto lavoratore, in primo luogo un salario che sia il corrispettivo della produttività del lavoro, rappresenta un monito per coloro i quali continuano a perpetrare le logiche dello sfruttamento. Il risveglio delle coscienze, oramai, ha spezzato le catene di ingiustizia sociale del nuovo millennio.

 

di Francesca Varriano