Il mistero delle spie naziste (2a parte)

Valutazione attuale:  / 0
ScarsoOttimo 
Creato Lunedì, 01 Giugno 2015 19:43
Ultima modifica il Martedì, 10 Novembre 2015 14:00
Pubblicato Lunedì, 01 Giugno 2015 19:43
Visite: 7321

La Sicilia era al centro del Mediterraneo, un posto strategico se si considera la sfera d’influenza che gli americani avevano intenzione di raggiungere sui paesi del Nord Africa, dei Balcani e sul Medio Oriente, con la vicenda israeliana già abbondantemente pianificata nella stanza dei bottoni in attesa di essere attuata. Qualcuno sentenziò alla Casa Bianca -La Sicilia deve essere nostra.  E “cosa nostra” fu. Dopo la fine della guerra un fiume di sindaci, funzionari, amministratori in odor di mafia fu posta ai vertici delle città, delle organizzazioni, della vita politica, fu creato anche un partito idoneo al contenimento di tali soggetti, con tanto di “covert operation” , una bella croce stampata sul simbolo ed il coinvolgimento di onestissimi uomini di chiesa che partecipando attivamente alla lotta al comunismo avrebbero protetto i beni ecclesiastici tanto cari alla chiesa cattolica. Niente assoggettava i siciliani di più della religione e della mafia, per questo la Democrazia Cristiana piantò le proprie radici sull’isola estendendo i propri artigli in tutta la penisola, ma il cuore ed il cervello di essa si trovavano oltreoceano. Questo connubio politica, religione, mafia andò avanti coinvolgendo uomini e generazioni, da Don Luigi Sturzo a Wojtyla, da Don Calogero Vizzini a Totò Riina, da Giulio Andreotti ai protagonisti del “nuovo miracolo italiano”, in un certo senso si interruppe con la caduta del muro di Berlino quando il mutato scenario internazionale non rendeva più indispensabile questo patto scellerato. Troppo tardi, la mafia aveva piantato radici, si era innestata così a fondo nella vita civile italiana da divenirne un cancro vero e proprio dotato di una autonomia ed una forza economica, militare e sociale tale da influenzare la politica, anzi di divenirne una parte importante. La mafia si era evoluta nel tempo, non più associazione a delinquere ma organismo parapolitico, paramilitare, al servizio di un progetto politico (la lotta al comunismo nell’ambito della guerra fredda) riconosciuta, seppur segretamente, dal più potente paese della terra. La neonata C.I.A. di cui la mafia fu il braccio armato fino all’arrivo di Gorbaciov,  coinvolse gli uomini d’onore in altre scabrose vicende che questo articolo non tratta, lo studio di questi fatti ci svela una realtà inquietante, un paese moderno ed industrializzato come l’Italia teatro di tecniche di infiltrazioni militari e politiche da parte di un paese dominante che ne determina e ne influenza pesantemente la storia condizionandone il futuro. Un’isola sacrificata sull’altare di interessi ed equilibri internazionali delicatissimi, data in pasto alla mafia da uomini senza scrupoli che dalla stanza dei bottoni ne hanno deciso il futuro. E’ quello che accade a molti paesi sulla faccia della terra, luoghi scelti da qualcuno per perpetrare i più efferati crimini perseguendo logiche di interesse nazionali o legate a qualche lobby con grave danno per le popolazioni locali. Quello che accadde tanti anni fa al largo di New York va attentamente valutato poiché è la chiave di lettura di tante altre vicende accadute nel corso degli anni passati e fino ai giorni nostri, dalla strage di Portella della Ginestra ai falliti Golpe in Italia, dall’uccisione degli uomini che volevano cambiare, Kennedy, Moro, Falcone eccetera, all’invasione dell’Iraq per finire al caso del M.U.O.S. di Niscemi. Non fu casuale l’incontro tra i servizi segreti americani e la mafia, tutto fu pianificato nei minimi dettagli, il patto segreto che avrebbe affossato la Sicilia negli anni a venire fu deciso in una stanza dei bottoni da qualche parte a Washington. La risoluzione dell’enigma sta nella comprensione dei fatti che accaddero subito dopo lo sbarco delle spie naziste sul suolo americano, il filo è sottile, bisogna aguzzare l’ingegno per capire. Per un trentennio la storiella ha funzionato, trent’anni di silenzio e di depistaggi che però non ci impediscono ad arrivare alla soluzione, oggi si sa tutto e tutto può essere reinterpretato. Nessuno può aver chiesto alla mafia di collaborare alla cattura delle spie naziste, quest’incontro casuale ed il premio di buona condotta che il governo americano dette alla mafia e’ un’autentica balla atta a coprire quello che invece fu un preciso e scellerato patto tra organizzazioni, da un lato i servizi segreti americani, dall’altro le famiglie americane e siciliane facenti parte di cosa nostra e sullo sfondo la guerra fredda ed il nemico da combattere: il comunismo. Le prove sono venute fuori in un secondo tempo, le spie naziste del giugno 1942 si autoaccusarono, non fu la mafia ne a catturarle ne a svelarne l’identità; non tutte e otto, due in particolare collaborarono fin da subito con l’F.B.I., si tratta di George John Dasch e Ernst Peter Burger  i quali con loro dichiarazioni instradarono gli uomini di Hoover verso la pista investigativa corretta che portò all’arresto di tutte e due le squadre di sabotatori. I due collaboratori vennero condannati a trenta anni di prigionia poi condonati, gli altri furono condannati a a morte e giustiziati l otto agosto del 43; in un best seller di successo, “The ninth man” scritto da John Lee si narrano le gesta di un ipotetico nono sabotatore che avrebbe nientemeno che attentato alla vita del presidente intrufolandosi alla Casa Bianca sotto le mentite spoglie del giornalista Sheppard ed arrivando ad un passo dal compiere l’azione criminosa. Il romanzo è stato opzionato da Hollywood per ben sette volte, si mormora di un misterioso veto che gli impedisce di divenire un film; sarà vero? Una cosa è certa, indirettamente le gesta di questi otto uomini ci rivelano che la storiella della mafia premiata per il suo collaborazionismo non è vera, l’accordo tra l’O.S.S. e cosa nostra fu un atto deliberato e studiato nei minimi dettagli molti mesi prima, forse già nel febbraio dello stesso anno quando il transatlantico Normandie fu incendiato mentre era alla fonda del porto di New York. Anche allora si parlò di sabotaggio, ma la logica impone un ragionevole dubbio; e se anche in quel caso si fosse trattato di depistaggio? Se si fosse trattato di un’azione eclatante per giustificare agli occhi del mondo negli anni futuri, la precisa scelta del governo degli Stati Uniti di sancire un accordo con la criminalità  organizzata italiana? La risposta a questo quesito è arrivata, tardi ma è arrivata. Il 18 marzo 1991 lo ammise l’ex direttore della C.I.A. E. Colby in una celeberrima intervista ai microfoni del TG2 rilasciata al giornalista Gianni Bisiach. C’è voluto tempo, ma ogni pezzetto del mosaico alla fine è andato al suo posto; il puzzle è completo; furono create ad arte le condizioni affinché nel nostro paese proliferasse una vasta area di illegalità e di crimine i cui effetti nefasti, mi pare, ancora oggi li subiamo. La narrazione di questa vicenda non vuole essere la risposta assoluta, ma un interessante chiave di lettura che ci aiuterà a comprendere.

di Giuseppe Barcellona