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L'Isis in crisi di bilancio

Secondo uno studio di IHS Jane’s emerge che nel marzo 2016 le entrate mensili dello Stato islamico sono scese a 56 milioni di dollari. A metà 2015, l’insieme dei ricavi su base mensile era in media di 80 milioni di dollari. Il rapporto aggiunge inoltre che la produzione di petrolio nelle zone sotto il controllo jihadista è anch’essa diminuita, passando da 33mila a 22mila barili al giorno. Almeno la metà dei soldi che confluiscono nelle casse di Daesh provengono dalle tasse e dalla confisca di imprese e beni. Il petrolio costituisce il 43%, mentre la parte restante è frutto del traffico di droga, vendita di energia elettrica, cui si aggiungono donazioni. Per sopperire alle perdite, i leader del movimento ultra-fondamentalista islamico sunnita hanno aumentato i balzelli nei servizi di base: fra questi vi sono le tasse agli autisti di camion, imposte per chi vuole installare o riparare antenne paraboliche e “dazi sull’uscita” per chi vuole lasciare una città o un villaggio nelle mani dell’Isis. Secondo invece il Centre on Religion and Geopolitics la dissoluzione dell’autoproclamato califfato non “porrà fine al jihadismo globale perché per realizzare questo obiettivo bisogna sconfiggere la sua ideologia teologicamente e intellettualmente”. Il rapporto sottolinea come il pericolo più grande per la comunità internazionale non sia rappresentato tanto dagli uomini del “califfo”, ma dai gruppi che condividono la sua stessa visione e che vengono ancora del tutto ignorati. L’Occidente, sostiene l’istituto, si sforza di dividere i gruppi ribelli siriani in “moderati” ed “estremisti”, ma queste distinzioni sono inappropriate perché le stesse formazioni combattenti non sanno farne una distinzione.