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Gestione del panico: strategie di coping in relazione all'attentato alle Torri Gemelle

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ABSTRACT
 
Il presente elaborato dal titolo “Gestione del panico: strategie di coping in relazione all’attentato alle Torri Gemelle” si propone di analizzare le tecniche e le strategie di coping adottate durante uno degli attentati terroristici più gravi che abbiano mai colpito l’Occidente, vale a dire l’attacco dell’11 settembre 2001.
 
Il fine è di dimostrare come è stato gestito il panico, attraverso i meccanismi di coping in diversi individui nell’ambito di situazioni delicate, in questo caso un attacco terroristico senza precedenti. 
 
Si procederà dapprima con il presentare cos’è il coping e la nascita del termine, per poi illustrare brevemente gli avvenimenti di quel giorno. Si cercherà di analizzare, attraverso diversi documenti fotografici, le strategie messe in atto dalle vittime degli attentati, dai cittadini newyorkesi e dai diversi operatori delle forze dell’ordine e di soccorso che hanno prestato servizio l’11 settembre.
 
Infine, si parlerà delle diverse disposizioni e delle misure di prevenzione nate in seguito all’evento per evitare situazioni simili e per gestire efficacemente ogni possibile minaccia alla sicurezza dello Stato. 
 
  
This work entitled “Gestione del panico: strategie di coping in relazione all’attentato alle Torri Gemelle” offers an analysis of the techniques and the strategies of coping adopted during one of the most serious terrorist attacks to have ever hit the Western World, namely the 9/11 2001 attack.
 
It aims at providing how the attack, occurred during a new era for the humankind, influenced the different victims and the entire world. 
 
Firstly, it underlines what coping is and how the term is used. Later it continues with a brief presentation of the events that occurred that day. The aim is to analyze, through different photographic documents, the strategies adopted by the victims of the attacks, by the New York citizens and the law enforcement and rescue workers who were on duty on 9/11.
 
In conclusion, the different provisions and prevention measures are described in order to  understand how to menage a global threat, such as a terrorist attack.
 
 
INTRODUZIONE
 
Gli attentati dell’11 settembre 2001 costituiscono uno degli avvenimenti più bui della storia statunitense e di tutto il mondo occidentale. L’effetto sorpresa, il numero di vittime e le conseguenze economiche e psicosociali hanno dimostrato la vulnerabilità di un paese che fino a quel momento era considerato quasi invincibile. Le reazioni da parte delle vittime, dei loro parenti, delle Forze dell’Ordine e degli altri soccorritori sono state di diversa natura: paura, ansia, rassegnazione, speranza, lucidità, freddezza, determinazione… Molte delle vittime sopravvissute hanno presentato pesanti conseguenze psicologiche per diversi anni dopo l’attentato e sono arrivate al punto di chiedersi il motivo della loro sopravvivenza rispetto alla sfortuna di coloro che hanno perso la vita.
 
A causa di un attentato terroristico di tale entità, molti individui si sono trovati di fronte a morte certa, altri alla speranza di poter sopravvivere, altri ancora sono stati costretti a fuggire lontano dalle proprie case per via dei danni strutturali subiti dagli edifici vicini alle Torri Gemelle e gli operatori si sono trovati davanti migliaia di morti e feriti da soccorrere. Risulta naturale chiedersi come è stata gestita la situazione dal punto di vista emotivo e quali strategie siano state messe in atto dalle diverse persone coinvolte.
 
Come già accennato in precedenza, tale evento ha causato delle profonde lacerazioni all’interno dello Stato americano e ha fatto trasparire una debolezza nascosta nella gestione delle minacce nazionali e internazionali con un’assenza quasi totale di misure di prevenzione dei rischi in relazione agli attacchi terroristici, presenti solamente con un grado d'intensità minore fino a quel giorno.
 
Si renderà dunque fondamentale una breve premessa storica sulla teoria del coping e sugli eventi di quel giorno, che hanno portato le persone a confrontarsi con se stessi e con le sensazioni che l’11/09 ha fatto nascere in ogni individuo, con particolare attenzione alle differenze tra vittima, spettatore e soccorritore.Alla luce di tutto ciò, verrà analizzato il tema della gestione del panico in tutte le sue declinazioni, dando voce a coloro che si sono ritrovati nel mezzo dell’evento. 
 
 
1.1  Definizione e nascita del coping
 
Ogni individuo possiede una personalità specifica che lo influenza nelle scelte decisionali e nei modi di essere, di conoscere e di agire. La suddetta personalità è frutto di un processo di crescita e cambiamento, che si compie nel corso della vita, attraverso l’interazione continua tra la persona e l’ambiente circostante. Oltre ai tratti di personalità, ognuno tende a sviluppare specifiche abitudini e metodi di resilienza in situazioni particolarmente stressanti. Proprio in queste situazioni si innestano le strategie di “coping”.
 
Il termine “coping” è stato usato per la prima volta dallo psicologo americano Lazarus Richard (1922-2002) nell’opera “Psychological Stress and the Coping Process” pubblicata nel 1966. Secondo Lazarus, gli studiosi che lo hanno preceduto non hanno mai analizzato le risorse interne della persona, ma si sono sempre concentrati sulle influenze esterne. Hanno sempre considerato un individuo in difficoltà come il risultato di una serie di circostanze negative senza pensare alla conseguente risposta alle difficoltà. Solamente le teorie di psicoanalisi elaborate dallo  psicoanalista Sigmund Freud  (1856-1939) hanno accennato ai meccanismi di difesa, vale a dire operazioni psichiche inconsapevoli e messe in campo dall’Io per difendersi da richieste istintuali eccessive o incompatibili con i vincoli ambientali.  Attraverso il ricorso a tali meccanismi, pensieri e impulsi inaccettabili vengono cancellati dalla coscienza, proteggendo l’individuo dall’angoscia che scaturirebbe dalla loro consapevolezza. Si può dire che coping e meccanismi di difesa abbiano in comune l’obiettivo di proteggere l’individuo da uno stress eccessivo, ma presentano gradi di consapevolezza differenti. Infatti, i meccanismi di difesa  sono in parte o del tutto inconsci, mentre il coping è per lo più consapevole e intenzionale. 
 
Lazarus distinse gli individui con una maggior maturità psichica e tecniche di coping efficaci rispetto a quelli con minor maturità e tecniche inconsce legate a una reazione spontanea e non premeditata. In entrambi, il processo dinamico che porta al coping si articola in tre fasi distinte:
 
1. Appraisal primario: la valutazione della situazione e dei possibili rischi e danni correlati;
2. Appraisal secondario: la valutazione degli strumenti e delle risorse a disposizione per poter affrontare la minaccia in questione;
3. Re-appraisal: la rivalutazione della situazione per poter stabilire i pro e i contro delle strategie pianificate e le azioni da mettere in atto.
Queste fasi risultano più marcate negli individui con un q.i. superiore alla media. Tutti gli esseri umani provano paura, ma ciò che distingue l’uno dall’altro è la razionalizzazione e la reazione all’atto stressante e pauroso. In seguito, è importante distinguere le modalità di attuazione delle strategie di coping:
 
1. Coping orientato al problema o alla situazione: azioni finalizzate a gestire la fonte di stress e a prevenire ulteriori danni tramite l’organizzazione di un piano d’azione, la ricerca di supporto e le operazioni di problem solving. Sul piano emotivo, vi è un discostamento momentaneo dai pensieri negativi per poter dar spazio alla ragione e compiere gesti logici utili alla risoluzione del problema. Risultano più efficaci nel lungo periodo, dato che cercano di affrontare l’ostacolo alla radice e di eliminarlo senza aggravarne le conseguenze. Tuttavia, non tutte le situazioni possono essere affrontate in questo modo, poiché esistono situazioni non modificabili o controllabili, ad esempio un lutto in famiglia o una malattia terminale.
 
2. Coping orientato alle emozioni: strategie finalizzate alla gestione della risposta emozionale negativa allo stress, come crisi di pianto e/o isteria. Non risultano particolarmente efficaci nel lungo periodo, dato che il soggetto prova una riappacificazione mentale momentanea e con il tempo potrebbero svilupparsi sensi di colpa per non aver agito diversamente. In quest’ultimo caso, si innesca la dinamica del coping disadattivo, vale a dire l’implementazione di dinamiche d’evitamento e di fuga dalle difficoltà tramite le tecniche di auto-aiuto (consumo di alcolici o sostanze stupefacenti, crisi di pianto e panico continue ecc.), che potrebbero addirittura fare ricorso all’aggressività e alla violenza.
 
Le suddette strategie legate alle emozioni si suddividono a loro volta in 4 azioni:
a. Distanziamento: negazione del problema e allontanamento fisico e/o psicologico facendo finta che il problema non esista o rimanendo immobili, come paralizzati, a guardare (Bystander Effect o effetto spettatore);
b. Autocontrollo: tentativo di gestione delle emozioni negative tramite pensieri positivi e tecniche di respirazione e rilassamento aiutando prettamente se stessi;
c. Assunzione di responsabilità: assumersi la piena responsabilità dell’accaduto o spostare le colpe a qualcun’altro senza porsi troppe domande sulle conseguenze;
d. Rivalutazione positiva: dare una connotazione diversa a ciò che sta accadendo.
            
Di conseguenza, non solo disporre di un buon repertorio di coping aiuta a vivere meglio e ad adattarsi alle difficoltà, ma anche a reagire con minor stress davanti alle sfide.  Di fronte a eventi conflittuali e stressanti, infatti, una persona può adottare anche differenti strategie di coping, partendo da un tipo per poi passare a un altro; oppure potrebbe perfino adottare più strategie di coping contemporaneamente. Gli studiosi non hanno stabilito che una tecnica sia migliore rispetto all’altra in maniera universale, dato che ogni essere umano è pervaso da diverse emozioni e ha un proprio bagaglio socioculturale che influenza la presa di decisioni. 
 
Inoltre, è stato anche dimostrato che vi sono piccole differenze nelle reazioni tra due individui di sesso opposto all’interno di condizioni stressanti o conflittuali simili. Entrando più nel dettaglio, sembrerebbe che le donne tendano a far fronte ai problemi adottando preferenzialmente strategie di coping incentrate sulle emozioni. Invece, gli uomini tendono a prediligere strategie di coping incentrate sul problema. È comunque opportuno precisare che quanto appena detto non è applicabile a tutti gli individui, perché, come ribadito diverse volte, le variabili coinvolte sono molteplici e dipendono dalla singola personalità in gioco.
 
Questo tipo di differenze non è solo dovuto al livello di ansia e stress presente prima e durante una situazione difficile, ma è principalmente dovuto alle diverse strategie che ottimisti e pessimisti mettono in atto nel far fronte agli eventi. Le persone ottimiste, con una maggiore fiducia nel futuro, producono uno sforzo continuo per capire la nascita del problema e le sue possibili soluzioni, anche quando si trovano di fronte a gravi avversità quasi insormontabili. Al contrario, i pessimisti, che presentano maggiori dubbi e preoccupazioni sull’avvenire, tendono ad allontanare da sé ogni pensiero negativo e a evitare le avversità a tutti i costi. In conclusione, è stato dimostrato che i pessimisti tendono principalmente a compiere azioni che diano loro temporanee soluzioni o distrazioni, ma che non li aiutano a risolvere  completamente il problema. Mentre, l’ottimismo porta a una frequente focalizzazione sul problema con un impegno prevalente sulle strategie problem-focused, piuttosto che emotion-focused.
 
1.2  11 settembre 2001: breve cronologia degli eventi
 
Nonostante l’ampia letteratura in merito, è da considerarsi utile una breve ricapitolazione di ciò che avvenne quel giorno. La mattina dell’11 settembre 2001, diciannove attentatori appartenenti a una cellula dell’organizzazione terroristica jihadista di Al-Qaeda dirottarono quattro aerei di linea per portare a compimento uno degli attentati più gravi, se non il più grave, che gli Stati Uniti d’America abbiano mai subito. 
 
Due degli aerei si schiantarono contro le Torri Gemelle del World Trade Center di New York, situato a Manhattan, il primo alle 8:45 (14:45 ora italiana) e il secondo alle 9:05, solo alle 9:33 si scoprì che uno degli aerei kamikaze era un Boeing 767 dirottato da Boston.  Alle 9:45 scoppiò un incendio a Washington, al Pentagono (Ministero della Difesa americano), che venne fatto evacuare e solo in seguito si scoprì che le fiamme erano dovute all’esplosione di un altro aereo. L’ultimo, coraggiosamente dirottato dai passeggeri, si schiantò in un campo in Pennsylvania. In merito a quest’ultimo, si crede che l’obiettivo potesse essere la Casa Bianca (fatta evacuare quando scoppiò l’incendio al Pentagono) o il Congresso. Alle 10:07 crollò il primo grattacielo colpito a New York e venti minuti dopo la stessa sorte toccò alla seconda torre, due ore dopo cedette un altro palazzo vicino al World Trade Center a causa dei danni provocati dalle precedenti esplosioni.
 
Gli attentati causarono la morte di 2.823 persone a New York, 184 al Pentagono e 40 in Pennsylvania, ma ci furono oltre 6000 feriti, nei 4 aerei dirottati e precipitati c’erano 264 passeggeri. È poi importante sottolineare anche la perdita di oltre 400 poliziotti, vigili del fuoco e personale medico che sono rimasti uccisi nel tentativo di salvare vite umane e di tirare fuori i feriti dalle macerie degli edifici crollati.
 
In seguito all’attentato, il Governo degli Stati Uniti iniziò una lunga campagna antiterroristica che prese il nome di “Global War on Terror”(GWOT). Vennero implementate nuove misure di contenimento e riduzione del danno, ma anche misure di prevenzione e di salvaguardia della sicurezza nazionale e internazionale.
 
Alla base dell’attacco c’era la convinzione da parte di Osama Bin Laden (1957-2011), leader dell’organizzazione terroristica, che gli Stati Uniti fossero in realtà una “tigre di carta”, ossia un paese molto più debole di quello che appariva. Sfortunatamente, gli attacchi dell’11 settembre confermarono questa tesi e posero l’attenzione sui punti fallaci della sicurezza statale.
Al contempo, tale avvenimenti dimostrarono la portata globale di Al-Qaeda: stando infatti a quanto contenuto nel report ufficiale della Commissione sull’11/09 (“National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States”), l’attacco era stato pianificato da molto tempo e aveva coinvolto terroristi provenienti da diverse zone del Medio Oriente. Precedentemente all’attacco, ci sono stati molteplici meeting in Malesia con lo scopo di pianificare precisamente ogni singola azione dell’attentato. Questa precisa organizzazione è evidente anche dal fatto che i dirottatori avevano preso lezioni di volo negli Stati Uniti e che, alla base dell’attacco, vi erano dei finanziamenti consistenti provenienti dalle famiglie degli sceicchi degli Emirati Arabi Uniti. 
 
Dalle e-mail di uno degli attentatori è possibile ricostruire gli stratagemmi e le parole crittografate usate per tenere tutti i partecipanti al corrente dello stato di avanzamento della pianificazione senza destare sospetti. In uno dei messaggi si legge: “The first semester commences in three weeks…Nineteen certificates for private education and four exams.” (“Il primo semestre inizia tra tre settimane… Diciannove certificati per istruzione privata e quattro esami”). Alla luce degli avvenimenti e dei particolari, tale messaggio si riferiva al fatto che l’attacco sarebbe stato portato a compimento dopo tre settimane e che avrebbe coinvolto 19 terroristi e 4 target specifici all’interno degli USA.
 
In una delle mail successive, l’attentatore forniva informazioni circa la data e le modalità in cui si sarebbe svolto l’attacco. Il contenuto del messaggio rinviava a “due bastoni, un trattino e una torta con un bastone verso il basso” (“two sticks, a dash and a cake with a stick down”); riportando graficamente quanto scritto, il risultato sarebbe stato “11 - 9”, ossia l’11 settembre, giorno in cui è  effettivamente stato portato a termine l’attacco.
 
1.3  Il coping attraverso le immagini 
 
L’11 settembre può essere raccontato anche attraverso una serie di immagini e video struggenti diventati simbolo di un episodio che ha segnato l’umanità intera. Le stesse fotografie raccontano le storie delle vittime e tra queste vi è il celebre scatto “Falling Man”, che oggi è diventato rappresentativo non solo di quel tragico evento, ma anche delle diverse reazioni del popolo americano.
 
La foto è stata scattata dal fotografo Richard Drew, chiamato dall’agenzia Associated Press per documentare l’accaduto. L’identità dell’uomo raffigurato non è mai stata accertata, ma è stato ipotizzato che potesse essere Norberto Hernandez, pasticciere di un ristorante situato al 106° piano della Torre Nord. La foto è diventata iconica anche per la posizione dell’uomo, in quanto la sagoma è verticale e con le braccia allineate al corpo, come se si fosse tuffato nel vuoto. Nonostante si possa pensare a un tentativo di fuga, è evidente la rassegnazione e la conseguente scelta di suicidio. Sembra che l’uomo abbia eseguito una valutazione dei pro e dei contro e abbia scelto il male minore, data l’impossibilità di fuggire dal 106° piano e quindi di sopravvivere. La scelta razionale è stata una conseguenza della messa in atto di una strategia di coping legata alla situazione: il soggetto in questione, avendo compreso  l’incontrollabilità dell’evento, non si è fatto prendere dal panico e ha gestito la situazione nell’unico modo possibile.
 
Oltre all’iconico “Falling Man”, ci sono molte altre immagini di persone che precipitano nel vuoto. La maggior parte si sono fatte prendere dalla paura e, attraverso un impulso legato all’autoconservazione, hanno attuato tecniche di coping legate alle emozioni. Queste caratteristiche vengono messe in evidenza dalla posizione scomposta del corpo e sembra quasi che il soggetto si sia lanciato senza riflettere sulle possibili conseguenze. 
 
In alcune foto si vedono molte persone allontanarsi da Manhattan con una certa compostezza, anche se alle loro spalle vi è una nube di fumo e detriti. Si tratta di una strategia di coping che si basa sulla situazione, dal momento che cercano di trovare un modo composto di mettersi in salvo, allontanandosi dal luogo dell’attentato, ma mantenendo comunque la calma e la lucidità, in modo da non generare situazioni violente e aggressive. Al contrario, in altre vi sono persone, che si allontanano di corsa dalla zona vicina al World Trade Center. Sebbene la reazione possa essere considerata normale, visto il trauma subito, in questo particolare momento oltre alla strategia di coping legata alla situazione, che porta a un allontanamento dalla zona per mettere in salvo la propria vita, stavano sicuramente usando anche una strategia di coping che riguarda le emozioni. In quest’ultimo caso, si nota come la paura e il panico abbiano avuto la meglio sulla logica, portando così l’impulso di autoconservazione a prevalere sul resto.
 
Un ulteriore esempio simile è quello dell’economista italiano Ruggero De Rossi, trasferitosi in America in giovane età. Al momento dello schianto del 1° aereo si trovava in prossimità dell’ingresso della Torre Sud, dato che, come da routine, si stava per dirigere al 32° piano della torre per andare a lavorare nell’ufficio dell’azienda Oppenheimer Funds. Tuttavia, arrivò all’edificio con 15 minuti di ritardo, perché si era attardato a scrivere una lettera indirizzata a un familiare residente a Milano. Fortunatamente, riuscì a sopravvivere senza alcuna lesione fisica, ma ancor’oggi continua a ripensare a quel giorno e alle sue azioni. Preso dalla paura e dal panico, si innescò in lui una sensazione legata all’autoconservazione e alle emozioni negative del momento, quindi decise di fuggire per mettersi in salvo. Poco dopo si rese veramente conto dell’accaduto, ma non tornò indietro per aiutare eventuali feriti. Da quel giorno, si sente intrappolato in un senso di colpa costante per essere fuggito e sopravvissuto, a differenza di molte altre persone presenti sul luogo. 
Nel 2021 decise di raccontare la sua storia per ricordare le vittime e per far capire al mondo come questo evento abbia segnato del tutto la sua stessa vita. Proprio dalle sue parole traspare il dolore e sono evidenti le conseguenze nel lungo termine delle sue azioni di coping legato alle emozioni: 
 
«Avevo fatto due passi fuori dal portone, stavo iniziando a correre quando percepii l’ombra dell’aereo passarmi sulla testa. Sentii lo spostamento d’aria, il rumore assordante, lo schianto. Non mi voltai. Correvo. Piangevo. Urlavo. Quando mi fermai, qualche strada più in là, provai un incredibile senso di impotenza. Dovevo tornare indietro ad aiutare? Il senso di colpa di essermi salvato, non mi ha più lasciato. Dopo l’evento molti hanno chiesto aiuto. Io in qualche modo ho rimosso. Ma so quanto quel giorno ha determinato la mia vita. Il mio matrimonio si è sgretolato e lo capisco. Diventai paranoico. Ossessionato dal terrorismo islamico. La notte avevo incubi terribili. Sognavo fiamme, saltavo dal letto per mantenere la parete convinto che stesse per travolgere la mia famiglia. Ma ripresi presto a lavorare e quello mi costrinse a mettere da parte le emozioni».
 
Sono state anche diffuse fotografie particolarmente emblematiche, che ritraggono i vigili del fuoco che hanno prestato servizio la mattina dell’attentato. C’è chi si lascia andare sopraffatto dal tragico evento e piange sulle macerie del World Trade Center. Si tratta di un tipico esempio di coping legato alle emozioni, dato che lasciano sfogo alla crisi di pianto, nonostante il tentativo di autocontrollo e di porre fine alle emozioni negative. Ma ci sono anche altri vigili del fuoco che, a differenza del precedente,  hanno adottato una strategia di coping legata alla situazione. Quest’ultimi hanno reagito senza piangere o mostrare altra emozione apparente, ma rendendosi conto della gravità dell’evento si sono recati ad aiutare le vittime. Ciò significa che sono riusciti a trovare il modo di non lasciarsi coinvolgere emotivamente e trascinare dal trauma, mantenendo dunque lucidità e “freddezza”. 
 
Oltre ai soccorritori del 911, sulla scena erano presenti diversi civili rimasti a spostare le macerie per trovare i feriti. Proprio come i vigili del fuoco, questi volontari hanno messo in pratica delle azioni nate da una riflessione attenta dell’evento e delle sue conseguenze, grazie alle tecniche di coping legato alla situazione. Tuttavia, c’è una compresenza di coping legato alla situazione con coping legato alle emozioni, dato che i presenti sono riusciti a gestire le emozioni negative trasformandole in azioni positive, quali l’aiuto nei confronti delle vittime.
 
In conclusione, viene proposto un ulteriore esempio di coping legato alle emozioni, che sembra essere la strategia adottata dalla maggior parte dei presenti sul posto, ossia il distaccamento sotto forma di “Bystander Effect”, conosciuto anche come “effetto spettatore”. Si tratta di un singolare fenomeno psicologico e sociale che avviene nei casi in cui gli individui non offrono nessun aiuto a una vittima quando sono presenti altre persone sul luogo dell’accaduto. La presenza di altri spettatori riduce i sentimenti individuali di responsabilità personale e fa decrescere la velocità della reazione. I ricercatori aggiungono che la spiegazione del fenomeno risiede maggiormente nella reazione di ciascun individuo al comportamento degli altri presenti, piuttosto che nella sua personale indifferenza nei confronti della vittima.
 
1.4   Disposizioni e misure di prevenzione: Stati Uniti vs Regno Unito
 
In seguito agli eventi dell’11 settembre, gli Stati Uniti in particolar modo hanno cercato di sviluppare delle strategie di prevenzione a livello nazionale e internazionale. 
Stando al Dipartimento di Stato degli USA, la prevenzione delle minacce terroristiche è fondamentale, in quanto i gruppi come ISIS, al-Qaida e Hezbollah continuano a organizzare attacchi per colpire il mondo occidentale. Le minacce poste da questi gruppi devono essere combattute congiuntamente, attraverso un impegno costante e non solo a livello diplomatico; è necessario dotarsi delle conoscenze e degli strumenti fondamentali per prevenire, individuare e rispondere alle minacce che possono ledere la sicurezza statale. Oltre a tutto ciò è necessario un potenziamento  delle forze di polizia e del sistema giudiziario, aumentando così i controlli di confine e incrementando lo scambio d'informazioni tra le varie organizzazioni e i paesi stessi; per questo il Dipartimento di Stato collabora con il Dipartimento della Difesa, la Sicurezza Nazionale, i Servizi di Intelligence e molti altri.
 
Per combattere efficacemente la minaccia terroristica bisogna adottare un approccio multi-direzionale, perché non si può pensare di sfruttare unicamente le forze armate, ma è necessario mettere in pratica tutte le capacità d’Intelligence, compreso il “semplice” scambio d'informazioni. Non bisogna dimenticare che il terrorismo non colpisce solamente il mondo occidentale, anzi, la maggior parte degli attacchi avvengono a livello “locale”, quindi è proprio lì che bisogna iniziare se si vuole eliminare il fenomeno alla radice. Un esempio di questo è stato riportato da Timothy Alan Betts, coordinatore per l’antiterrorismo e inviato speciale per la coalizione globale contro l’ISIS, al summit internazionale antiterrorismo tenutosi in Israele il 13 settembre di quest’anno. Secondo Betts, ora che il cosiddetto califfato è stato almeno parzialmente sconfitto, bisogna prendere in considerazione gli strumenti civili, tra cui il rafforzamento delle capacità e i programmi di stabilizzazione nei territori liberati dall’ISIS. Solo così si potrà garantire una certa sicurezza in zone come Iraq e Siria. Tali strumenti sono essenziali anche perché impediscono ai terroristi di guadagnare terreno e di attrarre nuovi adepti attraverso i processi di radicalizzazione. Non bisogna poi dimenticare che per sconfiggere una rete fitta come quella terroristica bisogna stringere numerose alleanze diplomatiche, che permettano di mettere in pratica diversi programmi extra-militari; la sola azione militare infatti non basta, perché quando si elimina fisicamente una minaccia ne nasce una nuova poco tempo dopo. Gli approcci civili sono cruciali, come il contrasto all’estremismo violento, il rafforzamento dei controlli ai confini e i programmi di riabilitazione e reinserimento per coloro che decidono di rinunciare alla violenza.
 
È importante elaborare una strategia multilaterale, creando connessioni non solo a livello locale, ma anche a livello globale cercando di sfruttare tutte le risorse disponibili per prevenire, per quanto possibile, ogni tipo di minaccia. Dall’11 settembre, gli Stati Uniti hanno creato una rete antiterrorismo flessibile, che unisce individuazione delle minacce, analisi del rischio, scambio d'informazioni, watch list, partnership con enti pubblici e privati e programmi di formazione. 
 
Un altro tema affrontato dal Governo Federale riguarda la prevenzione della radicalizzazione e del terrorismo violento. Il Governo si impegna quotidianamente per supportare e aiutare le comunità e i partner locali attraverso lo scambio d'informazioni in materia di estremismo e radicalizzazione, rafforzando la cooperazione con le forze dell'ordine e collaborando sempre di più con le comunità, affinché queste si possano proteggere dalla propaganda, che ormai si è diffusa anche online. Tuttavia, lo sforzo del Governo da solo non è sufficiente, l’ideologia dell’odio deve essere combattuta in primis all’interno delle comunità stesse, in particolare in quelle musulmane, che spesso vengono prese di mira dai terroristi per trovare nuove reclute da inserire nell’organico dell’organizzazione terroristica. Molte comunità musulmane in America hanno condannato categoricamente il terrorismo e collaborano attivamente con le forze dell’ordine. Sono stati creati  numerosi progetti rivolti ai più giovani per evitare che si avvicinino all’ideologia estremista.     
 
Il terrorismo è un fenomeno diffuso, ben radicato e in continua evoluzione, quindi bisogna essere in grado di adattarsi e di migliorare costantemente le proprie strategie di difesa e prevenzione, è necessario essere più furbi e cercare di anticipare le mosse dell’avversario, per questo il lavoro dei servizi segreti è fondamentale. Negli ultimi anni gli attacchi sono stati numerosi, ma l’umanità deve studiare la storia e imparare dagli eventi passati in modo da riuscire ad affrontare una minaccia forte e difficilmente debellabile.  
 
Purtroppo l’11 settembre è stato il punto di partenza per numerosi altri attentati, non solo da parte di Al-Qaeda, ma anche di nuovi gruppi terroristici, come l’ISIS, che ha terrorizzato l’Europa negli ultimi anni. Proprio per questo, molti paesi hanno redatto delle linee guida per prevenire o quantomeno affrontare nel modo migliore possibili attacchi futuri. Un esempio significativo può essere quello del Regno Unito, che ha pubblicato il seguente documento al fine d'informare la popolazione sulle possibili minacce e su come gestire in maniera appropriata un momento di crisi, senza farsi prendere dall’ansia, scatenando il panico generale. Il NaCTSO (National Counter Terrorism Security Office), sezione antiterrorismo del National Police Chiefs’ Council britannico, ha pubblicato delle linee guida a proposito delle procedure da seguire in caso di attacco. In allegato a esse vi è una lista di consigli utili per cercare di gestire lo stress della situazione nel miglior modo.
 
Viene consigliato un lockdown dinamico nel caso di minaccia a un particolare sito o edificio limitando quindi entrate e uscite. L’obiettivo di tale procedura è di fare in modo che le persone non accedano ad aree pericolose e di scoraggiare l’accesso all’edificio ai terroristi. Un elevato livello di pianificazione preventiva può infatti fungere da deterrente. Nel caso in cui non sia stato possibile prevenire l’attacco, il lockdown dinamico potrebbe rallentare le azioni violente degli aggressori e ridurre notevolmente il numero di vittime. La prima cosa da fare in casi simili è identificare tutti i punti di accesso, pubblici e privati, tenendo presente che non si parla solo di porte e cancelli, ma di tutti i passaggi che garantisco un qualsiasi tipo di accesso. Bisogna evitare di far scattare l’allarme antincendio, perché porterebbe solo a una risposta sbagliata da parte delle persone nell’edificio, creando probabilmente uno stato di ansia e panico generale.
 
Il NaCTSO ha inoltre redatto i cosiddetti Stay Safe principles, che danno indicazioni su come gestire situazioni pericolose, come un attacco terroristico. Il primo consiglio è di scappare, tenendo sempre la mente lucida e cercando la via d’uscita più sicura. Prima però bisogna considerare come arrivare alla meta senza esporsi a un pericolo ancora maggiore, quindi se il percorso non è sicuro, è consigliabile nascondersi. È inoltre importante cercare di rimanere fuori dalla linea del fuoco, tenendo a mente che “se tu vedi l’attentatore allora lui potrebbe vedere te”. Ovviamente nascondersi non garantisce una completa sicurezza, in quanto proiettili ed esplosioni non si fermano davanti alle finestre e nemmeno davanti alle pareti, siano esse anche di metallo, ma rimanere fuori dal campo visivo degli attentatori può garantire un certo vantaggio. A seconda delle situazioni, nel caso in cui scappare sia impossibile, bisogna evitare di rimanere intrappolati, cercando di non farsi prendere dalle emozioni più negative, facendo silenzio e trovando un rifugio sicuro.
 
L’ultimo punto indicato nelle linee guida riguarda l’eventuale possibilità di contattare le forze dell’ordine. Se fosse possibile, bisognerebbe comunicare il numero di attentatori, la posizione in cui sono stati visti per l’ultima volta, descrivendo la fisionomia, l’abbigliamento e i tipi di armi utilizzate. Sarebbe anche consigliato fornire informazioni riguardo eventuali vittime e i tipi di ferite riportate, cercando sempre di fare del proprio meglio per mantenere in vita i presenti. Rimanere calmi è fondamentale in situazioni di questo tipo, in quanto permette di gestire ansia e panico, garantendo una maggiore sicurezza per se stessi e per gli altri.
 
Senza dubbio molti di questi consigli sarebbero stati difficilmente adottabili in un attentato come quello dell’11 settembre, in quanto si tratta di un caso particolarmente estremo in cui le vie di fuga e le possibilità di rimanere in vita erano alquanto scarse, ma negli ultimi anni anche la tipologia di attacco è cambiata, quindi non bisogna pensare che se tali linee guida fossero state pubblicate precedentemente sarebbe cambiato qualcosa. Forse qualcuno non avrebbe perso la vita perché in grado di gestire il panico, ma l’importante oggi è cercare di sfruttare al meglio tutte le strategie di coping elencate precedentemente per essere in grado di affrontare con maggior lucidità possibili eventi futuri.    
 
CONCLUSIONE 
 
L’11 settembre ha rappresentato e rappresenta ancora oggi una data chiave della storia dell’umanità, sia dal punto di vista dello studio criminologico, per quanto riguarda l’attentato in sé, sia da quello psicologico, in quanto ha evidenziato la fragilità umana di fronte a un evento drammatico e traumatico. Ha trovato impreparati gli Stati Uniti, considerati da sempre una potenza internazionale, ma anche tutta la popolazione mondiale dal momento che tutti nel mondo hanno assistito, anche a distanza, alla brutalità dell’accaduto. 
 
Tale evento ha intensificato anche lo studio di quelle che oggi vengono chiamate strategie di coping, con le quali vengono analizzate le reazioni e le diverse maniere di affrontare una crisi globale. Un fenomeno con una tale portata ha permesso di osservare da vicino le diverse sfaccettature del comportamento umano, mettendo in evidenza il fatto che ognuno reagisce a seconda della propria esperienza personale: c'è chi è in grado di non farsi prendere dal panico e di dimenticare se stesso mettendo al primo posto l’aiuto nei confronti di chi ha più bisogno, come hanno fatto i tantissimi vigili del fuoco, agenti e soccorritori che si sono “tuffati” in quella cieca  disperazione, cercando solo di salvare più vite possibile. C’è anche chi si fa trasportare da emozioni negative quali panico e angoscia senza saperle gestire, diventando così vittima non solo della situazione, ma anche di se stesso. Ci sono anche persone che, come detto in precedenza parlando del Bystander Effect, si paralizzano e come automi non sono nemmeno in grado di chiedere o fornire aiuto. Infine, c’è chi tristemente si rassegna al proprio destino non vedendo alcuna via di fuga o possibilità di sopravvivenza, come il famoso “Falling Man”, che si è lasciato letteralmente cadere nel vuoto, ma in modo quasi consapevole, al contrario di chi, come molti altri in quell’occasione, segue impulsivamente il proprio istinto di autoconservazione e si getta, sperando in una specie di “aiuto provvidenziale”. 
 
Ogni persona, proprio per essere in grado di gestire al meglio una qualsiasi situazione di crisi dovrebbe quantomeno informarsi, leggendo le linee guida e consigli da adottare per cercare di salvare non solo se stesso, ma anche gli altri. Il terrorismo “gioca” sulla paura delle persone, sul panico generale che un “semplice” attacco è in grado di provocare e chi commette gli attacchi punta sull’effetto sorpresa, che spesso paralizza la gente o fa scatenare le masse in maniera disordinata e scomposta,  creando un danno ancora maggiore.  
 
La prevenzione serve proprio a evitare che tali eventi traumatici si verifichino - nella storia ce ne sono stati anche troppi - e a prendere coscienza della situazione intervenendo alla radice del problema. Il terrorismo non va combattuto solo nei “nostri” paesi occidentali, ma va combattuto a livello locale, dove nasce e si sviluppa. Bisogna liberare quelle nazioni che sono ormai “impregnate” di un’ideologia di odio e di estremismo violento. L’eliminazione della radicalizzazione serve a creare un ambiente più sicuro per tutte quelle persone che quotidianamente sono vittime di attacchi. È da qui che si può scrivere una nuova pagina della storia, con la speranza che sia positiva.
 
di Elena Pinton, Lucrezia Menegon e Matteo Colnago